Cultura
I libri mi hanno salvato
dal fanatismo politico
L’autore di Patria racconta il “laboratorio” del suo romanzo
nato da una prolungata riflessione sul terrorismo dell’Eta
L’autore di Patria racconta il “laboratorio” del suo romanzo
nato da una prolungata riflessione sul terrorismo dell’Eta
Nulla di più lontano da me che avere affrontato la scrittura di un romanzo come Patria perché il tema mi sia parso affascinante o perché a un certo punto abbia risvegliato il mio interesse. In realtà, mi costa fatica considerare in maniera semplice e fredda, come un tema qualunque, il terrorismo dell’Eta e le sue funeste ripercussioni nella società in cui sono cresciuto, intendendo per tema un argomento a cui si arriva al fine di compiere una serie di ricerche per poi trasferirle in un discorso. In questo caso, io non devo arrivare da nessuna parte. Mi basta guardare dentro di me, nella mia esperienza interiorizzata del terrorismo e nel dolore che per molto tempo mi ha provocato. L’esistenza di altre violenze non bilancia né mitiga minimamente quel dolore. A questo riguardo, mi avvalgo di un aforisma: «In politica, come in tutti i campi, il contrario di un colpo con il pugno destro non è un colpo con il pugno sinistro, bensì un abbraccio».
Patria è quindi preceduta da un’esperienza personale dell’autore senza la quale il romanzo non sarebbe stato possibile, anche quando gli episodi raccontati non costituiscono una testimonianza diretta o, se si preferisce, letterale dell’esperienza riferita. Il romanzo non racconta avvenimenti della mia vita; però la vita, la mia vita, mi ha imposto una prospettiva che è assimilabile a un’idea sulle vicende umane, a partire dalla quale scrivo, meglio o peggio, i miei libri. Il fenomeno del terrorismo dell’Eta mi ha accompagnato fin dall’infanzia. Mi è così prossimo che mi costa fatica vederlo come un oggetto a cui posso arrivare soltanto per via informativa o documentale.
Che io ricordi, la prima volta che ho sentito nominare l’Eta con una certa coscienza di ciò che si nascondeva dietro quella sigla è stata nel dicembre del 1970. In quei giorni d’inverno avevo undici anni; stavo per compierne dodici. Ciò che in certo modo allora mi interpellò, l’evento iniziale che si avvicinò e sfiorò il bambino che ero, fu il sequestro del console tedesco Eugene Beihl. Per la prima volta fui cosciente della differenza che esiste tra il vivere un evento da vicino e apprenderlo dalla televisione, dalla radio o dai giornali. Quello schizzo della realtà, per quanto leggero, non l’ho mai dimenticato.
A undici anni, frequentavo le medie alla scuola Santa Rita, a San Sebastián, diretta da frati agostiniani. Tra gli alunni si sparse la voce che il console tedesco (per forza di cose l’incarico di console evocava in noi la storia di Roma e le lezioni di latino) era stato nascosto nell’edificio del Seminario Diocesano, distante appena cento o duecento metri dalla mia scuola. Ogni giorno, finite le lezioni, tornando a casa, passavo accanto ai muri dell’enorme edificio e fissavo il mio sguardo infantile sulle sue numerose finestre, sperando forse di vedere in qualcuna la sagoma di un console. Che io sappia, quella voce dall’origine incerta non venne mai confermata. So che allora imparai due cose. La prima fu la parola sequestro, mai sentita prima. La seconda mi confermò che la storia non è una cosa che sta soltanto nei libri.
Passano alcuni anni. Varco la soglia dell’adolescenza. Mi vedo una sera mentre ballo e canto alla festa di San Sebastián, patrono della città, nel bel mezzo della baldoria per le strade. Siamo in plaza de Benta-Berri, nel quartiere di El Antiguo, saltando al ritmo di un gruppo musicale. Arrivati a un certo passaggio reiterato di una melodia, tutti lanciamo in aria il pullover o la giacca, con una specie di urlo burlesco di cui ignoro il significato. Semplicemente, mi aggrego alla farsa e mi diverto come fanno centinaia di giovani intorno a me.
Il giorno dopo scoprirò che il lancio dei vestiti sopra il mare di teste è una parodia dell’assassinio dell’ammiraglio Carrero Blanco, la cui auto era saltata in aria nel 1973 in una via di Madrid, scagliata in alto da una bomba letale. Una voce interiore mi dice che non mi sono comportato bene. Odio il franchismo con tutte le mie forze. Ricordo i successivi stati d’eccezione e i temibili grises, i grigi, la polizia franchista, utilizzati con odiosa violenza contro i cittadini. Eppure, a quindici anni appena compiuti, mi dispiace di aver partecipato a quella beffa pubblica. Perché? Be’, perché credo, senza dubbio per l’influenza della mia educazione cristiana durante l’infanzia, che la morte di un essere umano, chiunque sia e qualunque cosa abbia fatto, non dovrebbe mai essere oggetto di festeggiamenti. Con gli anni mi renderò conto della cosa peggiore: ci stavamo disumanizzando. Se utilizzavamo i metodi di chi ci opprimeva, come avremmo potuto essere migliori di loro?
Giunsero poi gli anni in cui fui più esposto all’influenza di compagni di scuola affascinati dall’uso della violenza per raggiungere obiettivi politici. Alcuni particolarmente radicalizzati godevano di un indubbio prestigio tra gli alunni. Sembravano avvolti da un alone di coraggio. Parlavano di clandestinità, citavano sigle di nuovi partiti non legalizzati. I ragazzi che adesso mi vengono in mente non brillavano eccessivamente per le loro doti intellettuali. Forse, se tra loro ci fosse stato qualcuno che condivideva la mia passione per la letteratura, mi sarei piegato ad abbracciare la sua causa e il suo fanatismo giovanile, anche se ho i miei dubbi. Dubbi, soprattutto, estetici. I gruppi rock internazionali, con i loro vestiti strambi e i capelli lunghi, mi attiravano molto più degli slogan politici che cominciavano a circolare nel cortile della scuola. Poi scoprii il surrealismo, nel quale trovai un efficace antidoto contro i dogmi, la solennità e le forme localiste della cultura. La lettura, qualche tempo dopo, di Camus mi convinse della necessità di includere nell’esercizio pubblico della parola un criterio morale.
Un pomeriggio oscuro del febbraio 1984 vidi introdurre il feretro con il cadavere del senatore Enrique Casas nella Casa del Pueblo del quartiere di Gros a San Sebastián. Non so cosa mi portò lì. Forse la curiosità. Un po’ anche un sentimento di solidarietà. Enrique Casas era un uomo di sinistra. Era gente del Partito comunista a portare il feretro sulle spalle. Me ne andai via commosso. Seppi poi che il vescovo Setién si era rifiutato con argomenti falsi di officiare la messa funebre nella cattedrale del Buen Pastor. Vidi fotografie del trasferimento del cadavere dalla Casa del Pueblo alla chiesa di Santa María, nella Città Vecchia. Le finestre chiuse. Quasi nessuno sui marciapiedi. Seppi allora che un giorno ne avrei scritto. Non sapevo come. Non avevo quasi esperienza letteraria. Avevo pubblicato due libri di poesia; ma ero consapevole di non dominare la lingua in cui desideravo esprimermi, e avevo deciso di reimpararla e di astenermi dal pubblicare. Dopo poco mi stabilii definitivamente in Germania.
Diversamente dal console tedesco, Enrique Casas lo conoscevo. Non l’avevo mai frequentato. Anni prima del suo assassinio, partecipavo alle riunioni settimanali della rivista letteraria Kantil. Tra i suoi membri c’erano persone del Partito socialista. Ce n’erano anche di altre correnti ideologiche. Allora si poteva ancora convivere e fare cose creative insieme. Non era stata decretata la socializzazione della sofferenza. La sera, terminato il lavoro, era abituale andare in gruppo a bere qualcosa al bar del vicino hotel Orly. Spesso i membri della rivista, abbastanza più anziani di me, si incontravano lì con Enrique Casas. È possibile che qualche volta mi abbia salutato o che lo abbia sentito conversare. Se il sequestro del console tedesco mi aveva colpito con un leggero schizzo della realtà circostante, l’assassinio di Enrique Casas mi cadde addosso come un’enorme ondata. L’immediatezza fisica della morte e l’evidenza dell’ingiustizia brutale che comportava mi commossero. È possibile che, senza che lo sapessi, Patria abbia cominciato a svilupparsi dentro di me in quel lontano e triste pomeriggio del 1984.
Traduzione di Bruno Arpaia
Fernando Aramburu