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In memoria di sé
Il mondo si dimenticherà di me, le mie invenzioni non mi sopravvivranno. Così diceva Steve Jobs in un video inedito del 1994 che da ieri ronza su telefonini e computer di mezzo mondo, in buona parte ideati da lui. Jobs aveva dunque torto a sottostimarsi. Ma non sarebbe mai diventato Jobs se non avesse avuto quel tarlo: il desiderio di diventare immortale attraverso le sue opere. Prima di prenderlo per un fanatico pieno di sé, provate a rifletterci. L’immortalità è una pulsione comune a tutti gli esseri umani quando creano: un figlio, un progetto, una cosa che non c’era. Si tratta di un sentimento naturale. Innaturale, semmai, è averlo irriso o addirittura rimosso. Ho il sospetto che alla base della nostra infelicità di fondo, di questo malcontento cronico che ci fa uscire di casa ogni mattina con la maschera della rabbia e dell’impotenza dipinta sul volto, non ci siano solo le mille cose pratiche che non vanno, ma anche un vuoto interiore: la mancanza di una certa idea di noi stessi come esseri unici e irripetibili che nel loro piccolo possono cambiare un po’ il mondo. Magari meno di Steve Jobs, ma ciascuno nel suo orticello, scovando e liberando il proprio talento, che quasi mai coincide con quello che ci viene indicato o imposto dagli altri.
Chiamatemi illuso. Eppure se ogni persona, nella vita privata e in quella pubblica, pensasse di poter davvero lasciare un segno indelebile del suo passaggio, forse al mondo ci sarebbero meno corruzione, meno miseria, meno squallore. Le decadenze sono sempre frutto della sfiducia, di un cinismo che abdica alle ragioni più profonde del nostro esserci: qui, adesso, per fare - nonostante tutto - qualcosa.
Massimo Gramellini