Cultura
La sinistra che nega la realtà
Una ventina di anni fa, all’indomani della prima vittoria elettorale di Berlusconi (1994), lo storico Giovanni Belardelli pubblicò sulla rivista «il Mulino» un saggio fulminante, significativamente intitolato «Se alla sinistra non piacciono gli italiani».
Fu proprio in quell’epoca, infatti, che la sinistra, tramortita e incredula di fronte a un elettorato che aveva osato preferirle Berlusconi, iniziò a rivedere drasticamente il proprio giudizio sugli italiani. Visto che non la votavano, e le preferivano quel cialtrone di Berlusconi, gli italiani dovevano essere un popolo ben arretrato, individualista, amorale e privo di senso civico. Una teoria, questa, che raggiunse il suo apice, al limite del ridicolo, con l’appello elettorale di Umberto Eco nel 2001, in cui gli italiani che avessero osato votare Berlusconi venivano descritti con un disprezzo ed un semplicismo che, in una persona colta, si spiegano solo con l’accecamento ideologico.
Oggi questa storia, una storia di incomprensione e di arroganza etica, fa però un decisivo passo in avanti. Oggi che un politico di sinistra come Stefano Fassina viene crocifisso dai suoi perché ha osato dire che esiste anche un’evasione fiscale «da sopravvivenza» (una cosa che qualsiasi persona senza pregiudizi vede ad occhio nudo) quella diagnosi di Belardelli ci appare fin troppo ottimistica, generosa, o benevola verso la cultura di sinistra. No, il problema della sinistra non è, o non è soltanto, che non le piacciono gli italiani: il problema è che non le piace la realtà.
Quando i fatti mettono a repentaglio l’ideologia, il riflesso meccanico della cultura di sinistra non è correggere o adattare l’ideologia alla realtà, ma correggere la realtà negando i fatti. Dove correggere può voler dire, e ha voluto dire per almeno mezzo secolo, cercare di raddrizzare il «legno storto» dell’italianità, rieducando e civilizzando gli italiani secondo la concezione del bene comune propria della cultura di sinistra (una vicenda puntualmente narrata nell’ultimo libro di Giovanni Orsina: I l berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio 2013). Ma può voler dire anche, più letteralmente, correggere i dati della realtà, fino al punto di negarli.
E’ successo mille volte, talora con risvolti tragici (il partito comunista che nel 1956 si rifiuta di vedere i fatti d’Ungheria), talora con risvolti meno drammatici ma non per questo privi di conseguenze (ad esempio con la negazione di dati socio-economici scomodi), talora, infine, con risvolti decisamente comici, come nel caso di Stefano Fassina sommerso di critiche per aver constatato un fatto – l’evasione da sopravvivenza – tanto evidente quanto indigesto al suo partito.
Da che cosa deriva questa refrattarietà ai fatti, fino al negazionismo più buffo?
Certamente, e in una misura non trascurabile, dall’eredità dello stalinismo, con il suo totale disprezzo per la verità, o meglio con la sua identificazione della verità con ciò che risulta utile alla causa, sia essa il Socialismo, la Rivoluzione, il Partito o lo Stato. Come sociologo, ne ho avuto esperienza diretta innumerevoli volte: quando scoprivo qualcosa che non faceva gioco alla sinistra i «compagni» mi dicevano che sì, poteva essere tutto vero, ma non era il momento di dirlo, la situazione era grave e c’era il rischio di «strumentalizzazioni da parte della destra». Poi però il momento di dirlo non arrivava mai, perché la situazione era sempre «delicata» e la posta in gioco invariabilmente «importantissima».
Ma forse non andrebbe trascurato anche un altro elemento, un meccanismo – anche psicologico – che ci tocca un po’ tutti, ma affligge in modo patologico la politica, a sinistra come a destra. Con lo psicologo sociale Leon Festinger, che ebbe a scoprirlo negli Anni 50, potremmo definirlo l’incapacità di tollerare le dissonanze. E risalendo ancora più indietro, al filosofo David Hume, potremmo definirlo la tendenza umana a saltare dai fatti ai valori, dal piano descrittivo al piano normativo. Specie chi ha ferme convinzioni etiche, morali o politiche, ha difficoltà a riconoscere, talora addirittura a «vedere», i fatti che potrebbero insidiarle. Se mi batto per i diritti degli immigrati, mi è molto difficile accettare una statistica che dimostri che il loro tasso di criminalità è più alto di quello degli italiani. Se sono un fervente meridionalista, mi è molto difficile accettare un’indagine in cui si mostra che evasione e falsi invalidi sono concentrati in alcune regioni del Sud. Se sono un nemico giurato dell’evasione fiscale non riesco ad accettare che esista l’evasione per sopravvivenza: che è appunto la trappola in cui è caduto Stefano Fassina, un politico forse troppo giovane per aver interiorizzato completamente lo stalinismo e la concezione utilitaristico-strumentale della verità.
Ma è un errore logico. Il piano dei valori e quello dei fatti sono separati. Si può restare difensori dei diritti umani, meridionalisti, o amanti della tasse (viste come «cosa bellissima», secondo l’audace definizione di Tommaso Padoa Schioppa) anche in presenza di fatti che rendono più complessa la difesa dei nostri valori. Anzi, dovremmo renderci conto che – proprio per promuovere i nostri ideali – ci serve sapere come stanno le cose. Conoscere per deliberare, diceva Einaudi, ma forse oggi dovremmo dire, più precisamente, non aver paura di conoscere se si vuole cambiare la realtà. Altrimenti quello in cui si cade è una sindrome molto pericolosa, quella di negare l’esistenza di ciò che non si sa come affrontare, o semplicemente non si ha il coraggio di combattere.
C’è stato un tempo in cui una parte del mondo politico aveva la spudoratezza di dire che «la mafia non esiste». Oggi non succede più, ma in compenso c’è chi si permette di negare l’evasione per sopravvivenza. Potrà sembrare strano, ma questi due tipi di negazioni hanno almeno un elemento in comune: la consapevolezza che quella cosa in realtà esiste, ha una sua solidissima ragion d’essere, ma, proprio perché non si ha la forza o la volontà di combatterla, non può essere detta.
E’ questa, purtroppo, la realtà dei sindacati e dei politici in Italia. I luoghi in cui si evade spudoratamente, talora per sopravvivenza talora per ingordigia, sono perfettamente noti a tutti perché coinvolgono milioni di persone, si vedono a occhio nudo, sono stati raccontati da innumerevoli inchieste giornalistiche, descritti minuziosamente da decine di studi scientifici: affitti di seconde case completamente in nero, operai dell’edilizia reclutati con il sistema del caporalato, immigrati spremuti come limoni nelle campagne e nell’industria dei trasporti, lavoranti a domicilio nelle civilissime regioni del Centro Italia, ragazzi che lavorano senza contratto nei negozi di Roma. Eppure non si fa nulla. Non si fa nulla perché se si facesse si creerebbero conflitti sociali immani, chiuderebbero centinaia di migliaia di attività, si perderebbero milioni di posti di lavoro. Meglio, molto meglio e molto più facile, tuonare contro gli evasori e fingere che l’evasione fiscale sia solo quella dei grandi imprenditori, dei gioiellieri, dei ricchi, degli speculatori, dei professionisti. Se i sindacati dovessero occuparsi anche di quel che succede nei negozi, nelle boite, nei campi, in edilizia, nella miriade di aziende di trasporto illegali, il loro lavoro diventerebbe immensamente più difficile, più complicato, spesso più rischioso. No, meglio fingere che tutto questo non esista, meglio andare per convegni, partecipare ai talk show in tv, sedersi ai tavoli in cui si discute con il governo e con la Confindustria delle crisi dei grandi gruppi. E quando a un politico, per di più uno dei «nostri», uno molto di sinistra, scappa detta la verità, una verità che tutti conoscono e vedono, emettere la scomunica: il suo è stato «un clamoroso errore politico».
Così disse l’ayatollah Susanna Camusso. Amen, e avanti così.
Luca Ricolfi