Il populismo raffinato di Renzi
incassa l’abbraccio della folla
Lo stile spregiudicato del premier sembra piacere: non succedeva dal ’94
Lo stile spregiudicato del premier sembra piacere: non succedeva dal ’94
Gli applausi, le foto, i cori e quel «give me five» di stampo renziano ormai definitivamente sdoganato anche nei seriosissimi «palazzi romani». Quanto tempo era che un leader politico non veniva circondato da una simile simpatia popolare? E addirittura: quanto tempo era che non poteva camminare tra la gente senza rischiare i fischi, gli insulti o tragici lanci di monetine?
Bisogna tornare, forse, alla primavera del 1994, al giuramento del governo Berlusconi e alle ali di folla plaudente che lanciava baci al nuovo Presidente del Consiglio mentre si avviava verso Palazzo Chigi...
Era un’altra Italia, certo: incarognita e rabbiosa per quel che emergeva da una Tangentopoli che continuava a sfornare deprimenti sorprese. Un’altra Italia, sì: con tante differenze, ma un’analoga e ansiosa voglia di cambiamento. Sia come sia, erano dunque vent’anni - se si escludono i primi mesi del Prodi versione 1996-’98 - che un leader politico non riusciva a ricreare con l’opinione pubblica un’empatia che ha fatto della Festa della Repubblica di ieri un vero e proprio spartiacque: il presidente Napolitano dichiaratamente sereno («Ho visto una folla che in otto anni non avevo mai visto: un popolo sorridente e fiducioso»), la parata non contestata (né prima, né durante e nemmeno dopo), e i giardini del Quirinale ripresi d’assalto dai cittadini, al modo in cui accadeva quando la sede della Presidenza della Repubblica era orgogliosamente considerata «la casa di tutti gli italiani».
Che tutto questo sia accaduto in nome del volto spaccone di Matteo Renzi, può non piacere: ma la circostanza, piuttosto che una stizzita alzata di spalle, meriterebbe qualche domanda e qualche riflessione. Com’è potuto succedere che il Paese si lasciasse ipnotizzare dal «populismo raffinato» del leader fiorentino? E com’è che anche cervelli fini - abituati al ragionar politico - hanno mollato i vecchi ormeggi per simpatizzare con le mosse e il modo di fare del più giovane premier della storia Repubblicana?
Un populista, si dice di lui. E forse il primo punto è dolorosamente qui: non sempre le richieste che arrivano dai cittadini (dal popolo) sono sbagliate. Ed entrare in sintonia con quelle richieste, non può essere considerato un errore tout court. Se il popolo chiede la pena di morte, è giusto ignorarlo; se in nome della sicurezza vuole che i migranti vengano lasciati in mare, è civile rispondere no. Ma se sollecita riforme, la fine dei privilegi, un giro di vite su sprechi e ruberie, perché ascoltarlo sarebbe poco fine, superficiale, una prova - insomma - di populismo e di demagogia?
Un punto, dunque, è questo: capacità di ascolto (allenata prima da Presidente di Provincia e poi da sindaco) e furba rapidità nella risposta. Un altro è senz’altro una spericolata tendenza alla coerenza: più semplicemente, fare quel che si promette di fare (almeno fino ad ora, per il futuro si vedrà). Da questo punto di vista, Renzi ha accumulato un robustissimo credito di fiducia da parte degli italiani: e solo chi ha snobbato o sottovalutato la sua corsa - lunga ormai due anni - può pensare che tutto ciò sia accaduto a partire dal 22 febbraio, data del suo ingresso a Palazzo Chigi.
In realtà, il fenomeno Renzi nasce - paradossalmente - con la sconfitta subita nel dicembre 2012 contro Pierluigi Bersani nelle primarie per la scelta del candidato premier da opporre a Berlusconi. Renzi perde ma sfonda, proponendo agli italiani - e successivamente provando a realizzarlo - un modo del tutto nuovo di esser «politico di sinistra». Cavalca la rottamazione, ed è di parola: rottama. Annuncia di voler puntare su giovani e donne: e appena può lo fa. Chiede i voti degli elettori di centrodestra, spiegando che altrimenti non si vince: e li ottiene, una volta diventato segretario e premier. Vende le auto blu, taglia gli stipendi ai manager di Stato, «regala» 80 euro a dieci milioni di italiani e parte all’assalto della burocrazia e della Rai.
Cose semplici (altro saranno le riforme strutturali...) ma il Paese - il popolo - vede che qualcosa si muove, qualche altra cambia e qualcuno - finalmente - ne paga il conto. Dopo tante promesse, ecco dei fatti: che generano speranza e ottimismo, rampa di lancio indispensabile per qualunque tentativo di ripartenza. Il Paese, insomma, guarda e ricorda. Ricorda le parole, per esempio, con le quali Renzi accettò la sconfitta con Bersani nel dicembre 2012: «Volevamo cambiare la politica, non ci siamo riusciti. Ora sarà meraviglioso dimostrare che la politica non riuscirà a cambiare noi...». Per ora va così. E i cittadini sperano e se lo incontrano dicono «give me five»...
Federico Geremicca
Gli applausi, le foto, i cori e quel «give me five» di stampo renziano ormai definitivamente sdoganato anche nei seriosissimi «palazzi romani». Quanto tempo era che un leader politico non veniva circondato da una simile simpatia popolare? E addirittura: quanto tempo era che non poteva camminare tra la gente senza rischiare i fischi, gli insulti o tragici lanci di monetine?
Bisogna tornare, forse, alla primavera del 1994, al giuramento del governo Berlusconi e alle ali di folla plaudente che lanciava baci al nuovo Presidente del Consiglio mentre si avviava verso Palazzo Chigi...
Era un’altra Italia, certo: incarognita e rabbiosa per quel che emergeva da una Tangentopoli che continuava a sfornare deprimenti sorprese. Un’altra Italia, sì: con tante differenze, ma un’analoga e ansiosa voglia di cambiamento. Sia come sia, erano dunque vent’anni - se si escludono i primi mesi del Prodi versione 1996-’98 - che un leader politico non riusciva a ricreare con l’opinione pubblica un’empatia che ha fatto della Festa della Repubblica di ieri un vero e proprio spartiacque: il presidente Napolitano dichiaratamente sereno («Ho visto una folla che in otto anni non avevo mai visto: un popolo sorridente e fiducioso»), la parata non contestata (né prima, né durante e nemmeno dopo), e i giardini del Quirinale ripresi d’assalto dai cittadini, al modo in cui accadeva quando la sede della Presidenza della Repubblica era orgogliosamente considerata «la casa di tutti gli italiani».
Che tutto questo sia accaduto in nome del volto spaccone di Matteo Renzi, può non piacere: ma la circostanza, piuttosto che una stizzita alzata di spalle, meriterebbe qualche domanda e qualche riflessione. Com’è potuto succedere che il Paese si lasciasse ipnotizzare dal «populismo raffinato» del leader fiorentino? E com’è che anche cervelli fini - abituati al ragionar politico - hanno mollato i vecchi ormeggi per simpatizzare con le mosse e il modo di fare del più giovane premier della storia Repubblicana?
Un populista, si dice di lui. E forse il primo punto è dolorosamente qui: non sempre le richieste che arrivano dai cittadini (dal popolo) sono sbagliate. Ed entrare in sintonia con quelle richieste, non può essere considerato un errore tout court. Se il popolo chiede la pena di morte, è giusto ignorarlo; se in nome della sicurezza vuole che i migranti vengano lasciati in mare, è civile rispondere no. Ma se sollecita riforme, la fine dei privilegi, un giro di vite su sprechi e ruberie, perché ascoltarlo sarebbe poco fine, superficiale, una prova - insomma - di populismo e di demagogia?
Un punto, dunque, è questo: capacità di ascolto (allenata prima da Presidente di Provincia e poi da sindaco) e furba rapidità nella risposta. Un altro è senz’altro una spericolata tendenza alla coerenza: più semplicemente, fare quel che si promette di fare (almeno fino ad ora, per il futuro si vedrà). Da questo punto di vista, Renzi ha accumulato un robustissimo credito di fiducia da parte degli italiani: e solo chi ha snobbato o sottovalutato la sua corsa - lunga ormai due anni - può pensare che tutto ciò sia accaduto a partire dal 22 febbraio, data del suo ingresso a Palazzo Chigi.
In realtà, il fenomeno Renzi nasce - paradossalmente - con la sconfitta subita nel dicembre 2012 contro Pierluigi Bersani nelle primarie per la scelta del candidato premier da opporre a Berlusconi. Renzi perde ma sfonda, proponendo agli italiani - e successivamente provando a realizzarlo - un modo del tutto nuovo di esser «politico di sinistra». Cavalca la rottamazione, ed è di parola: rottama. Annuncia di voler puntare su giovani e donne: e appena può lo fa. Chiede i voti degli elettori di centrodestra, spiegando che altrimenti non si vince: e li ottiene, una volta diventato segretario e premier. Vende le auto blu, taglia gli stipendi ai manager di Stato, «regala» 80 euro a dieci milioni di italiani e parte all’assalto della burocrazia e della Rai.
Cose semplici (altro saranno le riforme strutturali...) ma il Paese - il popolo - vede che qualcosa si muove, qualche altra cambia e qualcuno - finalmente - ne paga il conto. Dopo tante promesse, ecco dei fatti: che generano speranza e ottimismo, rampa di lancio indispensabile per qualunque tentativo di ripartenza. Il Paese, insomma, guarda e ricorda. Ricorda le parole, per esempio, con le quali Renzi accettò la sconfitta con Bersani nel dicembre 2012: «Volevamo cambiare la politica, non ci siamo riusciti. Ora sarà meraviglioso dimostrare che la politica non riuscirà a cambiare noi...». Per ora va così. E i cittadini sperano e se lo incontrano dicono «give me five»...
Federico Geremicca