ebook di Fulvio Romano

domenica 10 dicembre 2017

Ora Uber scommette sugli autisti

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Italia

Ora Uber scommette sugli autisti

“Così miglioriamo la loro vita”

Il piano in sei mesi del colosso americano del trasporto privato:

via libera alla mancia, denaro subito sul conto e corse garantite

Per raccontare l’evoluzione di Uber si possono guardare i numeri e scoprire che ogni giorno dieci milioni di corse vengono effettuate in 84 paesi del mondo grazie all’app e i suoi 2 milioni di autisti. Si può ascoltare, sulla strada dall’aeroporto, la storia di Muhammad, che nella settimana fa il magazziniere per un e-commerce di giocattoli a Sacramento e nel weekend il driver a San Francisco. O si può salire all’undicesimo piano del palazzo di Market Street che ospita il quartier generale e scoprire il ripensamento della strategia aziendale. Ma presi singolarmente sarebbero tutti frammenti insufficienti a rivelare quanto la rincorsa spericolata della società non quotata in Borsa con la più alta valorizzazione al mondo, quasi 70 miliardi di dollari, racconti l’anno che sta per finire.

Il 2017 sarà ricordato come l’anno di svolta per la percezione dei giganti tecnologici, diventati troppo grandi e potenti per essere considerate simpatiche startup, l’anno delle accuse sulle fake news in America e sul fisco in Europa, l’anno delle denunce per le molestie sessuali e dei diritti dei lavoratori che tornano in agenda. Non c’è un singolo aspetto di tutto ciò che non si intersechi con la storia di Uber, che negli ultimi dodici mesi ha navigato attraverso scandali per molestie, battaglie legali, colpi di mano degli investitori, senza dimenticare le crisi nei vari mercati in cui opera. A giugno il co-fondatore e amministratore delegato Travis Kalanick, l’anima di Uber fino ad allora, è stato costretto a dimettersi.

Nei primi anni Uber aveva corso seguendo il motto della Silicon Valley di allora: «Move fast and break things», «Muoviti veloce, rompi le cose». La Uber in cui Maya Choksi entra nel 2012 ha quaranta dipendenti a San Francisco e cento nel mondo (oggi sono duemila a San Francisco, dodicimila nel mondo): «Non avevamo un team che facesse ricerca. Uscivamo dall’ufficio e cercavamo di persona i driver per far testare al volo le nuove versioni dell’app».

La forza delle piattaforme è disegnare un’unica soluzione e distribuirla dalla Cina all’Africa, così si può giocare sulle economie di scala. Ma affrontare un’ordinanza del sindaco non è scalabile. Così Uber è andata incontro a proteste e problemi. «Ogni anno raddoppiavamo, l’azienda cresceva così tanto, ma non stavamo investendo abbastanza sulle persone - dice Choksi -, era tutto molto veloce e non abbastanza strutturato, onestamente», ammette.

Qualcosa è cambiato, da allora. Il numero di dipendenti significa maggior tempo da dedicare ai problemi. Così mentre Uber investe sull’auto senza guidatore (ha appena staccato un ordine per 24mila Volvo driverless) e sull’auto volante (test entro il 2020), nel 2017 si è concentrata sul primo motore della sua crescita: gli autisti. Il lavoro di Tom Fallows, per esempio, è migliorare l’esperienza dei pagamenti per i driver: ora dopo il viaggio si può dare la mancia all’autista, l’importo della corsa e la quota che va a Uber è descritta in modo trasparente e il denaro è disponibile sul conto del driver in pochi secondi. Ancora, le corse in luoghi remoti della città vengono garantite in caso di cancellazione, un incentivo che ha anche l’effetto di ampliare le aree coperte.

La vita nuova di Uber passa attraverso un piano di cui tutti parlano nell’azienda, «i 18o giorni», sei mesi per migliorare Uber dal punto di vista degli autisti. Il nuovo ad, Dara Khosrowshahi, ha introdotto nuove parole d’ordine nella cultura aziendale, con l’idea dell’umiltà e del lavoro come ossessione, e ha criticato pubblicamente il predecessore per alcune scelte, quasi a voler dimostrare la nuova integrità dell’azienda. Nonostante gli incidenti di percorso la scommessa di Uber ha tenuto il passo degli investitori. In alcuni continenti, mercati più maturi, la società è vicina all’equilibrio economico, anche se i conti globali, con ricavi lordi che per l’intero 2017 supereranno i 30 miliardi di dollari e ricavi netti vicini ai 10 miliardi, segneranno probabilmente una perdita.

Il capo dei famosi «180 giorni» si chiama Aaron Schildkrout. È un ragazzone alto, felpa grigia, brizzolato, occhiali spessi grigi. «Abbiamo cambiato metodo - dice -, l’azienda è cresciuta così velocemente che aveva decentralizzato le decisioni: è stato importante ma non c’era una strategia unica». Nel 2018 il ripensamento riguarderà non più i driver ma i rider, ovvero le opzioni da offrire all’utente. «Siamo la piattaforma che offre lavoro più grande al mondo. E abbiamo la missione di offrire un trasporto universale», conclude Schildkrout. Gli incidenti sul percorso non sono mancati ma la scommessa è viva. Il paradosso esplicitato dalla (breve) storia di Uber è che senza le forzature di ieri, oggi la società non sarebbe più sul mercato. Se Uber sta facendo ordine, prima o poi bisognerà farci i conti.

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beniamino pagliaro


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