Cultura
Il nuovo volto di tiranni e dissidenti
La figura del dissidente nel secolo scorso era sacra. Se e quando riusciva a sottrarsi alla persecuzione dei regimi tirannici, come la Germania hitleriana o la Russia staliniana, il dissidente poteva trovare quasi sempre un asilo sicuro non solo nei grandi Paesi democratici come la Francia o la Gran Bretagna; anche Paesi minori, come la Cecoslovacchia di Benes, o l’Austria prima dell’Anschluss, non rifiutavano ospitalità e protezione a coloro che voltavano le spalle al nazionalsocialismo tedesco o al comunismo russo. Esilio e asilo erano a quel tempo quasi sinonimi.
Oggi non più. Si direbbe che oggi la situazione si sia perversamente e quasi diametralmente rovesciata. Anzi, si potrebbe dire che il panorama internazionale, saturo d’ambiguità, offra oggi più insidie che protezione ai nuovi contestatori e fuggiaschi dai regimi ricchi, repressivi e polizieschi dell’Asia ex sovietica. La figura del fuggiasco non è più quella ideologica, letteraria, con fondo morale, che l’Occidente per esempio era abituato a conoscere all’epoca del comunismo imperante nell’Urss. Non è più di moda lo scrittore di contestazione, genere Solzenicyn o Maximov. Il fuggiasco odierno è di un’altra razza, altra genesi, altra fisiologia più incerta e quindi molto più ambigua. Spesso, sempre più spesso, non è un contestatore puro, un dissenziente etico, un virtuoso della libertà di penna e di pensiero.
Sta prevalendo ormai l’enigmatico miliardario, magari ex uomo di potere, ex comunista degenerato in capitalista di ventura, espulso dal sistema di comando dai suoi con simili più scaltri e più veloci. Og gi il cacciatore e il cacciato sembrano provenire da uno stesso vizioso vivaio di cricca e di famiglia malsana.
È così che esilio e asilo sono divenuti sempre meno sinonimi. Oggi vediamo predominare il metodo kazako, che potremmo chiamare anche «metodo Nazarbayev», dal nome del dittatore ex sovietico che da vent’anni gestisce cinicamente la società tribale del Kazakhstan: società ricchissima di petrolio e di gas, ma povera di libertà civili, di diritti umani, di media autonomi dall’onnipervasivo potere politico. Si tratta peraltro di un potere assai singolare e promiscuo. Una rara combinazione di postsovietismo asiatico e di dinamismo economico europeizzante, spregiudicatamente apprezzato da tanti Paesi occidentali che con quelle imprese energetiche intrattengono però ottimi quanto complessi rapporti d’affari.
Non è facile considerare il Kazakhstan di Nursultan Nazarbayev, che lo governa con pugno di ferro da un paio di decenni, soltanto come la grande scheggia saggiamente impazzita di un decomposto impero ex totalitario. La stima, ancorché eccessiva, di cui lo circondano e con cui, in nome del business e dei petrodollari lo blandiscono le democrazie occidentali trova, per l’appunto, una ovvia spiegazione nel panorama energetico internazionale. Pecunia non olet: è qui che ritroviamo Astana col suo califfo Nazarbayev, non più ateo e comunista, bensì petroliere d’assalto vagamente islamizzato, in una posizione e un ruolo d’avanguardia invidiabili. Poiché l’Occidente in parte ammira Nazarbayev e in buona parte contratta con lui ottimi affari, perché non dargli una mano nell’inseguimento dei disturbatori che minacciano, con la loro sola presenza, lo sviluppo di relazioni amichevoli con il ricco Kazakhstan?
Il califfo ha capito l’antifona. Da bravo ex sovietico, ha corretto, affinato, in certi casi addirittura rovesciato il sistema di caccia al dissidente, praticato un tempo con mezzi più elementari e più rozzi dal classico Kaghebè russo. Allora le operazioni si effettuavano contro i servizi segreti occidentali. Oggi, nel clima mutato, perché non mettere gli stessi servizi al servizio del cacciatore? È questo che Nazarbayev deve aver pensato ed è questa la paradossale novità a cui stiamo assistendo. Così vediamo qualcosa che mai avremmo potuto immaginare: vediamo non solo Varsavia, non solo Praga, non solo Madrid, ma perfino i servizi italiani dare manforte all’offensiva del regime di Nazarbayev contro gli oppositori all’estero. Ha fatto scandalo e scuola iniqua l’incredibile metodo, usato dalle autorità di polizia italiane a Casal Palocco, quartiere residenziale alle porte di Roma, per catturare il banchiere Mukhtar Ablyazov, uno dei rivali politici del dittatore kazako. Il rivale non è stato trovato; ma sua moglie Alma e la figlia Alua di sei anni sì, e la brutale operazione è stata portata a termine da un impressionante schieramento di agenti italiani. Qualcosa di simile era già avvenuto in Spagna, dove è stato rifiutato l’asilo politico al capo della sicurezza del banchiere Aleksander Pavlov, che in questi giorni potrebbe essere espulso e consegnato alle autorità di Astana. Un altro collaboratore di Ablyazov, Muratbek Ketebayev, impegnato nel denunciare la dittatura kazaka alla Commissione e al Parlamento europei, è stato arrestato in giugno in Polonia. Il «metodo Nazarbayev», che affida ai servizi dei Paesi democratici l’azione contro i dissidenti, ha tristemente funzionato. Spagnoli e polacchi hanno considerato infatti questi accadimenti, coinvolgenti le autorità di Madrid e di Varsavia, come «politicamente motivati». Il grimaldello che consente ai cacciatori kazaki di farsi «aiutare» dalle autorità di altri Stati viene addirittura giustificato da mandati di cattura emessi dall’Interpol. La verità è stata rivelata e rilevata con chiarezza proprio da un recente rapporto del Collegio degli avvocati di Polonia i cui membri hanno dichiarato: «In Kazakhstan si viola il divieto di praticare la tortura e i giudici sono soggetti alla forte influenza delle autorità statali».
Credo che tutto ciò basti a far capire la gravità di una situazione che coinvolge i rapporti fra importanti istituzioni europee e la petrolifera ma illiberale società del Kazakhstan. Un tempo l’Interpol veniva concepita e utilizzata come strumento legale delle libertà democratiche. Cosa sarà mai avvenuto nel frattempo?
Enzo Bettiza