Cultura
Il sindaco ora lascia l’antipolitica
Con la lettera inviata ieri ai leader di tutti gli altri partiti Matteo Renzi ha aperto la sua campagna d’inverno. È l’unico in questo momento che sembra aver la forza di condurre il gioco, ed è anche, di tutti i giocatori, quello che ha in mano le carte migliori. Ciò non toglie però che per lui cominci ora una partita di gran lunga più ardua rispetto a tutte quelle passate.
Al discredito che è venuto montando da almeno un quarto di secolo e si è infine gonfiato a dismisura la politica italiana ha risposto seguendo due vie, una seria e una facile. Quella seria è consistita nell’autoriformarsi al fine di recuperare credibilità, e la classe politica italiana l’ha battuta in maniera drammaticamente insufficiente. Quella facile è consistita invece del presentarsi come «nuovi» al fine di cavalcare l’antipolitica, appropriandosene e rivolgendola contro i propri avversari. E l’hanno battuta in moltissimi, proprio perché facile. Anche se nel lungo periodo pericolosissima, perché un politico che scredita la politica carica un’arma che un giorno – il giorno inevitabile in cui arriverà qualcuno di più nuovo e populista ancora – gli sarà rivolta contro.
Maestro insuperato nel muoversi lungo il crinale che separa la politica dall’antipolitica, ossia nel volgere politicamente a proprio vantaggio le retoriche dell’antipolitica, è stato per un ventennio Berlusconi.
Finora Renzi si è dimostrato in questo un eccellente discepolo del Cavaliere. Si potrebbe anzi sostenere che la novità principale della sua ascesa alla guida del Pd sia consistita proprio nell’aver egli portato quest’ambiguità «berlusconiana» fin dentro la roccaforte della tradizione postcomunista. Una tradizione che con l’antipolitica, certo, aveva giocato molto e spesso, e da parecchio prima di diventare «post». Ma nella quale l’orgoglio, e se vogliamo l’arroganza, di una certa idea della politica erano comunque rimasti ben più robusti che in tanti altri quartieri. Si potrebbe poi aggiungere pure che, per una curiosa coincidenza, il Partito democratico ha fatto propria quest’ambiguità proprio nel momento in cui la principale forza del centro destra, con l’indebolirsi della leadership di Berlusconi e con la scissione, l’ha in larga misura perduta.
È fuori discussione, a ogni modo, che Renzi sappia rispondere assai bene al discredito della politica imboccando la strada facile, ossia unendosi al coro antipolitico dei critici e detrattori. Con la lettera di ieri, tuttavia, il sindaco di Firenze si è candidato a tentare un gioco diverso e più difficile: cercar di rispondere al discredito pure battendo la via seria.
In termini puramente tattici la sua «apertura» sembra assai indovinata: la riforma del bicameralismo e quella del federalismo, sulle quali (a parole) sono tutti d’accordo e che taglierebbero in maniera assai significativa i costi della politica, servono per mettere alla prova la reale capacità di autoriforma del «Palazzo»; un ampio ventaglio di opzioni sulla riforma elettorale scarica preventivamente sugli altri la responsabilità di un eventuale fallimento; riforme a costo zero sulla Bossi-Fini e sulle unioni civili hanno lo scopo di collocarlo chiaramente a sinistra. L’ambiguità di cui si diceva prima, ossia la capacità di essere al contempo politico e antipolitico, può inoltre rappresentare un’arma importante per Renzi, che gioca su due tavoli là dove tutti i suoi concorrenti possono invece giocare su uno solo: Grillo deve sperare che tutto fallisca, come dimostrano le reazioni del M5S all’iniziativa renziana; Berlusconi pure; Letta e Alfano, all’opposto, non possono che scommettere sul tempo e sui risultati.
Quella stessa ambiguità, tuttavia, potrebbe anche diventare un problema per il sindaco di Firenze. Esploderebbe, innanzitutto, se il governo e la legislatura dovessero durare fino al 2015 e le riforme però non fossero fatte. Non per caso lo scenario che Renzi teme di più – e che con lui in verità dovremmo temere tutti. Ma non sarebbe facile gestirla, quell’ambiguità, nemmeno se il tavolo saltasse assai prima, e si dovesse andare al voto già nella primavera prossima. In quel caso Renzi dovrebbe essere molto abile nell’allontanare da sé ogni responsabilità per l’ennesimo fallimento della politica. Lo dovrebbe fare però da segretario del Pd, ossia del partito oggi di gran lunga più forte in parlamento. Lo dovrebbe fare inoltre da segretario del Pd che né nelle primarie né per il momento nei sondaggi, per quel che valgono, pare essere riuscito ancora a pescare in misura rilevante nel bacino del voto di protesta. E lo dovrebbe fare, infine, in competizione con leader pienamente antipolitici e particolarmente abili in campagna elettorale come Grillo e Berlusconi.
Forse, insomma, conviene anche a Renzi che la via seria funzioni. Per non parlar del Paese, al quale converrebbe di certo.
Giovanni Orsina