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martedì 13 maggio 2014

Il paradosso di elezioni europee in cui non si parla di politica europea...

LA STAMPA

Cultura

Il paradosso

delle elezioni

europee

Non è certo una novità che al momento delle consultazioni elettorali la politica estera spesso finisca per risultare il «socio minore» all’interno del dibattito politico. Le priorità più pressanti, per gli elettori, si riferiscono al contesto socio-economico interno, alle condizioni di vita concrete ed immediate. I politici lo sanno benissimo, così che – anche quando possiedono la sensibilità e le conoscenze necessarie ad affrontare temi internazionali – evitano di mettere questi temi al centro delle rispettive campagne. L’elettore medio, si sa, è tendenzialmente isolazionista, anche in Paesi che, come gli Stati Uniti, sono fortemente impegnati a livello mondiale con uomini e mezzi finanziari.

Detto questo, risulta veramente clamoroso vedere come nella campagna elettorale per le imminenti elezioni per il Parlamento Europeo la politica internazionale sia la grande assente.

Si discute sull’euro, su austerità contro crescita, sul futuro del welfare, sul problema dell’occupazione soprattutto giovanile, sullo sviluppo ulteriore delle istituzioni europee, e persino sull’identità cristiana o plurale dell’Europa – ma è quasi impossibile trovare riferimenti all’Unione Europea come soggetto di politica estera, alle sfide alla sicurezza e alle strategie, e ai mezzi, per farvi fronte.

L’unica eccezione si riferisce a sporadici e poco approfonditi cenni alla «crisi del giorno».

Ovvero all’instabilità dell’Ucraina e al revisionismo storico della Russia di Putin. Anche in questo caso però mancano non solo analisi approfondite, ma anche prese di posizione e proposte alternative dei candidati e dei raggruppamenti politici su come far fronte a un cambiamento non superficiale del quadro geopolitico del nostro continente.

È come se si fosse dimenticato che esiste una cosa che si chiama «Politica estera e di sicurezza comune –Pesc», e nel suo ambito anche una «Politica europea di sicurezza e difesa –Pesd». Nessuno ne parla, nessuno fra i candidati ne affronta contenuti, limiti, prospettive. Nessuno propone linee di sviluppo e priorità alternative. E nessuno menziona lo strumento che l’Unione si è data ormai da quattro anni per perseguire questo insieme di obiettivi di politica estera con un proprio embrionale servizio diplomatico, il «Servizio europeo per l’azione esterna –Seae».

Ma quale credibilità può avere l’Europa-soggetto internazionale se questo insieme di sigle che definiscono istituzioni e meccanismi rimane avulso da un discorso politico persino nel momento in cui i cittadini europei sono chiamati a eleggere i loro rappresentanti nel Parlamento Europeo, e indirettamente anche la Commissione?

L’Unione Europea ha dal 1999 un Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, e nel 2003 ha approvato un documento sulla Strategia Europea per la Sicurezza che identificava le principali minacce cui far fronte sia in chiave preventiva sia come crisis management: terrorismo; proliferazione di armi di distruzione di massa; conflitti regionali; Stati falliti; criminalità organizzata. Nel 2008 un rapporto sull’applicazione della Strategia concludeva:

«L’Unione Europea deve essere più attiva, più coerente e più capace».

Siamo nel 2014, e sarebbe normale che nel quadro dell’attuale campagna elettorale chi ambisce a rappresentarci a Strasburgo e a Bruxelles si pronunciasse sia sugli obiettivi sul sul perché la Ue non risulta, come sembra difficile contestare, più attiva, più coerente e più capace, e su come fare perché lo diventi.

Non dovrebbe essere troppo difficile. Ad esempio, non vi è alcun dubbio sul fatto che esista in Europa una preoccupazione generalizzata nei confronti del fenomeno delle migrazioni. Una preoccupazione che si traduce, soprattutto nella campagna elettorale condotta da forze politiche conservatrici e populiste, negli apocalittici scenari di un’incontrollabile invasione. È vero che il problema, pur sfrondato delle strumentalizzazioni, è oggettivamente serio e richiede di essere affrontato e governato. Ma bisognerebbe capire, e i politici dovrebbero spiegarlo agli elettori, che l’unico modo di gestirlo non è quello di una problematica «impermeabilizzazione» delle frontiere ed espulsione degli immigrati irregolari (non ci riescono nemmeno gli americani, certo non «buonisti»), ma un impegno sostenuto per affrontare nel quadro di una politica estera europea – finora annunciata piuttosto che realizzata - le radici sia economiche sia politiche dei movimenti di popolazione. I richiedenti asilo arrivano perché scappano da micidiali conflitti, i migranti economici da economie disastrate e sistemi politici repressivi e corrotti. L’Unione Europea aveva ed ha l’ambizione di contribuire, con il suo peso politico e la sua forza economica a creare, soprattutto nelle zone ad essa limitrofe, condizioni tali da ridurre, se non eliminare, le condizioni che sono alla radice di questi fenomeni. Si può fare: basterebbe chiedersi perché non si parla più dell’«invasione albanese» che aveva tanto turbato i sonni degli italiani all’inizio degli Anni 90.

Invece si parla di migranti, ma non di aiuto allo sviluppo e nemmeno delle attività Ue per contribuire alla stabilità politica nelle aree più critiche. Pensiamo in particolare ai Balcani, rispetto ai quali si dovrebbe discutere anche molto criticamente sia dei risultati e delle potenzialità sia dei limiti e delle contraddizioni (vedi la Bosnia, dove l’impegno internazionale, e in particolare europeo, non sembra avere risolto alcuno dei problemi di fondo, sia politici sia economici).

E non dovrebbe nemmeno essere difficile affrontare in chiave politica il discorso sulla politica dell’Unione in tema di allargamento. Come valutare il processo fin qui realizzato? Quali benefici ha apportato, quali costi ha comportato? E che fare per il futuro (Serbia, Turchia, Ucraina)? In che modo lo strumento dell’ampliamento può contribuire alla stabilità, e in che misura è sia politicamente sia economicamente sostenibile? I candidati invece evitano di parlarne, forse proprio perché si tratta di un tema problematico in cui spesso le aspirazioni vengono contraddette dal realismo. Quello che è certo è che eludere i problemi può produrre errori molto gravi e conseguenze molto negative.

È davvero un paradosso. Nel momento in cui il mondo globale rende i confini sempre più teorici e in cui l’Europa, per evidenti ragioni sia economiche sia geopolitiche, può permettersi anche meno degli Stati Uniti di rinchiudersi in una visione autoreferenziale, si sta in questi giorni perdendo un’importante occasione di coinvolgere i cittadini europei in un aperto confronto politico fra diverse proposte su come concepire il ruolo dell’Unione nel mondo.

Roberto Toscano


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