Cultura
Finanziamento ai partiti: una commedia
Da tanti anni seguo la politica, ma mai mi era capitato di assistere a una commedia come quella che, sotto i nostri occhi distratti, si sta svolgendo in questi ultimi giorni di luglio. Breve riassunto della commedia.
La posta in gioco, innanzitutto. C’è un disegno di legge governativo che non abolisce affatto il finanziamento pubblico dei partiti, ma si limita a ridurne progressivamente l’entità (mantenendolo in piedi fino al 2017) e ad affiancarlo già a partire dal 2015 sia con un nuovo meccanismo, il cosiddetto 2 per mille (il contribuente può decidere di destinare a un partito una parte delle tasse che paga), sia con una serie di agevolazioni (detrazioni sulle donazioni) e benefici «in natura» (spazi in tv, locali, etc.). Difficile prevedere, finché non saranno noti tutti i dettagli, se il nuovo meccanismo porterà ai partiti più o meno risorse di oggi (probabilmente qualcosa di meno), ma tutto si può dire tranne che la legge preveda l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, visto che questi ultimi continueranno ad assorbire considerevoli risorse pubbliche, anche se in forme diverse che in passato.
Ed ecco le parti in commedia. Il governo, abbastanza spudoratamente, finge che il suo disegno di legge abolisca il finanziamento pubblico dei partiti (il primo articolo del disegno di legge recita proprio così: «E’ abolito il finanziamento pubblico dei partiti»). Nonostante il disegno di legge sia molto «comprensivo» verso le esigenze di cassa dei partiti, questi ultimi non ci stanno e si mettono di traverso, inondando il Parlamento di emendamenti per lo più rivolti a meglio tutelare le esigenze di sopravvivenza dei partiti stessi, e che per ora hanno già ottenuto l’effetto di far saltare il percorso parlamentare previsto (notizia di queste ore). Ma anche i partiti, e in particolar modo i rispettivi tesorieri, recitano la loro parte in commedia: secondo loro gli emendamenti non servirebbero a difendere i privilegi dei partiti, bensì a salvare la democrazia (nientemeno!). Ed ecco il colpo di scena: il disegno di legge governativo, che fino a ieri pareva fin troppo generoso con i partiti, diventa improvvisamente un baluardo anti-partitocratico, e il presidente del Consiglio Enrico Letta, con i suoi appelli (pardon: tweet) a non ritardare l’approvazione del disegno di legge, può ergersi come una sorta di Quintino Sella, austero e rigoroso difensore della cosa pubblica.
Non è tutto, però. Nel marasma si inseriscono le parti in commedia minori. C’è chi, non pago che i partiti abbiano ancora almeno quattro anni di introiti generosi e garantiti, ha il coraggio di proporre la cassa integrazione per i dipendenti dei partiti, in un Paese in cui i lavoratori che non possono ricorrervi sono milioni e milioni. C’è chi, dentro Pd e Pdl, sembra essere davvero per l’abolizione (anziché per la riduzione) del finanziamento pubblico dei partiti, ma non osa fare una battaglia vera, a viso aperto e a muso duro, contro l’apparato del suo partito. E c’è chi, come il neo-segretario della Lega Maroni, rinuncia al finanziamento pubblico, ma non ora, se ne riparlerà nel 2014.
Insomma, nessuno fa quello che dice, e nessuno dice quello che fa. Con una sola eccezione, a quel che vedo: gli estremisti, anzi gli «opposti estremismi» dei talebani della partitocrazia e dei suoi nemici irriducibili. Solo loro non parlano con lingua biforcuta. Talebani della partitocrazia sono innanzitutto i tesorieri dei partiti, che hanno le idee chiarissime e difendono a spada tratta, senza imbarazzo e senza vergogna, sia il principio del finanziamento pubblico, sia l’idea che non debba essere solo simbolico. Nemici irriducibili della partitocrazia sono il movimento Cinque Stelle e i Radicali, che il finanziamento pubblico hanno dimostrato di volerlo abolire sul serio, non solo a parole. Il movimento Cinque Stelle ha già restituito 42 milioni di rimborsi elettorali, i radicali hanno già promosso due referendum (l’ultimo vinto nel 1993, ma aggirato dai partiti con il trucco dei «rimborsi»), e quanto al terzo stanno raccogliendo le firme.
Il lettore che mi ha seguito fin qui potrebbe pensare che io sia contrario al finanziamento pubblico dei partiti e sia per la sua piena e totale abolizione. In realtà, per quel poco che può interessare quel che penso io, la mia posizione è un po’ diversa, e si potrebbe riassumere in tre punti.
Primo. Quello cui sono fermamente contrario non è il finanziamento pubblico, ma è lo stravolgimento della lingua italiana. Ho il massimo rispetto per tutte le posizioni, ma preferirei che venissero presentate per quello che sono, anziché essere mascherate dietro formule verbali volte a occultarne la sostanza. Il disegno di legge del governo è difendibilissimo, salvo il primo articolo, che io riformulerei così: anziché «E’ abolito il finanziamento pubblico dei partiti», scriverei «E’ mantenuto il finanziamento pubblico dei partiti, ma ne vengono modificati importi e meccanismi di erogazione».
Secondo. Mi piacerebbe che chi appartiene a Pd e Pdl (i due partiti da cui dipende la sorte del governo) e dice di essere contrario al finanziamento pubblico, facesse una battaglia vera entro il suo partito, e dicesse in modo chiaro che non condivide il disegno di legge governativo. Mi incuriosisce, in particolare, la posizione di Matteo Renzi e dei suoi: avevo capito che fossero per una vera abolizione del finanziamento pubblico (un punto importante di dissenso con Bersani), ora pare invece che non siano contrari al disegno di legge governativo, e che si accontenterebbero di alcuni ritocchi, previsti in appositi emendamenti. Che cosa dobbiamo pensare? Renzi ha cambiato idea? O anche lui, semplicemente, non vuole disturbare il manovratore?
Infine, ultimo punto. Io sarei favorevole a un (modesto) finanziamento pubblico ai partiti. Ma non a questi partiti, e non in spregio a un referendum. Perciò avrei fatto l’esatto contrario del governo Letta. Anziché mantenere il finanziamento per qualche anno, promettendo una sua più o meno nebulosa rimodulazione futura, avrei invertito i tempi: azzeramento subito, ed eventuale reintroduzione se e quando avremo dei partiti decenti, e i cittadini avranno avuto modo di cambiare il loro giudizio su di essi, magari certificandolo con un nuovo referendum. Perché è vero che il finanziamento pubblico esiste in (quasi) tutta Europa, ma è anche vero che in nessun Paese europeo che si rispetti i partiti sono corrotti e clientelari come qui. Va bene essere europei, ma non va bene esserlo solo a metà.
Luca Ricolfi