ebook di Fulvio Romano

venerdì 7 giugno 2013

Beati noi, fortunati noi... il monologo di di Maurizio Maggiani

LA STAMPA

Cultura

Maurizio Maggiani

Affida una lacrima alla Repubblica dei nostri padriIl dopoguerra, il boom e il Sessantotto nel monologo che lo scrittore reciterà domenica a Cagliari

Beati noi, beati noi, beati noi.

Sì, fortunati noi.

Fortunati noi, che siamo nati allora, agli albori.

E ci hanno preso e mandati al dispensario e fatto a tutti quanti l’anti tubercolosi e il vaccino del vaiolo, primo e secondo timbro sul braccio sinistro, e con fiducia ci hanno somministrato le prime dosi dell’anti polio, e così siamo cresciuti sani ed eretti, mentre intanto avevamo compagni, nati un po’ più in giù nella campagna e anche solo un anno o due prima di noi, che senza nessuna colpa si sono ritrovati sciancati e butterati per tutta la vita.

Fortunati noi che quando siamo nati c’era già la streptomicina.

E siamo stati cresciuti in modo straordinariamente generoso e sano a solo pochi passi dalle macerie della pellagra e della fame generale.

Fortunati noi, che siamo stati generati da uomini e donne che si sono fatti un mazzo così brandendo magli da fonderia e aghi da maglia, sillabari per scuole serali e tostini per l’orzo, che hanno steso ponti ed elevato palazzi e tornito un esercito di macchine costruttrici di macchine e ripulito un oceano di stalle belanti e muggenti, che hanno bollito e ripassato al tegame con un goccio di olio sterminate pianure di bietta e cicorie, rivoltato non meno di tre generazioni di paltò e rigenerato per decenni i loro completi da sposa e da sposo. E tutto ciò lo hanno fatto stando in piedi, accovacciati, inginocchiati ed elevati su quelle macerie, sulle immonde rovine della patria.

Beati noi che siamo nati da loro, che erano ancora vivi e fecondi e ben disposti dopo la malaria, la gastroenterite, la polmonite, la tubercolosi, le bastonate e le carotate, il sabato fascista e la tessera annonaria, le decisioni fatali e i bombardamenti, la Russia e l’Albania, i tedeschi e gli americani, e il ’43 e il ’44, e Pescara e Salò. Beati noi che di tutto ciò non abbiamo visto niente e quasi tutto ci è stato risparmiato, e quando qualcosa è trapelato è stato per un sentito dire di rare e gloriose leggende notturne, trionfi dei redivivi.

Beati noi che ci hanno fatto senza tanti discorsi.

E senza tanti discorsi ci hanno portato in chiesa e ci hanno fatto benedire il nome. E ne son venuti fuori tutti nomi facili da ricordare, senza troppe intenzioni a caricarci le spalle neonate.

Beati noi che tutto quanto ci è stato fatto per il nostro bene, generati per il meglio, nella certezza che tutto avrebbe preso una piega migliore. [...]

Ed ecco il 1968, più noto con l’abbreviazione maiuscola di Sessantotto, ecco il 1969, e il 1970 e il 1971, il 1972. Che anni di magnifico mistero. Come è stato possibile che accadesse l’accaduto e che fossimo tutti quanti lì quando accadde? Sublimi coincidenze, fortunate evenienze ci portarono da una rissa per futili motivi sessuali in una sala da ballo del sabato a incendiare la morale borghese il lunedì dopo. Dal serrato dibatto di fine estate sull’annunciata uscita autunnale del Gilera 98 quattro marce, alle cogenti parole d’ordine delle occupazioni non autorizzate di pubblico suolo del medesimo autunno. Dalla demenza totale della canzone vincitrice del Festival Bar, Affida una lacrima al vento, canta Adamo, alla coscienza di classe complessiva indotta dal canto corale dell’Internazionale , testo riveduto da Franco Fortini. Ma la vera verità è che fummo allevati perché questo ci potesse accadere. I fondatori della Repubblica ci misero al mondo perché non ci potesse essere negato nulla, ma proprio nulla, di ciò che a suo tempo fu loro negato, in particolare del superfluo sotto ogni forma e sostanza e sintassi. Soprattutto del superfluo a loro ignoto, che pareva ai loro occhi una qualche forma di eternità ultra umana. La fantasia al potere, figuriamoci! Eravamo perciò pronti sin dal concepimento, e potemmo dunque decidere in quattro e quattr’otto di prendere il destino nelle nostre mani e mandare a fuoco tutta la baracca, decrepito vecchiume, intollerabile farsa, micidiale macchina repressiva.

In che curiosa evenienza incappammo. Con tutto quello che avevamo cogitato e vagheggiato, l’agire ci si palesò come un’ovvia propaggine somatica, una costruzione onirica di straordinaria vividezza sensoriale. Con deliziata meraviglia scoprimmo di poterlo fare, di fare e disfare, senza le cavillose precauzioni che avemmo avuto modo di notare nelle lotte dei nostri padri, e senza l’uggiosa necessità di particolari istruzioni in merito. Ci comprimemmo e ci agitammo, e nel cambiare di stato dal gassoso al plasmatico, esplodemmo. Eravamo studenti, fu, di fatto, una dimostrazione pratica nell’aula di chimica. Ci furono danni materiali, ma, a conti fatti, lievi. Sciaguratamente ce ne furono di altra natura.

E allora, disgrazia su di noi, che in quei frangenti i figli della marcescente borghesia si siano messi d’accordo con i figli degli operai e con gli operai stessi senza meno, e abbiano stretto un patto per la vita e per la morte usque et deinde alla vittoria della rivoluzione mondiale. Oh, certo, beati i rampolli, che romanticamente si caricarono dell’onere di predicare il verbo della rivoluzione defezionando dai doppi servizi delle ben protette dimore dei loro innominabili padri, e con signorile sprezzo del ridicolo si riversarono sulle pedane e sui palchi della rivolta generale. Beati loro, dico, che a cagione dei gravi incomodi subiti, gli è stato concesso il regno dei cieli. Ma disgraziatissima la ragazzaglia, che avventatamente lasciò senza bagaglio case e casolari di lande suburbane in via di degrado ma ancora materne, tuttavia ospitali, e sciorinò compatta per le vie e per le piazze fino al limite dei suddetti palchi e pedane, e dal verbo fu nutrita a sazietà, perciocché a questi ultimi figli della plebe non è ancora dato il Regno promesso, ma è stato solo, e sgarbatamente, concesso di giungere fino al cospetto dei suoi dorati cancelli, e lì sostare ab aeternum ad aeternum in disdicevole quiete.

Maurizio Maggiani


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