Italia
Dai palchi di Craxi al nuovo Pd
La sindrome Torre di Babilonia
che esalta le manie di grandezza
La grandeur può essere una percentuale: il 40,8% sarà trionfalmente esteso, sullo sfondo del palco all’Ergife, a dare la dimensione della potenza e dell’enfasi piddina ai tempi di Matteo Renzi. Il riflesso classico ci ha imposto il ricordo di Bettino Craxi e dei suoi congressi anni Ottanta affidati all’architetto Filippo Panseca, con la gradinata ottagonale e il palco montato su gradoni a specchio e incorniciati dal neon (Verona 1983), con il tempio greco (Rimini 1987), con gli stracitati maxischermi sulle facce di una piramide (Milano 1991), col fondale a restituire il Muro di Berlino appena caduto (Bari 1991). La sindrome della Torre di Babilonia, che doveva toccare il cielo a maggior gloria degli uomini, non ha ancora trovato cura: da Craxi in poi e soprattutto nella Seconda repubblica, i partiti hanno curato minuziosamente l’allestimento della vanagloria. Craxi ebbe una grandezza, ma Pierferdinando Casini autocelebrò la propria - già più discussa - con un palco immodestamente lungo sessantacinque metri (Roma 2007), con imponenti rampe laterali e un fondale di 300 metri quadrati (un attico) a suggerire che «l’alternativa c’è, costruiamola al centro» - e guardiamola nei sei schermi al plasma da 42 pollici disseminati in sala.
Siccome è sempre complicato stupire coi fatti e le idee, ci si prova con la scenografia, e da Panseca in poi è stato un lavoro per archistar. Lo studio di Vittorio Gregotti (Roma 1997) restituì il rosso al Pds - che ingegno! - dopo l’azzurrino berlusconiano di due anni prima, ma soprattutto un podio centrale e circolare, con cinque gradini a sfumare verso il bianco e il rosso per un’aspirazione patriottica; «il futuro entra in noi molto prima che accada», diceva lo slogan preso da Rainer Maria Rilke. Massimiliano Fuksas offrì la sua arte a Fausto Bertinotti (congresso di Rifondazione comunista, Rimini 2002) e ne cavò un’ambientazione minimalista con l’eccezione tel tavolo di presidenza, lungo 44 metri a testimoniare che nel luogo della riflessione politica c’è una sedia per tutti, e di due maxischermi da 250 metri quadrati l’uno. Mario Catalano studiò l’atmosfera del congresso costitutivo del Popolo della libertà (Roma 2009), e dunque un ampio palco bianco su cui fu montato un ponte con lo scopo di simboleggiare il passaggio dal vecchio al nuovo. Come in una gara di virilità, Catalano volle maxischermi imparagonabili a quelli dei concorrenti: due laterali, da quattrocento metri quadrati l’uno, su cui scorrevano le immagini - poi riproposte ferocemente a ogni evento successivo - della compiaciuta storia berlusconiana.
A sinistra si viene da qualche anno di sobrietà, o di depressione, proporzionata ai risultati elettorali. Forse l’ultimo sussulto di orgoglio estetico si era avuto al Lingotto (2007) per il lancio della leadership di Walter Veltroni, che volle uno sfondo dorato, il rosso soltanto per il kennediano «I care», il motto stampato in bianco a ricordare che «è il tempo della sinistra nuova». E in fondo il meno megalomane di tutti è stato proprio Silvio Berlusconi, forse perché di congressi non ne ha quasi fatti, giusto qualche convention per l’acclamazione, e la costante implacabile dello sfondo celeste macchiato al massimo da un paio di soffici nuvolette bianche. Uno stile quasi new age sottolineato (Milano 1998) dall’arpista svizzero Andreas Wollenveider.
Tutte manie di grandezza che non hanno portato bene ai nostri campioni recenti, e auguriamo a Renzi che gli vada meglio. In fondo nemmeno la ostentata modestia si è tramutata in un’assicurazione di sopravvivenza: nel 1997, a Milano, la Lega mise in piedi un palco che doveva sembrare una piazza e, siccome era dicembre, il Centro di Milanofiori fu tappezzato dalle foto di un Babbo Natale (il consigliere comunale milanese Guido Tronconi) che distribuiva caramelle ai bambini: argomento politico di rivedibile presa.
mattia feltri