ebook di Fulvio Romano

martedì 27 maggio 2014

Sorgi, l'intuizione di Renzi: sfidare Grillo anziché blandirlo....

LA STAMPA

Italia

“Democrazia Renziana”
Nelle urne le tracce
della vecchia balena bianca

I moderati uniti contro un nemico comune

Un partito vicino 41 per cento. Con il principale avversario che vale più o meno la metà. Un mezzo alleato, o mezzo avversario, che galleggia sul 17. E un paio di satelliti, sul 4, obbligati ad allearsi, se non vogliono fare la fine di tutti gli altri, nel frattempo spariti. Non c’è neppure bisogno di chiedersi chi ci ricorda. È la Dc, ma non quella degli ultimi anni della Prima Repubblica, insidiata dalla collaborazione-competizione con Craxi e indebolita dalla fine del compromesso con il Pci. Piuttosto, quella fanfaniana del ’58, con l’allora potente aretino segretario dello Scudocrociato, presidente del consiglio e a interim ministro degli Esteri; o addirittura quella quarantottesca di De Gasperi e della sconfitta del Fronte popolare.

Certo, è tutto da vedere che il Pd di Renzi, o la «Democrazia renziana», com’è già stata ribattezzata nella lunga notte della vittoria, possa reggere il confronto con il gigante che per più di quarant’anni aveva governato l’Italia nel secolo scorso, dal dopoguerra e dalla nascita della Repubblica, alla sua caduta sotto i colpi di Tangentopoli. Ma l’imprevedibile affermazione alle europee qualche paragone arrischiato lo autorizza. Inconsciamente o no, è stato lo stesso Renzi - a sorpresa pacato, prudente, controllato, nella conferenza stampa di ieri mattina a Palazzo Chigi, in cui tuttavia ha ribadito punto per punto il suo programma, dalla rottamazione alle riforme - ad avvalorare l’impressione nata all’ombra del risultato inatteso che ha portato il Pd a superare il quaranta per cento. Grazie al quale, Renzi ha riacquistato il ruolo di «architrave» di ogni equilibrio politico, quella «centralità», impossibile da sfidare, che i suoi trisavoli democristiani avevano saputo difendere per quasi mezzo secolo.

Più che azzardato, suona fin troppo impietoso il confronto tra il Pci, l’eterno avversario della Dc, e il Movimento 5 stelle che Renzi ha bastonato, dopo averlo sfidato, a differenza di quanto aveva fatto il suo predecessore Bersani, con il tentativo fallito di costruire un governo Pd-M5s. È evidente che rimane un abisso tra le ragioni di carattere internazionale - la guerra fredda, il mondo diviso in blocchi - che impedivano ai comunisti di andare al governo, e gli slogan con cui l’ex-comico s’è rinchiuso via via in una sorta di dorato isolamento. Ma ciò che avvicina lo storico, novecentesco, grande partito d’opposizione di Togliatti-Longo-Berlinguer, con il movimento di protesta che inaspettatamente aveva conquistato il primo posto nelle elezioni politiche dell’anno scorso, è che in fondo, sia i leader togati del Bottegone, sia lo scombinato capo dei grillini, dicevano di voler andare al governo e cacciare la Dc (o il Pd), ma sotto sotto non ne avevano alcuna intenzione: non volendo, o non essendo in grado, di misurarsi con i complessi problemi del Paese. E se i democristiani, sulla «diga anticomunista», ci camparono per decenni, salvo poi fare in Parlamento i migliori accordi con il Pci, l’intuizione di Renzi, di sfidare Grillo invece di blandirlo, è stata la chiave della mobilitazione di un elettorato dai confini mai così larghi e della sua straordinaria vittoria.

Un partito del 40 o 41 per cento viene votato in tutto il territorio, dal Veneto alla Sicilia, e dai più svariati tipi di elettori: anche questo, dall’altro ieri, accomuna Dc e Pd, sebbene in quest’ultimo sia ancora da costruire lo speciale amalgama democristiano che consentiva di militare insieme nella stessa organizzazione a capi partigiani, o più di recente a semi-fiancheggiatori delle Brigate rosse, ed ex-fascisti, o a modesti peones che dormivano nei conventi e ricchi industriali sposati con principesse.

Inoltre, a contribuire alla suggestione della rinascita democristiana sono le origini, più che la stessa natura, di Renzi. Che non è, non può essere Dc, per ragioni di età, ma è cresciuto in quell’humus, ha un padre, e si circonda di amici e collaboratori, come Lorenzo Guerini, Graziano Del Rio e Luca Lotti, che quel metodo e quell’ispirazione ce l’hanno scritta in viso. Cattoliche, se non proprio democristiane, sono anche la giovane ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, figlia di un dirigente della Coldiretti, indispensabile pilastro del sistema Dc, e Simona Bonafè, coordinatrice della campagna delle primarie del 2012, candidata eletta a Strasburgo e più votata nella circoscrizione di Centro. Niente a che vedere, è ovvio, con vecchie signore come Tina Anselmi e Franca Falcucci, e neppure con Rosy Bindi. Ma la scuola è la stessa.

Qui però finiscono i punti di contatto tra due storie politiche di epoche assai diverse - una finita da vent’anni, l’altra appena cominciata. Benché toscano come Fanfani, che tra l’altro era famoso per le sue intemerate, a Renzi, per essere fino in fondo democristiano, mancano le due principali virtù Dc: pazienza e lentezza. Manca ancora l’arte dei rinvii tipica di Moro, e la capacità, che non era solo dei «cavalli di razza», di imprigionare gli alleati in un’inestricabile rete di compromessi, che alla fine svuotavano ogni pretesa innovativa e ogni riforma. Infine è del tutto assente la maestria di Andreotti nello spezzettamento di qualsiasi questione controversa in lunghe serie di sub-questioni, così difficili da ricollegare l’una all’altra, che in conclusione diventava obbligato accordarsi con lui, perché era impossibile ricostruire la vera ragione del contendere.

Renzi, al contrario, è tutto velocità, scatti, scommesse. «Ci metto la faccia», «mi rompo l’osso del collo»: ha un fraseggio pieno di battute e qualche volta perfino di piccole scurrilità; non è mai impassibile, com’erano sempre, invece, i vecchi capicorrente, specie quando si trattava di disarcionare uno di loro, segretario o presidente del consiglio che fosse.

Al dunque, l’unico vero merito, che rischia di aprire le porte del Pantheon Dc al giovane premier, segretario ed ex- sindaco, è tutto politico: perché, diversamente da quel che i suoi maggiori avevano promesso e predicato per tanti anni a Piazza del Gesù, lui i comunisti, in quattro e quattr’otto, li ha sconfitti per davvero.

marcello sorgi