Italia
L’Europa vende la sua storia
E le chiese diventano uffici,
ristoranti, negozi e moschee
Dalla Sicilia alla Scandinavia: nel vecchio continente secolarizzato
centinaia di edifici sacri del cristianesimo cambiano destinazione
Dalla Sicilia alla Scandinavia: nel vecchio continente secolarizzato
centinaia di edifici sacri del cristianesimo cambiano destinazione
Tappeti al posto degli inginocchiatoi. L’arabo che riecheggia dove per secoli si è pregato in latino e italiano. E appesi al muro non più ritratti di santi ma orologi digitali che segnano l’ora e la posizione della Mecca. È questa la seconda vita della chiesa di San Paolino dei giardinieri, nel cuore della vecchia Palermo, a due passi dalla Cattedrale. La prima chiesa d’Italia trasformata in moschea, nel 1990, oggi non solo è il fulcro dell’Islam in Sicilia, ma anche un esempio per le nuove moschee che stanno sorgendo in tutta Europa al posto di chiese ormai vuote, sconsacrate, abbandonate.
In Gran Bretagna, Germania, Francia, Svezia, Belgio e Olanda sono sempre di più le comunità cristiane che preferiscono monetizzare cedendo a un’altra religione luoghi di culto resi dalla fuga di fedeli peggio che inutili, solo costosi. Perché tra il mantenere una chiesa dove nessuno mette più piede e vendere, la seconda opzione oggi almeno nel Nord Europa, sta diventando di gran lunga la preferita. Solo in Frisia, nel nord dell’Olanda, circa 250 delle 720 chiese hanno chiuso i battenti e sono diventate appartamenti, uffici, ristoranti o, in una manciata di casi, moschee. Nel Regno Unito, a Manchester, Bradford, Londra e in alcuni piccoli centri a rilevare le chiese sono state le comunità islamiche, in cerca di un posto per i propri fedeli. I prezzi, in un Paese che svende le case a una sterlina nelle aree più depresse, per quanto tenuti segreti pare siano stracciati. Nelle Midlands sono diverse le trattative in corso in città di medie dimensioni. D’altronde, molto prosaicamente, come spiega uno studioso del Corano di Marsiglia che preferisce restare anonimo, «anche per le religioni vale la legge del mercato, se la gente non entra più dal formaggiaio ma vuole mangiare pesce, il formaggiaio chiude e tra le stesse quattro mura apre un pescivendolo». Il pescivendolo che ha preso il posto del formaggiaio a Palermo è incastrato tra i tre mercati principali della città: Ballarò, il Capo e la Vucciria.
Ha all’ingresso un’insegna senza troppi fronzoli, con scritto in caratteri semplici “moschea” in italiano e in arabo. A dividerla dalla strada un lungo cancello nero e un minuscolo cortile cementato. Sulla destra all’ingresso, degli scaffali su cui lasciare le scarpe. Nell’angolo un enorme tendone verde fa da separé: è dove possono pregare le donne, rigorosamente tenute lontane dagli sguardi dei maschi. L’atmosfera è straniante, come conferma il fondatore dell’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia) Hamza Piccardo: «D’altronde siamo in tutto e per tutto dentro a una chiesa barocca, per quanto modificata». Anche l’altare è sparito. Se si tralascia l’installazione-provocazione di Christophe Buechel, che nel 2015 trasformò una chiesa in moschea all’interno della Biennale di Venezia - scatenando un putiferio fatto di minacce, vigili urbani con i sigilli, spintoni, insulti e carte bollate arrivate sino al Tar - in Italia sono solo due a oggi le chiese trasformate ufficialmente in moschea, questa di Palermo e quella di Agrigento, inaugurata nel marzo del 2015 dove prima sorgeva una chiesa evangelica.
Daniel Abdin, direttore del centro islamico Al Nour di Amburgo ha vissuto in prima linea il travaglio dell’acquisizione, nel 2012, e poi della costruzione: «Ci hanno messo tutti i bastoni tra le ruote, associazioni cristiane, partiti politici, gente comune. La verità è che quella chiesa era chiusa da dieci anni, nessuno la frequentava. È diventato un bastione del cristianesimo solo dopo il nostro acquisto». Gli stessi meccanismi si stanno ripetendo in Belgio. E lo stesso discorso vale per Francia e Svezia: la moschea di Graulhet, aperta negli anni Ottanta e in grado di rendere più forte il tessuto sociale anziché sfibrarlo, e la supercolletta da tre milioni della chiesa di Nacka per costruire accanto all’edificio cristiano una moschea, sono due casi emblematici di convivenza pacifica. Ma non bastano a controbilanciare situazioni esplosive in luoghi ad alto tasso di rischio, come Malmoe. O Marsiglia, dove è nato un caso politico attorno alla sinagoga in centro città comprata e poi convertita in moschea. Si trova in rue Saint Dominique, a due passi dalla stazione di Saint-Charles, la più grande della città, a quattro dalla cartolina del Vieux Port. Il palazzo, anonimo, potrebbe essere qualsiasi cosa. A far intuire l’esistenza di una moschea è la scritta “associazione islamica al Badr”. Il giovedì non si vede nessuno ed è più animato il negozio dirimpetto che vende abiti islamici e fidget spinner, il gioco del momento. Ma il venerdì, giorno della preghiera islamica, è tutto un via vai di uomini e bambini vestiti a festa, in abiti bianchi elegantissimi. Tra i venti-trentenni la “divisa” è quella della squadra di calcio locale, l’Olympique Marsiglia. Il cancello aperto lascia intravedere i lavori in corso e un soffitto da cui pendono una serie di cavi che paiono infiniti. Ha aperto poco più di un anno fa ed è ancora un cantiere. Ma per ultracattolici ed ebrei intransigenti, la moschea di Al Badr è l’inizio di una colonizzazione, un’invasione.
Al Badr è anche il nome dell’associazione nata nel 2009 a Marsiglia per una serie di scopi nobili: organizzazione di viaggi nei luoghi sacri dell’Islam, corsi per analfabeti, attività sociali e ricreative. Ma chi non li vede di buon occhio punta il dito su un’altra loro attività molto meno reclamizzata: Al Badr raccoglie infatti fondi per comprare chiese e sinagoghe nel sud della Francia e allo stesso tempo allaccia contatti per trovare venditori. Finora la moschea di Rue Saint-Dominique è l’unico acquisto: lì c’era la sinagoga Or Torah. Ma il rabbino che l’ha venduta, per 400 mila euro, non si è pentito. Zvi Ammar, presidente del Concistoro israelita di Marsiglia, ricorda che ormai gli ebrei che vivevano nei pressi della sinagoga si sono tutti spostati in altri quartieri della città: «La sinagoga era vuota da anni e bisogna fare i conti con i cambiamenti sociali. Gli ebrei a Marsiglia sono circa 70 mila, i musulmani oltre 220 mila. Nel ghetto la sinagoga è sempre piena, qui non aveva più ragione d’essere. Siamo passati da cento persone a preghiera negli anni Settanta a meno di venti persone per lo Shabbat».
Gli uomini fuori dalla sinagoga diventata moschea non amano parlare degli scopi dell’associazione. A un primo approccio sono tutti affiliati, vicini all’imam. Ma appena il discorso vira sulle mire espansionistiche di Al Badr, nessuno sa nulla. Ahmed, con addosso la maglia dell’idolo del calcio locale André-Pierre Gignac, sogna «una moschea scintillante, costruita da zero, senza un passato ingombrante. Ma dalle mie parti si dice che quello che hai è spesso più di quel che meriti». L’amico Omar, algerino, giovane, sfrontato e in cerca di occupazione, sostiene Al Badr pur ripetendo più volte di non conoscerne bene i meccanismi: «I musulmani aumentano in Francia, è normale vedere aumentare il numero di moschee. E il problema a quanto ne so non sono preti e rabbini che non vogliono vendere, ma è la raccolta dei soldi. Non mi stupirei se nel giro di quattro cinque anni le chiese convertite in moschee diventassero cinque o dieci nella sola Costa Azzurra. Ma non è una guerra di posizione, è semplicemente il mondo che cambia». Intanto altre città di peso come Lille e Nantes si ritrovano con minareti laddove c’erano campanili. Berlino sta provando la via opposta con l’apertura della House of One, un luogo dove cristiani, musulmani ed ebrei possono pregare tutti sotto lo stesso tetto.
Un esperimento che Mustafà Abderrahmane, imam della moschea di Palermo, non vede di buon occhio: «Ogni religione deve avere i propri spazi, senza pestarsi i piedi, ma piuttosto cercando di aprirsi agli altri organizzando incontri nelle chiese e nelle moschee. Noi lo facciamo da anni, e funziona. Tutto sta nel creare un contesto positivo». La convivenza con i palermitani e la Chiesa locale è l’ultimo dei problemi per l’imam, «perché la Sicilia è un luogo di commistioni culturali, lo dice la sua storia». Nonostante sia testimone diretto di un’esperienza felice e fortunata, mette in guardia altri dal voler replicare in questo momento il modello Palermo: «Troppa gente che fa politica strumentalizzerebbe la costruzione di una moschea al posto di una chiesa. Tra la paura degli attentati, la disinformazione sulle attività dell’Islam in Europa non è saggio gettare benzina sul fuoco oggi». Paradossalmente l’imam anziché espandere il numero di moschee sarebbe per ridurle, almeno a Palermo: «Abbiamo undici centri di preghiera diversi in città, perché ognuno vuole dare voce alla sua fetta di Islam, ma credo che così sia dispersivo per i fedeli e un lavoraccio per la polizia che deve fare i controlli. Serve una maggior centralità». Nella sua moschea, quasi duecento persone si radunano per la preghiera del venerdì. Ma entrando il mercoledì pomeriggio sono solo in tre.
Mohammed, tunisino, non si fa problemi a interrompere la preghiera, spiegando che «la moschea di Palermo è un grande dono, un’opportunità per tutti i musulmani». Per lui il fatto che sorga su una chiesa «non è rilevante». «Oggi è un luogo dove noi ci riuniamo per pregare, ieri lo hanno fatto altri. Qui c’è abbastanza spazio per tutti».
In effetti a Palermo nessuno chiede di chiudere la moschea, o di riconsegnarla alla Chiesa. Giuseppe Vitale, che ormai ha più di 70 anni e si definisce un «cattolico praticante da generazioni», non bada nemmeno più alla moschea pur vivendoci a pochi minuti di cammino: «Fa parte del paesaggio, né più né meno di una chiesa, un albero, un bar o di un carretto che vende pane con la milza». Il cartello con la scritta moschea all’ingresso, annerito dallo smog, la aiuta a mimetizzarsi. Ammesso che serva. Sembra tutto semplice, a sentire l’imam e i palermitani del quartiere. Ma oggi in Italia, replicare il modello Palermo sembra davvero impossibile. Il 1990, anno dell’inaugurazione, pare lontanissimo, ben più dei 27 anni indicati dal calendario. Gli ultracattolici pronti alle barricate poi, se ci sono a Palermo non si espongono. Forse aspettano che spunti un Emil Cioran italiano a parlare per loro. In Francia, il filosofo esistenzialista romeno adottato dai parigini viene citato fino alla noia, ormai, ogni volta che inizia un dibattito interreligioso per una frase contenuta in un carteggio con lo studioso austriaco Wolfgang Kraus: «I francesi non si sveglieranno finché Notre-Dame non diventerà una moschea». Paradosso o profezia?
Roberto Scarcella