Italia
Scontro Gambaro-Grillo
“Sarà la Rete a decidere” I parlamentari si spaccano
Ai voti l’espulsione: 79 favorevoli, 42 contrari e 9 astenuti
Ai voti l’espulsione: 79 favorevoli, 42 contrari e 9 astenuti
Litigano. Si scontrano. Si spaccano. Votano. A notte fonda: 79 favorevoli, 42 contrari e 9 astenuti. Espulsa. Dopo quattro ore di riunione congiunta la senatrice Adele Gambaro diventa un’ombra. Anche se sarà la Rete Onnipontente a decidere infine il destino della donna che ha osato mettere in discussione non tanto il Capo, ma addirittura la sua luminosa e salvifica linea politica. La benedetta e indistinta orizzontalità digitale, la Volontà Collettiva, incontrollabile e pura, dei movimentisti iscritti al blog di Beppe Grillo, sarà chiamata a esprimersi su ciò che neppure ai parlamentari di Camera e Senato è stato consentito. Con un evitamento piuttosto evidente del regolamento interno - che prevede(va?) prima il giudizio degli eletti e poi l’insindacabile sentenza del tribunale del popolo - il disorientato e nervoso gruppo pentastellato sceglie di non sporcarsi le mani direttamente. Eppure di contarsi. Perché solo questo era lo scopo dell’Autodafé. Ricorrere alla presunta sensibilità originaria Cinque Stelle che consegna ai cittadini-parlamentari il semplice ruolo di rappresentanti-schiacciabottoni-portavoce, per capire chi crede ancora nel Verbo. Cancellata anche l’ultima prerogativa individuale, quella di esprimere un’opinione sui colleghi prima del cartellino rosso. «Rimettiamo la decisione al web», sentenzia l’ex capogruppo al Senato Vito Crimi, ignorando il dissenso di decine parlamentari amareggiati e scossi da ribellioni come quella dell’avvocato Tancredi Turco - «Adele non ha infranto nessuna norma» - Tacconi e Businarolo. «I nostri meet up sono contrari». Tentativi inutili. La minoranza perde? La minoranza non esiste in questo gioco delle tre carte in cui alla fine vince sempre il banco di Grillo e Casaleggio. Che succede ora ai 42? E agli astenuti? E agli assenti? Sono ancora in linea con il senso del Movimento? È il caos. Li tengono tutti? Cacciano anche loro? Difficile capire.
Adele Gambaro, in ogni caso, non sarà l’unica a pagare. Anche la deputata sarda Paola Pinna, colpevole di avere rilasciato un’intervista sgradita a «La Stampa», sembra destinata alla stessa sorte, mentre il gruppo dei dissidenti si organizza con la volontà di ribaltare la maggioranza interna prima di affidarsi a una non impossibile scissione. I duri e i puri contro i dialoganti.
Uno scontro che ieri ha assunto contorni più sgradevoli del solito, forse definitivo, quando, prima del faccia a faccia serale, il deputato Manlio Di Stefano, per fare capire che aria tirasse, ha pubblicato su Facebook un furibondo attacco contro le riottose colleghe. «Risparmiatemi questa Cosetta dei Miserabili dell’onorevole grillina Paola Pinna (laureata disoccupata che viveva con i genitori a Quartucciu, Cagliari, e con cento voti cento è diventata deputata del Parlamento) che invece di spargere petali di rosa dove Grillo cammina, sorge in difesa di una certa Gambaro, un’altra miracolata che si credeva Che Guevara». Laureata, disoccupata, che viveva con i genitori a Quartucciu. E dunque antropologicamente diversa? Peggiore? Più insulsa persino di una miracolata? «Non l’ho scritto io, mi sono limitato a riportare un’analisi», spiegava più tardi Di Stefano. È un tentativo di suicidio talmente grandioso da dare l’idea di una vita assieme davvero infelice.
Al Senato, nel primo pomeriggio, Adele Gambaro si presenta tesa al confronto con i colleghi. «Mi dispiace di avere danneggiato il Movimento, ma non chiedo scusa e non mi dimetto». Lo ripete meccanicamente con il ritmo di una palla che rimbalza a terra. Eppure lo sa che il suo destino è già stato deciso altrove. Generosi e inutili gli interventi dei colleghi Orellana, Mussini, Molinari e Campanella. Oppure della toscana Alessandra Bencini. «Sentire parlare di guerra tra di noi mi sembra semplicemente inaccettabile. Non è questo il linguaggio del Movimento». Detesta i toni da Chicago Anni Trenta. Le minacce. Le offese. Lei come il collega Maurizio Romani. «Ho giocato a rugby e non riesco a pensare a nulla di più grave che abbandonare un compagno». Sono tanti. Non abbastanza. «La senatrice ha ripetuto errori che io non mi sento di perdonare», spiega il neocapogruppo Nicola Morra. «Non mi sento di perdonare». Chissà se le parole hanno ancora un peso. Perdonare quale crimine? La Gambaro di fronte ai suoi centoventi giudici notturni ripete ancora: «Spero che il mio gesto possa servire a far muovere il cambiamento verso una linea più democratica». Poi se ne va stremata, senza aspettare il verdetto. Non sa ancora che è un vero addio. I talebani della Camera, con la devozione di chi scende la scalinata della città santa di Benares, la inchiodano alle sue supposte responsabilità. Bagarre. Incomprensioni. Ghigliottina. Vietato disonorare il Leader. Forse anche pronunciare il suo nome al di fuori di una preghiera.
andrea malaguti