ebook di Fulvio Romano

martedì 12 dicembre 2017

La resistenza di un Andreotti versione 2.0

LA STAMPA 

Cultura

La resistenza

di un Andreotti

versione 2.0

A un anno dal suo insediamento a Palazzo Chigi, Paolo Gentiloni è in cima a tutte le classifiche di fiducia, gradimento, popolarità. È stato una scoperta (anche se aveva già una lunga carriera alle spalle), ed è certamente merito di Renzi averlo rilanciato, prima come ministro degli Esteri al momento della grave recrudescenza del terrorismo islamico, poi come presidente del Consiglio dopo la peggiore sconfitta - quella al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 - che il Pd e il centrosinistra abbiano mai subito negli ultimi anni. Sembrava impossibile risalire la china: eppure Gentiloni ce l’ha fatta, ha raccolto i frutti della ripresa economica, debole ma significativa dopo otto anni di crisi, senza mai vantarsene troppo, quasi lasciando intendere (anche se non è vero) che il merito fosse di altri. 

Ha materialmente salvato le banche, convincendo l’Europa che era suo diritto farlo con soldi pubblici, e lo ha fatto senza litigare con la Banca d’Italia. Ha gestito crisi complicate, come quella dell’Ilva, e non solo, smorzando le tensioni, alla sua maniera, e tenendo duro quand’era necessario.

La simpatia con cui l’opinione pubblica ha accompagnato il suo governo è rimasta per certi versi inspiegabile: perché sarebbe stata più logica a inizio di legislatura, quando gli elettori, anche quelli pigri che non vanno più a votare, sono ben disposti e sperano in un cambiamento che il più delle volte non arriva (o se arriva, com’è accaduto con Renzi, solleva tali e tante di quelle reazioni ostili da spaventarli). Mentre al momento di tirare le somme, e dopo un fallimento come quello delle riforme costituzionali, si poteva scommettere più sul fatto che Gentiloni sarebbe andato in giro a schivare i pomodori e le proteste della gente avvelenata dalla delusione, che non sul successo che alla fine gli è venuto incontro, al punto da motivare un’evidente gelosia anche in chi, come il suo predecessore, l’aveva voluto a quel posto.

In quest’anno appena trascorso, Renzi in effetti lo ha più contrastato che aiutato, sebbene non gli abbia mai fatto mancare l’appoggio dei gruppi parlamentari del Pd. E potrebbe rovinarlo se, come sembra, si mettesse davvero in testa di usarlo al suo fianco in campagna elettorale. Lo ha costretto a mettere la fiducia su una legge elettorale di cui tra l’altro ha cominciato a pentirsi, nel dubbio che alla fine risulti più favorevole al centrodestra, anche se Gentiloni, nel suo primo discorso di fronte al Parlamento, aveva promesso che il governo se ne sarebbe tenuto distante. Lo ha pressato a non rinnovare il mandato al governatore Visco, che un giorno sì e l’altro pure la delegazione renziana nella commissione parlamentare d’inchiesta prende di mira, nel tentativo - impossibile - di trasformarlo nell’unico colpevole delle truffe ai danni dei risparmiatori. E Gentiloni per tutta risposta, d’intesa con Mattarella, ha confermato Visco nel suo incarico.

Tra gli addetti ai lavori capita sovente di domandarsi: come ha fatto a sopravvivere a un anno così terribile, di che pasta è fatto, ma se era tanto debole da farsi venire un mezzo infarto, quando ha cominciato, com’è riuscito a riprendersi e a diventare così forte? Se lo chiedono vecchi e nuovi frequentatori del Palazzo e sono in tanti a non sapersi dare una spiegazione. Eppure, la risposta a tutte queste domande è una sola: Gentiloni ha vinto la sua sfida perché è un Andreotti 2.0, una versione aggiornata, un formidabile anticipatore della stagione del ritorno al passato che sta per cominciare. Del Divo Giulio, che prima o poi finirà per essere rivalutato, ha la stessa passione per i dettagli, una certa secchioneria, la capacità di sminuzzare i problemi in pezzetti piccoli o addirittura infinitesimali, di ricevere un prefetto mentre aspetta una telefonata dalla Merkel, da Macron o da Trump, di ascoltare anche l’ultimo funzionario, anche l’ultimo commesso di Palazzo Chigi, dando l’impressione di saper valutare un suggerimento inutile. L’arte di governare l’Italia è anche questa. Soprattutto, verrebbe quasi da dire. E chissà che a Gentiloni non tocchi di doverlo fare ancora a lungo, perfino contro i suoi desideri.

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Marcello Sorgi