ebook di Fulvio Romano

martedì 1 aprile 2014

La centrale dei veleni che non doveva esistere

LA STAMPA

Economia

La centrale dei veleni

che non doveva esistere

Tredici anni di deroghe per sforare i limiti di emissione

In un paese normale, moderno, europeo, dotato di una classe politica seria, la sentenza su Porto Tolle del processo «Enel bis» non sarebbe esistita. Semplicemente perché non sarebbe mai stato possibile tenere «accesa» neanche un minuto una centrale concepita negli anni ’70 a nafta pesante ad alto contenuto di zolfo. Ma siccome siamo in Italia, il paese delle eccezioni, delle deroghe, delle norme ad personam, governi e parlamenti hanno concesso all’Enel una serie di deroghe per farla funzionare «legalmente». Si è «chiuso un occhio» per la bellezza di tredici anni. A spese dei cittadini che respiravano aria avvelenata.

Un termine che non pare usato a sproposito. La centrale di Porto Tolle ha scaricato nell’atmosfera (oltre alle emissioni di CO2 che produce l’effetto serra, ma questo è un altro discorso) quantità mostruose di veleni nocivi per la salute delle persone. Nel 1990, quando vennero fissati i limiti di legge per le emissioni nocive, la centrale Enel «Polesine Camerini» emetteva dodici volte le quantità consentite di anidride solforosa; quattro volte per gli ossidi di azoto; due volte e mezza per quanto riguarda le polveri.

Sostanze pericolosissime, che come si legge nella perizia dell’Ispra (l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) hanno provocato un significativo aumento dei ricoveri ospedalieri per malattie respiratorie della popolazione infantile della zona. E generato costi economici esterni (in termini di costi per la sanità e per le morti premature causate dall’inquinamento) per 3,6 miliardi di euro. Soldi che in teoria l’Enel dovrebbe ridare allo Stato, che al processo «Enel bis» si è costituito parte civile con i ministeri dell’Ambiente e della Salute. Contro l’Enel , che per il 30% circa è di proprietà di un altro ministero, quello del Tesoro.

È solo uno dei tanti elementi assurdi di questa vicenda. Il più demenziale è che l’Enel ha potuto far funzionare la centrale di Porto Tolle rispettando apparentemente al cento per cento la legge. Sì, perché lo stesso Stato che nel 1988 (su imposizione dell’Europa) stabilì che dovevano essere fissati dei limiti di legge alle emissioni industriali nocive, in quel decreto ministeriale del 1990, garantiva ad Enel la possibilità appunto di derogare legalmente fino al 2002 ai limiti, in cambio di un graduale adeguamento. Col passare degli anni l’azienda ha parzialmente ridotto le emissioni nocive della sua centrale più inquinante, questo è vero. Ma sempre senza introdurre le tecnologie di prevenzione - in particolare desolforatori e denitrificatori – che Enel adottava per altre sue centrali elettriche. Ad esempio, la riduzione delle emissioni di anidride solforosa è stata ottenuta semplicemente bruciando olio combustibile (nafta pesante) a minor tenore di zolfo. Porto Tolle, dice la perizia dell’Ispra, «risulta l’unica di proprietà di Enel non ambientalizzata». Per evitare la chiusura, Enel chiese e ottenne dal governo Berlusconi una nuova deroga, usando il pretesto della necessità di garantire gli approvvigionamenti elettrici. L’anno dopo, col decreto legge 25/2003, arriva una nuova deroga alle prescrizioni fissate ormai nel lontanissimo 1990.

La centrale non avrebbe dovuto operare mai. La deroga sarebbe dovuta durare per due o tre anni al massimo. Non è un caso che dal 2005, dovendo rispettare le leggi sulle emissioni), Porto Tolle in pratica è stata tenuta spenta. Enel ha provato a convertirla a carbone, ma questo non avverrà: l’impatto ambientale è eccessivo, e soprattutto quei 2.660 MW di elettricità non servono più al Paese, che va sempre di più ad elettricità da rinnovabili.

roberto giovannini