Riproduco qui l'articolo de La Stampa. Prima mi permetto tuttavia un commento-domanda a Ricolfi:
1) Non è che il timore che molti hanno oggi è che il sistema politico italiano (pentastellati compresi) riesca alla fine a danneggiare tutti, "garantiti" e non...? Per cui, ad es., se ti dicono: abbasso le pensioni medio basse per aiutare i nipoti senza lavoro, invece alla fine tagliano le pensioni e non danno un bel niente a chi prima era perlomeno aiutato dai "vecchi"... Esito più che probabile, anche e soorattutto con Renzi e Boschi...
2) la soluzione al problema " italico " è veramente oggi quello di mettere giovani contro vecchi e garantiti contro non garantiti? (come anche Ricolfi, in modo poco originale, fa...). Cosa ne uscirà? un nuovo Diciannovismo?
3) Qual è il pericolo politico di una possibile adesione in massa dei cosiddetti non garantiti ( a parte che bisognerebbe definire chi lo è e chi fa finta di esserlo) ad un partito personale guidato da un comico miliardario (in lire) insieme ad un personaggio come Casaleggio? Certo, non dipende da Ricolfi, ma l'analista politico non può far finta che il problema non ci sia... e limitare la previsione di voto solo sui dati percentuali possibili...(quello lo sappiamo fare tutti)
ecco il pezzo di Ricolfi da LA STAMPA:
C’è un po’ di maretta in vista delle Europee, da qualche giorno. Gli ultimi sondaggi, infatti, sono rassicuranti solo per due partiti, quello di Renzi e quello di Grillo. Tutti gli altri sono a rischio. Forza Italia teme di scendere sotto la soglia psicologica del 20%. Quanto alle cinque liste minori, piccole ma non piccolissime, nessuna può essere certa di superare il 4%, una soglia tutt’altro che psicologica, visto che al di sotto di essa non si entra nel Parlamento Europeo: Nuovo Centro Destra (che si presenta con l’Udc), Lega, Fratelli d’Italia, Scelta Europea, Lista Tsipras viaggiano tutti fra il 2% e il 6%, il che, tenuto conto dell’imprecisione di tutti i sondaggi, significa che potrebbero sia farcela tutte, sia restare tutte fuori. Su tutto, infine, aleggia l’incognita del non voto (astensioni, schede bianche e nulle), di solito piuttosto alto in questo genere di elezioni.
Da diverse settimane la maggior parte degli osservatori prevede una vittoria del Pd, trascinato dalla popolarità attuale di Renzi, e una competizione fra Forza Italia e Movimento Cinque Stelle per la conquista del secondo posto. Secondo alcuni, in particolare, il recente calo del consenso a Forza Italia andrebbe considerato temporaneo, e in parte recuperabile grazie al ritorno di Berlusconi in tv.
La mia impressione è che, in realtà, le cose non stiano così, almeno per quel che riguarda i primi tre posti. A mio modesto parere, se non capiteranno eventi speciali (ad esempio l’arresto di Berlusconi, o l’impossibilità di pagare gli 80 euro a fine maggio), il quadro più verosimile è quello di una competizione per il primo posto fra Renzi e Grillo, con Berlusconi staccato di parecchi punti percentuali.
Perché Grillo potrebbe contendere il primo posto a Renzi? E perché Berlusconi dovrebbe accontentarsi del terzo posto?
Una prima risposta è che i sondaggi vanno letti, ma anche ritoccati in base all’esperienza. E l’esperienza dice che il voto «politicamente corretto» (oggi chiaramente il voto al Pd) è spesso sopravvalutato nei sondaggi, mentre quello politicamente scorretto (ad esempio quello a Grillo e alla Lega) al contrario è sottovalutato. Se i sondaggi danno il Pd al 33%, è opportuno togliere un paio di punti, e se danno il movimento Cinque Stelle al 25%, è ragionevole aggiungerne altrettanti: nonostante le apparenze, il Pd potrebbe essere intorno al 31%, e il Movimento Cinque Stelle intorno al 27. Se poi, come succede negli ultimi giorni, alcuni sondaggi danno il Pd intorno al 32% e il Movimento Cinque stelle intorno al 27%, diventa molto imprudente concludere che il Pd è in testa. Probabilmente lo è, ma con un distacco modesto. E comunque, se si dovesse votare domani mattina, non punterei una grossa somma sul Pd primo partito.
C’è però anche un secondo ordine di motivi che suggerisce che la competizione vera non sia quella per il secondo posto, fra Movimento Cinque Stelle e Forza Italia. Intanto, dobbiamo sempre ricordarci che, giusto o sbagliato che sia, in Italia (ma non solo) le elezioni Europee sono considerate elezioni poco importanti. Questo mero fatto è un grave handicap per Forza Italia, perché rende inservibile l’armamentario anti-comunista. Se Renzi «non è comunista» (parola di Berlusconi), e per di più non c’è alcun pericolo di «consegnare l’Italia alle sinistre» (perché si vota per il Parlamento Europeo), a Berlusconi e ai suoi viene a mancare una delle armi fondamentali tradizionalmente brandite in campagna elettorale.
E tuttavia non si tratta solo di questo. La crisi di Forza Italia è anche una crisi genuinamente politica. Ammaliato dal miraggio di diventare, in tandem con Renzi, il padre delle grandi riforme costituzionali ed elettorali, Berlusconi pare aver perso completamente di vista la politica economico-sociale. Non tanto nel senso che poco se ne occupa, ma nel senso, ben più grave, di non accorgersi degli spazi che Renzi e il Pd gli aprono ogni giorno. Nel mondo di Forza Italia il lutto per non aver fatto la «rivoluzione liberale» promessa nel 1994 non solo genera sensi di colpa (vedi l’intervista di Bondi alla «Stampa» di qualche giorno fa) ma conduce a fraintendere la stessa azione di Renzi, visto come colui che starebbe facendo «quel che dovevamo fare noi». Proprio perché sanno di non aver fatto la rivoluzione liberale, e vedono in Renzi colui che è stato capace di spodestarli, molti politici di centro-destra cadono nell’errore di proiettare sul giovane leader della sinistra i fantasmi dei propri ideali perduti. Se noi non siamo stati capaci di essere liberali, così sembra ragionare la mens politica del centro-destra, liberale deve essere colui che sta prendendo il nostro posto.
Eppure, basterebbe un po’ di osservazione e un po’ di disincanto per rendersi conto di quanto poco – nonostante il ciclone Renzi – sia cambiato l’hardware della sinistra. Certo il software è nuovo di zecca, perché il nostro giovane premier è svelto, disinvolto e comunica bene. Ma l’hardware, il nocciolo duro della politica economico-sociale, di veramente nuovo ha ben poco, e di liberale nulla o quasi. La scelta di ridurre l’Irpef anziché l’Irap, la rinuncia a dare gli 80 euro ai lavoratori dipendenti più poveri (i cosiddetti incapienti), lo stravolgimento del decreto Poletti sul mercato del lavoro, l’assordante silenzio sugli sperperi e l’evasione fiscale del Mezzogiorno, sono tutte scelte (anzi, non-scelte) che ci restituiscono una minestra che conosciamo fin troppo bene: quando deve scegliere, la sinistra sta dalla parte dei garantiti, come esige la Cgil, mentre al mondo dei non garantiti (poveri, disoccupati, giovani e donne fuori del mercato del lavoro, artigiani e partite Iva) si penserà in un secondo tempo, quando ci saranno le risorse, quando l’Europa ci darà il permesso, quando il percorso delle riforme sarà completato. Il guaio dell’Italia è che la rivoluzione liberale, verosimilmente la sola che potrebbe restituire ai non garantiti un po’ di speranza e un po’ di dignità, non piace né alla destra né alla sinistra.
Così il panorama politico profondo dell’Italia resta, nonostante Renzi e Grillo, molto meno movimentato di quel appare in superficie. Quel che soffia nelle vele di Grillo è il vento della delusione per l’Europa, una sorta di variante sovrannazionale della nostra insofferenza per la casta. In quelle di Renzi soffiano venti diversi, compreso l’equivoco della rivoluzione liberale. Una rivoluzione che la destra ha tradito, e la sinistra, almeno per ora, si guarda bene dal raccogliere.
Luca Ricolfi