ebook di Fulvio Romano

mercoledì 12 giugno 2013

Storcono il naso, ma Renzi per le loro elezioni lo usano...

LA STAMPA

Italia

La ricetta dietro alla riscossa dei sindaci

Rosso addio, basta D’Alema, far vedere solo Renzi: così il Pd è tornato vincente

«Il Pd non si intesti questa vittoria», ha avvisato il sindaco di Firenze già lunedì sera, in tv. «Il lavoro è il lavoro nostro, prima che del partito», spiegava ieri mattina Giovanni Manildo davanti a Ca’ Sugana, sede del comune di Treviso appena sottratto alla Lega dopo 19 anni di era Gentilini.

Ecco, è come se a Treviso, Brescia, Imperia, Siena, nella stessa Roma, i sindaci del Pd avessero maturato l’idea che si può vincere, ma quasi smarcandosi dal Pd, un parente di cui ci si vergogna forse un po’. Volete sapere che cosa avevano in comune Manildo, appunto, e Emilio Del Bono a Brescia, o Carlo Capacci a Imperia, e persino un sindaco assai diverso da loro, Ignazio Marino a Roma? Per vincere hanno scolorito l’appartenenza, diluito la pesantezza politica del voto. Marino lo diceva fin dagli slogan (a parte il «daje»), «non è politica, è Roma». Convinzione che si è tradotta un po’ in tutti i vincitori in uno stratagemma elementare: il simbolo del Pd non compariva nei siti delle campagne elettorali o negli spot (chi li ha fatti), era quasi assente negli slogan (tranne che nella campagna di Siena, ma ci torneremo). Insomma, in questo sono stati tutti super-renziani; non c’era il logo del Pd, nello show del Renzi delle primarie.

Lo slogan in quasi tutti è stato «cambiare», o almeno darne l’idea. Manildo ha sottolineato l’inclusione («Il sindaco di tutti i trevigiani», «con me tutti i trevigiani saranno il sindaco»), ma anche la partecipazione, con concessione lessicale all’espressione «beni comuni», ossia, strizzatina d’occhio a tutto il mondo-Pisapia, la sinistra partecipata e dal basso, trasversalità, non solo neocentrismo democristiano. I colori di Manildo erano l’azzurro tenue (dello scout), l’arancione (della democrazia dal basso), il giallo e il verde, al limite il rosa. Le magliette, azzurre e col logo di Superman, «superManildo». Il messaggio chiave di Renzi è diventato uno slogan, un sms con un semplice «dai che a Treviso ce la facciamo». Così come Del Bono a Brescia puntava su un «cambiare si deve», due soli colori forti, il blu e il rosso, assieme al forte ambientalismo di «respiriamo»; e Carlo Capacci - che a Imperia ha sommato al centrosinistra anche un pezzo di centrodestra anti Scajola - proponeva «cambiamo insieme Imperia», oppure «il vento è girato davvero», e Ignazio Marino «liberiamo Roma».

Al nord hanno accettato come testimonial in campagna elettorale solo Renzi, un po’ di Serracchiani o Civati; poco si sono viste le facce - poniamo - di D’Alema, dei turchi, di Bersani. A Roma Marino ha speso, oltre alla sua, solo due immagini non casuali: Serracchiani e Pisapia. Soltanto Valentini, a Siena, ha usato nei cartelloni il logo del partito e lo sfondo rosso; ma Siena è Siena; e Valentini aveva il problema di dover tenere comunque insieme una strana alleanza in cui lui, renziano sia pure dell’ultima ora, firmava una tregua con l’area Ceccuzzi, l’ex sindaco della giunta dimissionaria.

Si vince così, magari perdendo voti; oppure, come in Sicilia, con tantissime liste civiche che affiancano quella ufficiale del Pd. Sono tempi strani. Bisogna sapercisi muovere come in un Vietnam della politica. Mimetizzandosi.

jacopo iacoboni


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