ebook di Fulvio Romano

lunedì 14 luglio 2014

Quel moscato-passito fatto Castiglione Tinella per la messa...

La Stampa 

Cuneo


Il vino buono è capace di evocare ricordi. Più raramente, un ricordo è capace di far nascere un buon vino. Succede, però, a Castiglione Tinella, nelle Langhe, al confine tra le province di Cuneo e Asti, dove Enrico Orlando, 49 anni, produce vino da messa.

«L’idea - racconta - l’avevo in testa da un po’, perché, per me, quello è il vino più buono che ci sia, da sempre». Da quando, ragazzino, andava con il nonno al mercato di Santo Stefano Belbo, il celebre e poco distante paese d’origine di Cesare Pavese. «Prima di tornare a casa passavamo al convento delle suore che producevano vino da messa e ne prendevamo una bottiglia da portare a casa alla nonna. Le suore, gentili, mi lasciavano intingere un dito in quel moscato dolce».

Così, tanti anni dopo, ripresi in mano i terreni di famiglia intorno alla cantina Cà Richeta, l’enologo Orlando ha iniziato a fare esperimenti per produrre quel vino buono destinato alla celebrazione eucaristica.

Non un moscato frizzante, come quello delle suore che solo pochi anni fa hanno cessato l’attività, ma un passito derivato da uve bianche autoctone lasciate appassire sui tralci. «Non lo produciamo tutti gli anni - spiega Orlando - perché molto del risultato dipende dal clima della stagione».

Il processo di vinificazione prevede che all’inizio dell’autunno, quando è tempo di vendemmia, si taglino i tralci per poi lasciare appassire i grappoli in vigna fino a novembre. All’olfatto, il vino da messa Cà Richeta ha note d’uva passa, miele, fico, mandorla, albicocca e pesca.

Nel 2013 è arrivato il riconoscimento ufficiale della diocesi di Alba del vescovo Giacomo Lanzetti e dall’inizio di quest’anno è iniziata la commercializzazione delle bottiglie che riportano una doppia etichetta: da un lato quella che fornisce le informazioni necessarie - secondo le leggi di settore - dall’altro quella con le note di diritto canonico che certificano il prodotto. Secondo la Chiesa, infatti, il vino utilizzato nella celebrazione del santo sacrificio eucaristico deve essere «naturale, del frutto della vite, genuino, non alterato né commisto a sostanze estranee».

Le 2000-2500 bottiglie così marchiate s’inseriscono in un mercato in cui la fanno da padroni i passiti siciliani di grandi cantine.

«Per adesso - spiega l’enologo - lo distribuiamo ad una ventina di parrocchie piemontesi e toscane e poi ai privati che vogliano acquistarlo. Non guardiamo al mercato con intenti particolarmente competitivi».

Non è questione di business, insomma, perché qui, tra filari recentemente assunti a patrimonio Unesco, dove molti lavori vengono svolti a mano come una volta, quello che conta è il valore dei ricordi.

E di preziosi frammenti del passato questa cantina ne custodisce tanti, tra parole in dialetto e immagini in bianco e nero, a partire dal nome, quello di «Richeta», appunto, Enrichetta Amandola Morando, trisavola di Enrico Orlando e capostipite di una generazione di donne che, mentre gli uomini di casa erano al fronte, ha portato avanti con coraggio e determinazione l’attività vinicola consegnandola al futuro.

Così, anche grazie a loro, ora è il turno dell’enologo Orlando che, dopo la scuola e la laurea in enologia e alcune esperienze all’estero in cantine di Francia, Spagna e California e tornato là dove i ricordi l’hanno richiamato.

Ovviamente, al fianco, a curare e valorizzare le vigne di moscato, chardonnay, riesling, nebbiolo, cabernet sauvignon, malvasia e pinot nero, c’è una donna, la moglie Sonia.

erica asselle


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