Italia
I volti dell’inaugurazione
I volti dell’inaugurazione
Quelle due Italie allo specchio
La furia cieca e la grande bellezza
Mentre Milano veniva messa a ferro e fuoco dai teppisti incappucciati, alla Scala
una bellissima “Turandot” di Puccini celebrava il via dell’Esposizione universale
Mentre Milano veniva messa a ferro e fuoco dai teppisti incappucciati, alla Scala
una bellissima “Turandot” di Puccini celebrava il via dell’Esposizione universale
Miracolo a Milano: venerdì sera si sono viste in contemporanea, plasticamente, sotto gli occhi di tutti e del mondo, non due città o due Italie come si è detto, ma proprio due concezioni diverse della convivenza, della civiltà e in ultima analisi della vita.
Due universi paralleli: fuori e dentro la Scala, questo teatro che non è «il primo del mondo» come da mitomania milanese, però di certo è uno dei pochi al mondo a funzionare, ancora e sempre, da sismografo infallibile delle emozioni collettive, uno dei luoghi dove un gruppo di uomini diventa comunità, società, polis.
Fuori di lì c’era la bestialità demente, l’idea che un’opinione, concesso e non dato che ci sia, possa essere espressa incendiando l’automobile o devastando la bottega di qualcuno che non hai mai visto e che non conosci e che non ti ha fatto nulla, l’odio puro, l’idiozia portata all’estrema conseguenza della violenza, magari con l’attiva complicità parolaia delle nullità tatuate alla moda. Si attraversavano le strade del centro, quelle dove cammini ogni giorno, e ci si chiedeva se era Milano o Stalingrado, fra il fumo, le fiamme, le sirene, l’odore dei lacrimogeni, le vetrine in frantumi.
In piazza Scala, blindata, si doveva esibire il biglietto ai cordoni di polizia, come se andare all’opera fosse pericoloso, o una colpa. Dentro, non si parlava che di quel che stava succedendo in città. L’applauso che ha accolto l’Inno di Mameli, insolitamente prolungato, era certo un omaggio all’Italia, dunque a noi stessi, ma anche un modo per dire che l’Italia è un’altra cosa rispetto a quella che si era appena attraversata.
Poi è cominciata «Turandot», il Puccini formato Expo scelto per festeggiare l’Esposizione universale. E non è stata solo una bellissima «Turandot» per i meriti, variabili ma grandi, di tutti i suoi artefici e massimamente di Riccardo Chailly, per la prima volta all’opera alla Scala come nuovo direttore principale (e se farà tutto così, saranno anni belli). E’ stata, anche, una «Turandot» squisitamente «da Scala», se una definizione così ha ancora un senso e indica ancora un sapere, un’attenzione, uno stile così tipico e così «nostro», italiano. Certo, era una produzione «global», perché questo è il nostro tempo, con una primadonna svedese, un tenore lettone, un regista tedesco, un allestimento olandese, eccetera.
Però, mentre da fuori arrivavano i bollettini di guerra con contorno di polemiche, mentre nel palco reale Matteo Renzi sembrava più nero del suo vestito, mentre sindaco e prefetto lasciavano il teatro diretti a una riunione d’emergenza, l’opera tornava a essere quello che è stata da sempre per gli italiani, un pezzo di noi, la nostra identità, la Patria perduta e poi ritrovata e poi chissà. Una grande bellezza, davvero, ma né morta né museale, anzi ancora viva e vitale. Emozionante.
E nemmeno così «per pochi» come si potrebbe pensare. Un posto di loggione, alla Scala, costa 29 euro. E Rai5 ha trasmesso l’opera in diretta, facendo degli ascolti buonissimi, quasi da rete generalista: 2,52% di share, 593 mila spettatori di media, picco alle 23.10 con 733 mila. Visto che, secondo la questura, i black bloc erano un migliaio, si può dire che Puccini ha battuto i delinquenti 733 a uno.
Ora, i grandissimi applausi che hanno accolto questa «Turandot» hanno giustamente premiato chi l’ha realizzata. Ma era chiaro che quegli applausi erano ancora un’orgogliosa rivendicazione della bellezza, che è anche ragione, misura, equilibrio, contro la violenza cieca. E infatti anche chi era entrato in teatro rimpiangendo senza dirlo Bava Beccaris ne è uscito pensando che si sarebbe accontentato di spedire i casseur in galera (e poi magari lasciarceli per un po’. Un bel po’).
Certo, poi era anche un simil 7 dicembre con l’inevitabile contorno di mondanità, tutto il chi c’è-chi non c’è-com’è vestito, le dichiarazioni prêt-à-penser, gli spettatori (e i giornalisti) della domenica che dicono «Turandò» mangiandosi la «t» (e perché poi? E’ veneto, non francese). Però venerdì la Scala non è stato solo questo, e magari anche un grande Puccini per quelli cui interessa. E’ stata un baluardo della bellezza contro l’irredimibile bruttezza della stupidità.
Ancora una volta, come nei momenti belli e soprattutto in quelli brutti della nostra storia, il teatro, che in Italia è poi il teatro d’opera, è stato un modo per partecipare alle vicende collettive.
In questa vecchia sala ruscellante di fiori e di storia, davanti a un capolavoro così «suo» e così nostro come «Turandot», si è mostrato al mondo e soprattutto a noi stessi che l’Italia migliore è quella del bello e del buono, non di chi sa solo distruggere per illudersi di esistere.