Cultura
La difficile
posizione
del bersaglio
Anche se i suoi accusatori si sono moltiplicati, dopo la deposizione del presidente uscente della Consob, Vegas, davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, nessuna delle accuse mosse al sottosegretario Maria Elena Boschi è tale da comportare una condanna capitale.
Il suo comportamento fu discutibile, certo, specie dopo che il padre era diventato vicepresidente di Banca Etruria. Ma è verosimile che di fronte a un tribunale potrebbe essere assolta.
Se invece è di nuovo finita alla sbarra, è perché Vegas ha raccontato che due o tre volte, una delle quali su sua richiesta, Boschi andò a trovarlo per esprimere timori su Banca Etruria. Si preoccupava della possibile fusione con la Popolare di Vicenza, un altro istituto di credito semifallito.
Voleva metterlo a parte del fatto che il papà, entrato nel consiglio di amministrazione di Etruria a maggio 2014, tre mesi dopo l’approdo della figlia al governo, stava per diventarne vicepresidente. Si rividero a Roma al ministero dei Rapporti con il Parlamento. Ma mai il capo della Consob si sentì pressato: Boschi, a suo giudizio, parlava come parlamentare formalmente interessata a una banca del suo collegio elettorale.
Può darsi che tra qualche giorno, quando sarà ascoltato dalla commissione, anche l’ex amministratore delegato di Unicredit Ghizzoni confermi quanto ha scritto nel suo libro Ferruccio de Bortoli sulle pressioni che il banchiere dovette subire per valutare un’eventuale fusione di Etruria con la stessa Unicredit. E che questo vada a rafforzare la principale accusa rivolta alla Boschi: di aver mentito al Parlamento il 18 dicembre 2015, quando fu chiamata a difendersi dalla mozione di sfiducia presentata contro di lei dal Movimento 5 Stelle. In quell’occasione la ministra e attuale sottosegretaria alla presidenza del consiglio negò - come ha fatto anche ieri sera in tv - di essere responsabile di favoritismi verso suoi familiari, di aver costruito per loro o per la banca corsie preferenziali, o di aver ricavato vantaggi personali dalla vicenda (visto che tra l’altro, come azionista di Etruria, aveva pure perso soldi nel crac dell’istituto). Non disse però di non essersi mai occupata della crisi di Etruria, come ieri Vegas ha confermato. E a parte la mediocre battaglia apertasi tra il Pd e gli accusatori della Boschi sul resoconto stenografico del suo intervento di due anni fa, effettivamente non c’è alcuna contraddizione tra quel che spiegò allora e ciò che adesso viene alla luce.
La domanda da farsi, piuttosto, è un’altra, anche senza scendere nei complicati dettagli della storia: se la Boschi, che dopo Renzi era la personalità più forte del governo, tale da essere considerata una sorta di vicepresidente del Consiglio, avesse veramente adoperato il suo potere per imprimere una conclusione diversa al groviglio di Banca Etruria, come mai non sarebbe riuscita a ottenere alcun risultato? A conti fatti, Etruria non fu acquisita da Unicredit, che accantonò il dossier sulla fusione; venne commissariata e poi sostanzialmente dichiarata fallita dalla Banca d’Italia; e poco dopo il governo, con il decreto salvabanche, dovette prenderne atto. Il padre della Boschi, come tutti i membri del CdA, fu licenziato, multato per 144.000 euro e poi anche inquisito per le false comunicazioni contenute nei prospetti dei titoli venduti ai poveri risparmiatori truffati. Se le pretese pressioni della Boschi sortirono questi effetti, vuol dire che, o non era potente come sembrava, oppure non volle, o non seppe, adoperare veramente il suo potere.
Ma l’aspetto più paradossale della vicenda è che, pur avendo evitato la giustizia penale, in genere assai sollecita ad aprire fascicoli contro i politici, la Boschi è finita al centro della confusa inquisizione parlamentare in corso da settimane a Palazzo San Macuto. In verità, dal primo giorno in cui la commissione s’è insediata, e malgrado le cautele del presidente Casini, s’era capito che tutti gli avversari di Renzi puntassero a mettere in mezzo la sottosegretaria su Etruria. Al punto che veniva da chiedersi come mai, sempre Renzi, avesse insistito tanto per ottenere l’inchiesta, illudendosi di usarla contro Banca d’Italia, e trascurando che la sua ministra ne sarebbe diventata il principale obiettivo.
Tal che ora c’è chi chiede, non solo che la Boschi si dimetta dal governo, ma addirittura che non venga ricandidata dal Pd. Forse è troppo. Dato che non deve rispondere di alcun reato, Boschi ha diritto di rimettersi in lista, e affidare agli elettori il giudizio politico su di sé. È strano, tuttavia, che non si renda conto che in politica è sempre scomodo diventare un bersaglio. E potrebbe difendersi molto meglio rinunciando ai suoi incarichi, invece di aggrapparcisi.
Marcello Sorgi