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FULVIO ROMANOSi attenua
l’ondata di caldo
romano.fulvio@libero.it
il tempo, i detti popolari, la meteo e... le stelle
Piccoli geni italiani crescono
ma hanno già le valigie in mano
I 90 diciottenni più talentuosi riuniti dalla Normale di Pisa
parlano di lavoro, politica, informazione e tempo libero
C’è un’Italia nuova, una «generazione Telemaco», ha ricordato una settimana fa il premier Matteo Renzi nel presentare le linee guida del semestre italiano davanti al Parlamento Europeo. La «generazione Telemaco» esiste davvero e si sta preparando a conquistare il suo posto nella vita ma non è detto che quel posto sia in Italia. Siamo entrati nel corso di orientamento universitario organizzato dalla Normale di Pisa e ospitato all’Accademia dei Lincei per i migliori cervelli della leva del 1996 e dintorni, quelli che in gran parte il prossimo anno supereranno con lode la maturità. Sono novanta in totale, scelti sulla base dei voti ma anche della regione di appartenenza per offrire quest’opportunità ai ragazzi di tutt’Italia e di un’autodescrizione in mille caratteri. «In questo modo abbiamo capito chi aveva quel guizzo che volevamo», spiega il direttore del corso, Fabio Beltram.
Sono i cervelli migliori, quelli che in gran parte perderemo: dei cinque disposti a farsi intervistare solo una ha detto che vorrebbe restare, gli altri sono stati più netti, hanno precisato che la loro vita è all’estero anche se l’Italia è il Paese più bello del mondo. Sono ragazzi disincantati, privi di confini ma anche di illusioni. Non leggono i giornali perché preferiscono usare il loro tempo libero per prepararsi a superare i test necessari per entrare nelle università straniere. Ma sono informatissimi comunque, e aspettano Renzi al varco se non dovesse mantenere le sue promesse. Come ogni buona generazione-Telemaco deve fare.
flavia amabile
L’inizio
di una nuova
transizione
Perduto e ritrovato nel giro di poche ore, l’accordo che consentirà lunedì di far approdare nell’aula di Palazzo Madama il testo della riforma del Senato non sarà storico (troppe volte l’aggettivo è stato usato a vanvera).
Ma questo testo è certamente rilevante, anche se occorrerà aspettare la fine del primo giro di votazioni per valutarne in pieno la portata. Dopo tanti fallimenti (sono trenta e più anni che si parla di cambiare la Costituzione) l’intesa tra centrosinistra, centrodestra e Lega, pur destinata a scontare una folta pattuglia trasversale di dissidenti, con tutti i limiti possibili rappresenta un’applicazione del metodo costituente, quello con cui, quasi settant’anni fa, partiti di diverse o opposte tradizioni e culture politiche cercarono e trovarono un compromesso sul testo della Carta che oggi si cerca di rinnovare.
In tempi in cui la politica è ridotta com’è ridotta, non è poco. A risultato raggiunto, se davvero ci si arriverà – non va dimenticato che questa è la prima di quattro letture, da svolgersi a intervalli non inferiori a tre mesi –, Renzi incasserà la maggior parte del merito, ma tutti i contraenti del patto, Berlusconi, Alfano, Salvini, i centristi delle diverse sponde, ne ricaveranno un vantaggio in termini di credibilità e di ruolo politico.
La lunga transizione degli ultimi vent’anni si era infatti arenata sulla convinzione sbagliata che ognuno potesse farsi la Costituzione da solo. Dopo la fine della Prima Repubblica e la nascita della Seconda con i referendum elettorali del 1991 e ’93, tutti i tentativi di incontro, le commissioni bicamerali, i patti segreti provati e riprovati nel corso di due decenni erano miseramente falliti. Il risultato era stato che, prima il centrosinistra, con la raffazzonata riforma del Titolo V (poteri esclusivi delle regioni) nel 2001, e poi il centrodestra con la Devolution (versione assai approssimativa del federalismo chiesto dalla Lega) nel 2006, si erano fatti ciascuno la propria riforma. Un fallimento dopo l’altro e una quantità di conflitti istituzionali finiti sulle scrivanie dei giudici della Corte Costituzionale erano stati i soli effetti di quest’anomala stagione riformatrice.
Per ritentare, e costringere forze politiche ormai incapaci di costruire relazioni politiche, neppure normali, ma minimamente serie, ci voleva Renzi, con la sua voglia di cambiare e la sua volontà di ferro. Ma prima ancora, va ricordato, c’era voluto Napolitano. Quando un sistema politico giunto all’impotenza e non in grado di eleggere la carica più alta dello Stato s’era rivolto a lui, poco più d’un anno fa, per chiedergli la disponibilità ad accettare un secondo mandato, l’anziano Presidente aveva posto una sola condizione: si facciano le riforme, e se non si fanno, il primo a dimettermi sarò io. Ciò che è accaduto dopo è dipeso da questo.
Non siamo tuttavia alla fine della transizione. Siamo purtroppo nuovamente all’inizio. La riforma del bicameralismo era indispensabile per cercare di avvicinare l’Italia a tutte le democrazie moderne in cui i meccanismi istituzionali funzionano più rapidamente e con più efficacia del nostro. Ma il problema, è inutile nasconderselo, non era solo la ripetitività del lavoro di due Camere che facevano esattamente le stesse cose. Piuttosto che le facevano con due maggioranze differenti e, nei fatti, spesso opposte: tal che il governo che proponeva ai deputati un certo provvedimento sapeva che a un sì eventuale o condizionato della Camera sarebbe corrisposto poco dopo un no secco del Senato, o viceversa.
Da questo punto di vista, va detto, la riforma che sta per essere votata non dà affatto la garanzia di fornire una soluzione al problema. Perché, è vero che il compito di dare la fiducia ai governi e di affrontare la gran parte delle materie legislative sarà riservato ai deputati; ma è altrettanto vero che sui testi più delicati i senatori avranno il diritto di contestare, richiamandole e discutendole autonomamente, le decisioni appena prese dai loro colleghi di Montecitorio, che dovranno a loro volta riconfermarle con nuove votazioni se non vorranno accettare le richieste di modifiche avanzate dalla Camera alta. Inoltre, con l’elezione indiretta dei senatori da parte dei consigli regionali, e con la distribuzione proporzionale dei seggi tra tutte le Regioni, ciò che prima era possibile (ma è sempre accaduto), le maggioranze diverse tra Camera e Senato, diventa sicuro. Avremo, anzi, un Senato a maggioranze variabili, politiche e geografiche, in cui le appartenenze politiche si mescoleranno, chissà come, alle radici locali e ai caratteri personali. In altre parole, usciamo da un’anomalia – il bicameralismo perfetto – per infilarci in un’altra, che non a caso doveva chiamarsi Senato delle autonomie, al plurale. Che Dio ce la mandi buona.
Marcello Sorgi
Il segnale
d’allarme
dei mercati
A volte sembra che il dibattito economico italiano ed europeo dia per scontato che la crisi globale che ha colpito il mondo sette anni fa sia finita. Che sia rimasta solo l’ombra: una crescita lenta e diseguale e troppa disoccupazione. Un’ombra che potremmo cacciare con una spinta alla domanda, meno rigore, qualche riforma ovvia.
Anche se in diversi Paesi e per certi aspetti la ripresa è evidente, lo strascico della crisi è purtroppo ben più di un’ombra.
È logico che sia così, visto ciò che ha causato la crisi: cioè anni di eccesso di indebitamento pubblico e privato, un po’ in tutto il mondo, debito in gran parte diretto a mascherare l’inefficienza delle pubbliche amministrazioni e di molte imprese e banche, nonché a coprire gli squilibri nella distribuzione dei redditi e nella gestione dei bilanci delle famiglie.
Nelle economie avanzate, in particolare, il declino tendenziale della produttività e la cattiva allocazione delle risorse, datano da molto prima dello scoppio della crisi. Il debito cresceva per nascondere il malfunzionamento delle economie, per far sembrare sereno un sentiero di crescita che invece non era sostenibile.
Se questo è stato il guaio, non se ne esce in fretta, perché occorre correggere insieme le due malattie collegate: l’eccessivo indebitamento e l’inefficienza dell’economia. Ridurre l’indebitamento significa far scarseggiare il credito, cioè rendere più difficile la riorganizzazione economica. Un dilemma per risolvere il quale non ci sono scorciatoie: occorre un lungo e rigoroso sforzo di equilibrio acrobatico per riprendere una crescita sostenibile con meno debiti.
Per ora la crisi ha visto i debiti continuare a crescere. Nelle economie avanzate, in rapporto al Pil, i debiti, pubblici e privati, sono passati dal 240% del 2006 al 275%, nonostante la faticosa frenata dei deficit del fisco di alcuni Paesi. Nelle economie emergenti l’aumento del debito è ancora più forte: anche la loro crescita, che per un po’ era sembrata il nuovo motore dell’economia mondiale, appare oggi meno sostenibile, più instabile, squilibrata e artificiosa, sostenuta da precari boom finanziari.
L’eccesso di debito frena gli investimenti e con essi la buona crescita. Inoltre il debito rende vulnerabile ogni avvio di ripresa: basti pensare che cosa succederebbe se i tassi di interesse controllati dalle banche centrali cominciassero ad aumentare per avvicinarsi alla normalità. Ma i tassi mantenuti bassi così a lungo creano una «trappola della liquidità», dove basta si diffonda il timore di un loro rialzo perché crollino le borse, i cambi delle valute si scompaginino, gli operatori finanziari rischino la crisi. Un rischio accresciuto dal fatto che lunghi periodi di liquidità sovrabbondante e pressoché gratuita incentivano speculazioni azzardate. Quasi come prima della crisi del 2007, oggi sono tornate a ridursi molto le differenze fra i rendimenti di investimenti finanziari che hanno rischi diversi. Quando i tassi non riflettono i rischi sembra che questi siano spariti, che tutto sia tranquillo, che ci sia «grande moderazione», come è stato chiamato il periodo dell’economia mondiale precedente la crisi. Se i mercati stessero esagerando, se si sentissero troppo al sicuro, più di quanto vorrebbero le stesse banche centrali? Sarebbe di nuovo la quiete prima della tempesta.
E’ vero: molte banche si sono irrobustite, hanno aumentato il capitale e ridotto l’indebitamento. Ma ciò è costato un razionamento del credito che ha sfavorito anche gli impieghi più innovativi e preziosi per la crescita. Inoltre, soprattutto in Europa, la fragilità di molte banche, di varia dimensione, è ancora evidente sia nell’ammontare inadeguato del loro capitale che nel rischio dei loro impieghi. L’applicazione dei criteri per valutare i rischi bancari è ancora diversa nei vari Paesi, e la fiducia dei mercati ne soffre, scossa com’è anche dall’emergere di scorrettezze clamorose nel comportamento di alcuni intermediari. Potrebbero diffondersi, più o meno giustificatamente, voci su difficoltà di una o più banche, qua e là nel mondo, anche di dimensioni rilevanti. I mercati potrebbero diffondere il panico e mettere di nuovo alla prova la stabilità finanziaria mondiale.
Ce n’è abbastanza perché l’Ue smetta di guardarsi l’ombelico baloccandosi coi falsi dilemmi fra regole e flessibilità, fra rigore e crescita, mentre non è nemmeno in grado, per esempio, di avviare sul serio l’armonizzazione delle tassazioni nazionali di imprese e banche. Deve sbrigarsi a coordinare e assistere il processo di profonde riforme strutturali che, in modi diversi, è necessario in tutti i Paesi membri per aumentare la loro produttività e competitività. Le iniziative di Bruxelles devono inoltre subito far fare un salto di qualità alla solidità dell’economia europea, mettendo in comune risorse più consistenti per finanziare progetti coordinati di investimento e per accantonare quanto serve a rassicurarci contro i rischi finanziari globali che potrebbero ripresentarsi. Deve rilanciare la concertazione mondiale per migliorare la regolamentazione finanziaria e coordinare le politiche monetarie. La diagnosi della salute delle banche, con cui si avvierà l’unione bancaria europea, non deve lasciar adito a dubbi di sincerità e devono rapidamente aumentare i fondi che, in modo solidale, sono disponibili per capitalizzare meglio le banche e facilitarne la ristrutturazione. I cittadini europei devono sentire che l’Europa è consapevole, oltre che delle opportunità, dei rischi di un mondo dove nessuno dei suoi Paesi potrebbe farcela da solo.
franco.bruni@unibocconi.it
Franco Bruni
Come funziona il semestre
e quali poteri ha la Presidenza
Un compito di proposizione e mediazione tra i vari Paesi
a cura di
Marco Zatterin
Rapporto Vodafone
È l’Italia
il Paese
più “spione”
d’Europa
La Vodafone, svela in un suo rapporto, nel 2013 ha ricevuto 605.601 richieste di accesso ai suoi tabulati telefonici da parte delle autorità giudiziarie italiane. Un record, tra i 29 Paesi serviti dall’azienda britannica. La Francia ne ha chiesti tre, il Belgio due. Tante anche le richieste di intercettazioni: 140.557 nel 2012, contro, ad esempio, le 2760 della Gran Bretagna.
“Telefoni, dai governi controlli diretti”
Il documento di Vodafone: in Italia boom di verifiche, ma solo su richiesta della magistratura
La coincidenza, se davvero è solo una coincidenza, è quanto meno curiosa. Un anno fa – grazie alla talpa Snowden e al giornale Guardian – gli americani scoprivano che il grande fratello non è solo un libro e un format tv. E che le loro vite digitali sono ben monitorate dall’Nsa, l’agenzia di sicurezza nazionale. Sono passati dodici mesi di dibattito globale e, ieri, anche a noi italiani è toccata una sorpresa. È tutta in un numero: 605.601. In un anno, nel 2013, le autorità italiane hanno chiesto 605.601 volte a Vodafone di avere accesso ai tabulati dei suoi utenti. Più di qualunque dei 29 Paesi serviti dall’azienda britannica. A una media di 1.659 richieste al giorno, compresi festivi.
E il record è pure provvisorio, perché riguarda solo uno dei quattro principali gestori italiani. In proiezione, contando anche gli altri, si può immaginare una cifra tre volte superiore.
La notizia arriva da un rapporto proprio di Vodafone, che ha svelato i dettagli sulle attività di sorveglianza telefonica negli Stati raggiunti dalle sue reti. Nelle pagine dedicate all’Italia scopriamo anche il numero di intercettazioni telefoniche condotte nel nostro Paese: ben 140.557. Questo dato si riferisce però al 2012, riunisce tutti gli operatori e – in realtà – era già pubblico: Vodafone l’ha pescato da una relazione del Ministero della Giustizia.
Così, a far discutere sono soprattutto loro: i “metadati”. Quelli al centro dello scandalo “datagate” di Snowden, le tracce lasciate sui tabulati da ogni nostra chiamata o sms. Numeri, date, minuti di conversazione, localizzazione di chi chiacchiera. Non i contenuti delle telefonate (o sarebbero intercettazioni), ma comunque dati sensibili e privati.
La buona notizia è che avviene tutto alla luce del sole, anzi della legge. Per sbirciare nei tabulati, le autorità devono muovere una richiesta formale e serve sempre l’ok di un giudice. Le informazioni devono essere utili per un’indagine in corso e – almeno a quanto ne sappiamo oggi – non vengono raccolte “a tappeto”.
Certo è che oltre 600 mila richieste, per un operatore che in Italia ha circa 30 milioni di schede “sim” attive, sono un bel numero. Gli esperti spiegano: fare confronti con gli altri Paesi è fuorviante, perché ogni nazione ha leggi e procedure diverse. Ma tra gli oltre 600 mila tabulati richiesti dai pm italiani e i tre della Francia o i due del Belgio passa comunque una differenza abissale. Che salta all’occhio.
Tra quelli serviti da Vodafone, l’unico Paese che si avvicina è la Tanzania, ma siamo ancora lontani: 98.765 richieste di metadati. Numeri elevati anche per la Spagna – 48.679 – e per Malta, che ha una popolazione di soli 420 mila abitanti ma ben 3.773 domande all’attivo.
Peggio va nei Paesi che possono invece saltare il passaggio della richiesta formale. È l’altra grande rivelazione fatta ieri da Vodafone: in circa sei di quelle 29 nazioni esistono cavi segreti, per ascoltare le telefonate dei cittadini in modo diretto. Senza bisogno di permessi. Una forma di intercettazione continua e, quella sì, a tappeto.
In quali Paesi corrano questi cavi non è dato sapere, perché sul punto l’azienda – per evitare ritorsioni ai dipendenti – ha deciso di mantenere il segreto. Ma restringere il campo non è difficile. In nove dei 29 Stati serviti da Vodafone è vietato rivelare qualunque informazione sulle intercettazioni. Questi Paesi sono Albania, Egitto, Ungheria, India, Malta, Qatar, Romania, Sudafrica e Turchia.
stefano rizzato
Le giornate
della merla
portano neve
La tradizione contadina usava un racconto per spiegare i tardivi ritorni del freddo invernale. L’arroganza della Merla, che il 28 aveva osato già cantare la primavera, fu punita da Gennaio nei tre giorni seguenti (ottenuti da Febbraio, che invece, prima, di giorni ne aveva 31) con un gelo rimasto da allora proverbiale. E i «Dì ’d laMerla» sembrano quest’anno in grado di portare la neve in pianura, grazie ai flussi nord atlantici raffreddati da contributi che spirano dall’Artico. Passate le tiepide giornate di Foehn, trascorsi i primi due giorni della settimana con nuvole sulle Alpi, fiocchi su Alto Verbano e Ossola ma quasi sereno altrove, sarà il mercoledì a portare una spruzzata bianca su Vallée e Piemonte, fin dalla mattinata. L’ accumulo più importante, 20cm, tra entroterra ligure e Cuneese specie nella serata-nottata di mercoledì. I fiocchi nella notte si sposteranno tra Biella e Novara, concedendo nella mattina seguente una breve tregua. Da venerdì saranno le piogge a prevalere su gran parte della regione, mentre sul Basso Piemonte è prevista neve ma a quote più alte, sopra i 500 mt. E non sarà finita, perché la perturbazione si attarderà sul Nord Ovest sabato e domenica, con piogge sparse che diventeranno neve a quote di alta collina, grazie ai flussi più temperati in arrivo dal mar Ligure.
romano.fulvio@libero.it
Fulvio Romano
Matteo, di’ qualcosa di europeo
Dopo anni di retorica europeista è arrivato un generalizzato risentimento anti-europeo, perché la dura realtà sociale ed economica viene da molti imputata univocamente «all’Europa» o a «Bruxelles». Le elezioni europee ci piomberanno addosso interamente strumentalizzate in questo senso e si sovrapporranno fatalmente alle elezioni italiane.
Sintomatica è la mossa di Forza Italia, disposta a trattare le proposte elettorali di Renzi solo a patto che si arrivi ad un election day che faccia coincidere le consultazioni nazionali con quelle europee. E’ una mossa insidiosa. La possibilità di sfruttare tempestivamente il crescente malumore anti-europeo porterà Berlusconi a non insistere troppo sui dettagli del nuovo sistema elettorale - pur di sfruttare l’occasione a proprio vantaggio. In questa direzione si muoverà lo stesso Grillo dietro la cortina fumogena delle sue aggressive esternazioni.
Il Pd è molto debole sulle questioni europee. Renzi ribadisce genericamente la possibilità di «sforare il vincolo del 3% del rapporto tra deficit e Pil» come se fosse una bazzecola. Sulla politica dell’euro, sul ruolo delle istituzioni europee si sentono solo affermazioni benevolmente generiche. Come pure sulla Germania, la nazione che di fatto è in grado di determinare l’orientamento europeo. In proposito Renzi non ha mai detto nulla di significativo e soprattutto di comunicativamente efficace - come ci si attenderebbe dal suo stile mediatico. In realtà sull’Europa e sulla Germania non si possono fare battute. Occorre un discorso articolato e convincente per l’elettorato del Pd che è molto perplesso. Non mi è chiaro se Renzi è in grado di farlo.
Nell’area di maggioranza, tutte le proposte avanzate per rimettere in moto la politica e l’economia nazionale danno per acquisito e immutabile il quadro contestuale europeo così come è oggi, con i suoi vincoli. In questa ottica si muove il governo di Enrico Letta preoccupato innanzitutto di dimostrare la sua lealtà europea. Dopo le contraddittorie e velleitarie mosse dell’ultimo Mario Monti, travolto poi dai suoi stessi errori, l’Italia non ha una linea profilata e attiva sulle questioni europee. Per la stampa tedesca l’unico «italiano» che conta è Mario Draghi alla guida della Banca centrale europea. Ma lo scrive con ambivalenza.
Sin tanto che le cose staranno così, l’Italia non uscirà mai dalla sua posizione marginale sulle questioni europee. Manca un discorso pubblico adeguato. Su questo punto l’offensiva comunicativa di Renzi è assente. Ma non può non sapere che l’anti-europeismo (comunque declinato) sarà uno dei motivi dominanti della prossima campagna elettorale.
Essere anti-europei oggi è sin troppo facile, mentre ribadire le ragioni dell’Unione europea è diventato molto impegnativo, perché non può coincidere con la semplice accettazione dello status quo. Anche i critici più benevoli non possono negare che sono emersi «errori di costruzione», in parte risalenti agli stessi Trattati di Maastricht che esigono di essere corretti - senza sfasciare tutto come temono i tedeschi.
Occorre reinterpretare criticamente la fortunata affermazione di Angela Merkel, con la quale la cancelliera ha vinto le ultime elezioni tedesche e continua a condizionare i partner europei - «se fallisce l’euro, fallisce l’Europa». E’ una tesi efficace che ha tuttavia il sottinteso non detto che l’euro di cui parla la Merkel, l’euro che non deve fallire, è quello che segue puntigliosamente le regole, le norme e i vincoli che hanno funzionato sinora. Esasperano le differenze, anziché promuovere convergenze solidali - come era stata la promessa della moneta unica. Ostacolano ogni proposta correttiva e soprattutto ogni forma di allentamento del cosiddetto «rigore» (eurobonds, iniziative sospette della Bce ecc.) con il ricatto che altrimenti tutto si sfascia.
Su tutto questo vigila la Germania della cancelliera Merkel che, preservando legittimamente il suo efficiente sistema produttivo, gode di uno straordinario consenso popolare e del sostegno delle sue autorevoli istituzioni (dalla Corte costituzionale alla Bundesbank). La Germania oggi è un’autentica fortezza democraticamente fondata. Contro questo paradosso non sta in piedi nessuna facile demagogia anti-tedesca.
E’ in grado Renzi di affrontare questa problematica e di spiegarla agli elettori del Pd? A questo proposito il partito democratico potrebbe fruttuosamente stabilire rapporti di lavoro con la socialdemocrazia tedesca, che con la formazione della Grande Coalizione ha conquistato una posizione molto importante. Certo: la coalizione guidata dalla cancelliera Merkel è fondata sullo «scambio politico» per cui la Spd può dedicarsi alla realizzazione di una coraggiosa politica sociale interna purché non interferisca con la linea politica del rigore per quanto riguarda l’Europa e «la difesa dell’euro», nel senso appunto inteso dalla Merkel. Ma molti socialdemocratici nutrono forti critiche verso questa linea. Condividono molte idee e proposte che possono essere sostenute anche dal Pd: dal «fondo salva-stati» dotato di maggiori poteri e ancorato al Parlamento europeo, a modifiche dello statuto Bce perché si avvicini al modello della Federal Reseve americana, e altre proposte in tema di fiscalità, riforma bancaria ecc.
Ma al di là delle singole proposte, occorre ricreare convergenze tra le grandi forze progressiste europee per uscire dallo stallo politico in cui si è cacciata l’Unione europea. Scongiurare che il prossimo Parlamento europeo venga paralizzato dalla presenza chiassosa e irresponsabile di forze ostili alla rifondazione di un’Europa che ha il coraggio di apprendere dagli errori che hanno portato alla sua crisi attuale.
Gian Enrico Rusconi
La parentopoli e il grande deficit
Il rebus della maggioranza alternativa
La crisi di governo temuta ed esorcizzata tante volte negli ultimi giorni è tornata ad aleggiare pesantemente ieri pomeriggio.
E le ventiquattro ore di sospensione delle ostilità - decise a tarda sera dopo il pomeriggio di guerriglia procedurale nella giunta per le elezioni del Senato tra il centrodestra, da una parte, e Sel e 5 stelle dall’altra, con il Pd in mezzo - sono l’ultima remota possibilità per cercare un compromesso e tentare di salvare Letta e le larghe intese. Sul salvataggio di Berlusconi, infatti, non scommette più nessuno: lui stesso, l’interessato, punta solo a un allungamento dei tempi, sperando che l’intreccio tra il nuovo giudizio della corte d’appello di Milano, annunciato per il 19 ottobre, l’inevitabile successivo ricorso per Cassazione che i suoi legali proporranno, nonché il pronunciamento della Corte europea per i diritti dell’uomo a cui s’è rivolto, producano un’inestricabile matassa giudiziaria e un rinvio sine die della condanna che lo riguarda.
Una pura illusione, stando all’atteggiamento con cui gli esponenti di M5s e il presidente Stefano (Sel) della giunta del Senato si sono presentati a Sant’Ivo alla Sapienza (nello stesso luogo in cui vent’anni fa Giulio Andreotti fu mandato a processo per mafia), obbligando il Pd a schierarsi con la linea dura che voleva arrivare subito, già nella prima seduta della giunta, a bocciare la relazione del Pdl Augello, favorevole a coinvolgere la Corte costituzionale nel riesame della legge Severino e ad aspettare la Corte europea prima di decidere.
Alla fine di un duro braccio di ferro s’è deciso di aspettare fino a stasera. Ma al di là della battaglia procedurale, politicamente il quadro è chiaro. La maggioranza Pd-Sel-5 stelle, con l’aggiunta solo leggermente più incerta di Scelta civica, manifestatasi contro Augello per bocciarlo, sarà la stessa che si raccoglierà a favore della decadenza di Berlusconi da senatore, non appena un nuovo relatore sarà nominato e la procedura potrà essere conclusa. Tempo previsto, al massimo, un mese, ma c’è chi pensa o dice anche una settimana.
Prima ancora, forse già stanotte, al più tardi domani, se la votazione della giunta avrà l’esito annunciato, il Cavaliere aprirà la crisi. Si vedrà allora se la nuova coalizione che ha preso corpo contro Berlusconi sarà in grado di esprimere un nuovo governo, che difficilmente, avendo una maggioranza diversa da quello attuale, potrebbe essere guidato da Letta. O se invece, malgrado gli sforzi di Napolitano per evitarle, si andrà a nuove elezioni. Un disastro.
Marcello Sorgi
Il giornalista de La Stampa Domenico Quirico è stato liberato. Rapito lo scorso 9 aprile mentre si trovava in Siria, è atterrato all’aeroporto di Ciampino a Roma dopo la mezzanotte del nove settembre. “Chiedo scusa”, ha detto nella prima telefonata al direttore Mario Calabresi, “per avervi fatto preoccupare ma questo è il mio giornalismo. “E’ stata una terribile esperienza, cinque mesi sono lunghi ma ce l’ho fatta. Mi sembra di essere stato su Marte, adesso sono tornato sulla terra e ho appreso alcune notizie di come si e’ evoluto il mondo. Chiedo scusa ma tu – ha detto ancora Quirico a Calabresi – sai qual e’ la mia idea di giornalismo, di andare dove la gente soffre e ogni tanto tocca soffrire come loro”
Emozionato il direttore de La Stampa Mario Calabresi: “Erano esattamente cinque mesi”, ha commentato su Twitter, “che aspettavamo questa notizia. Ho ricevuto una commovente telefonata di Emma Bonino”. A inizio agosto un cauto ottimismo delle autorità italiane aveva fatto sperare che il giornalista potesse tornare in Italia nelle settimane successive.
“La notizia”, ha commentato il ministro degli esteri,”mi riempie di grande gioia e di soddisfazione. Il mio pensiero va prima di tutto ai parenti che potranno finalmente riabbracciare Quirico dopo tanti mesi e numerosi momenti di ansia”. E ha aggiunto “Il mio ringraziamento va a chi ha contribuito al felice esito della vicenda. La liberazione del giornalista è anche una bellissima notizia per tutti i rappresentanti dei media che rischiano la vita sui fronti di guerra per raccontare la verità in situazioni estreme”. A commentare con soddisfazione anche il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il primo ministro Enrico Letta. “Non abbiamo mai perso la speranza”, ha aggiunto il premier.
Chi è Domenico Quirico
62 anni, inviato di guerra, è da molto tempo in prima linea nei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, di cui è un grosso conoscitore e a cui nel 2011 ha dedicato un libro: “Primavera araba“. Nell’agosto 2011 nel tentativo di arrivare a Tripoli, durante la rivolta anti-Gheddafi in Libia, fu rapito insieme con due colleghi del Corriere della Sera e uno di Avvenire. Durante il sequestro fu ucciso il loro autista, i reporter sono stati liberati solo due giorni dopo.
Quirico ha seguito tutte le vicende africane degli ultimi vent’anni, dal Ruanda al Congo, alla Somalia. Negli ultimi anni si è dedicato alla guerra in Mali, è stato in Somalia e ora era la quarta volta che si trovava in Siria.
E’ “uno di quei giornalisti – si legge sul sito del suo giornale – per cui ha ancora senso consumare le scarpe per andare alla ricerca non solo di una notizia, ma di qualcosa da raccontare ai lettori di oggi e alle generazioni future, con una promessa: parlare solo di ciò che conosce e ha visto con i propri occhi”.
Il rapimento
L’inviato de La Stampa Domenico Quirico era sparito lo scorso 9 aprile in un vero e proprio “buco nero” della Siria in guerra. Con una lunga esperienza in teatri di guerra e scenari ad altissimo rischio, sembrava esser stato risucchiato nella regione tra Homs e Damasco.
L’ultimo contatto con lui si è avuto il 6 giugno, quando è riuscito a chiamare per pochi istanti la moglie dopo 58 giorni di silenzio in cui si era temuto il peggio. Quirico aveva probabilmente telefonato da Qusayr, cittadina roccaforte dell’insurrezione a ridosso del confine libanese e a sud-ovest di Homs, successivamente espugnata dalle forze del regime del presidente Bashar al Assad. Le informazioni rese note da La Stampa dalla fine di aprile si erano limitate a dire che Quirico era entrato in Siria all’inizio di quel mese dalla frontiera libanese. Altre fonti ben informate avevano in seguito affermato che il giornalista italiano aveva passato il confine con lo storico e arabista belga Pierre Piccinin, anch’egli liberato. Piccinin in passato aveva già accompagnato Quirico nel nord della Siria e risultava anch’egli scomparso dall’inizio di aprile.
Quirico non era entrato con visto concesso dal regime di Damasco, ma era dovuto passare tramite i valichi informali tra i due Paesi, controllati da contrabbandieri ma ormai anche da milizie non sempre organiche col variegato fronte dei ribelli locali che lottano contro il presidente Bashar al Assad.
Dopo alcuni giorni di attesa, il primo allarme era stato lanciato lunedì 15 aprile quando era stata allertata l’unità di crisi della Farnesina, che ha subito iniziato le ricerche. Il 18 maggio era intervenuto sulla scomparsa anche il presidente siriano che, in un’intervista al quotidiano argentino Clarìn, aveva fatto sapere di non avere informazioni su Quirico. Il primo giugno le figlie del giornalista, Eleonora e Metella, avevano pubblicato un videomessaggio per chiedere notizie sul padre. Un appello alla liberazione era arrivato anche da Papa Francesco, che il 2 giugno ha chiesto la liberazione di tutti gli ostaggi presi in territorio siriano.
Quanto pesa il silenzio di Renzi
Magari è solo l’ennesimo effetto collaterale di un dibattito interno oltremodo avvelenato: ma nella ridda di polemiche e commenti intorno alla posizione che il Pd dovrebbe tenere in caso di conferma della condanna di Silvio Berlusconi, c’è un silenzio che colpisce.
È quello di Matteo Renzi, oggi il leader più popolare – e domani forse il segretario – del Partito democratico. Che pensa della vicenda? Cosa crede che il suo partito debba fare? E anzi: cosa farebbe lui nei panni di Guglielmo Epifani?
Dall’interno del Pd si sono levate, in questi giorni, diverse voci: quella di chi ritiene che non si possa restare alleati di governo con un leader definitivamente condannato, quella di chi replica che la situazione giudiziaria del Cavaliere era nota e quindi è ipocrita fingere di cadere dalle nuvole, quella – infine – di chi sostiene che l’atteggiamento dei democratici debba dipendere ed esser proporzionato alla «qualità» della reazione del Pdl. Già, ma che pensa – e perché non parla – il leader che tra quattro o cinque mesi potrebbe essere alla guida del partito e deciderne tattica e strategia?
Da un paio di settimane – come è noto – Matteo Renzi è in silenzio stampa, e ancora ieri ha argomentato questa scelta con qualcuno dei suoi che lo sollecitava a riprendere la battaglia: «Vivo questo momento con grande distacco... Mi hanno accusato di pugnalare alle spalle Letta, proprio io che ho detto sempre lealmente le cose in faccia. Se mai decideranno di fare il Congresso, fissandone regole e data, dirò quel che penso su tutto: dal governo a Berlusconi. Ma fino a quel momento, tolgo loro l’alibi per attaccarmi: sto zitto e lavoro per Firenze».
È una scelta, una linea: discutibile, naturalmente. Perché – è chiaro – una cosa è una moratoria alle dichiarazioni intorno agli F35 e alla legge elettorale, oppure sul finanziamento ai partiti o le regole per le primarie, mentre altro – tutt’altro – sono la curiosità e perfino il diritto degli iscritti e degli elettori democratici a sapere che linea avrebbe assunto – in un tornante politico così delicato – un Pd a «trazione renziana». Avrebbe chiesto a Letta di interrompere la sua esperienza di governo, in caso di condanna confermata a Berlusconi? Oppure avrebbe tirato dritto per la strada decisa in aprile?
Impossibile saperlo. E al di là del momentaneo vantaggio che Renzi potrebbe trarre dal tacere (non alimentare polemiche e non farsi nuovi nemici, né a destra né a sinistra...) il suo silenzio sottrae al dibattito un importante elemento di conoscenza e orientamento: pur se è vero che su Berlusconi e i suoi guai il pensiero del sindaco di Firenze è sufficientemente noto. Infatti, ha più volte spiegato che avrebbe votato contro l’ineleggibilità del Cavaliere, perché le leggi non si possono applicare a intermittenza o secondo la convenienza. E più in generale, ben prima dell’inizio del suo polemico silenzio stampa, spiegava: «Io ho sempre sognato di battere Berlusconi alle elezioni, e ho sempre detto di volerlo mandare in pensione non in galera».
Si può, allineando queste dichiarazioni, immaginare in che trincea Renzi-segretario calerebbe il «suo» Pd, in caso di condanna confermata per il Cavaliere? Molto probabilmente non aprirebbe la crisi di governo, ma voterebbe per la sua decadenza da senatore. Oppure no, tutto il contrario: via dal patto col «Caimano» e di corsa verso altre soluzioni o, forse, addirittura verso nuove elezioni... Difficile dire. E così, l’iscritto-elettore democratico resta col dubbio, azzarda ipotesi, propone scommesse. Noi diremmo: assurdo, ci vuole chiarezza. E invece, magari, il silenzio e l’attenzione che quel «mutismo» oggi determina, sono un altro piccolo colpo di un leader che si conferma imbattibile sul terreno della comunicazione...
Federico Geremicca
Io Ruby, tu Idem
La ministra Idem si è dimessa: non sopportava di restare in un governo sostenuto da Berlusconi. A parte gli scherzi, fino a pochi anni fa una doppia mazzata come quella di ieri avrebbe creato sconquassi umorali nel Paese. Il politico italiano più conosciuto nel mondo condannato a sette anni e interdetto dai pubblici uffici per reati odiosissimi. Una ministra della Repubblica costretta ad andarsene a casa (pardon, in palestra) per avere evaso le imposte sugli immobili. E invece, se si escludono i giornalisti, i politici e le tifoserie strette, l’impressione è che ormai questi eventi scivolino addosso agli italiani senza lasciare altra impronta che un sospiro di fastidio misto ad assuefazione. L’assillo economico ha scompaginato le priorità, persino quelle dell’ira. Chi non dorme la notte per un mutuo da pagare o un figlio da occupare non riesce a eccitarsi per delle partite di giustizia e potere che si dipanano in un altrove da cui non pensa di poter trarre benefici concreti.
Le crisi economiche spolpano la democrazia perché riducono drasticamente l’interesse dei cittadini per la cosa pubblica. Il vero confine, oggi, non è più fra chi sta con i magistrati e chi no, ma fra chi crede ancora nel futuro e chi no. Per rimanere in ambito femminile, Ruby e Idem turbano i sonni degli italiani molto meno di Iva. Esiste solo una donna che potrebbe svegliarci da questo incubo e si chiama Speranza. Ma per ora rimane lì, muta. In attesa che la politica posi i codici dei penalisti e le calcolatrici degli economisti per darle finalmente la parola.
Massimo Gramellini