Cultura
L’assalto
dei
voltagabbana
di Marcello Sorgi
Le leggi elettorali – come quella che da stamane Renzi farà approvare alla Camera, a colpi di fiducia – sono per loro natura imprevedibili. Chi le fa, comprensibilmente dal proprio punto di vista, spera di concepire un meccanismo il più possibile vicino ai propri obiettivi politici. Chi le usa – i cittadini, il corpo elettorale –, le adopera, al contrario, per realizzare la propria volontà, tal che c’è sempre un significato, una razionalità, in ogni risultato elettorale.
Alla nascita della Repubblica, non a caso, i costituenti vollero il proporzionale, perché non erano in grado di prevedere chi avrebbe vinto le prime elezioni libere dopo vent’anni di dittatura, e sotto sotto speravano che non ci fosse un chiaro vincitore. Ma poi, nel ’48, la decisione sbagliata di socialisti e comunisti di allearsi nel Fronte popolare portò a una grande vittoria di De Gasperi. Il quale, nel ’53, sentendo scricchiolare la coalizione centrista, concepì – e fece votare con la fiducia – la cosiddetta «legge truffa», il premio di maggioranza per l’alleanza che avesse superato il cinquanta per cento. La legge fu approvata, il premio non scattò per poche migliaia di voti, De Gasperi uscì di scena, e per quarant’anni, fino al ’93, si tornò al proporzionale.
Però nel ’93, dopo i referendum elettorali che a furor di popolo avevano introdotto i collegi uninominali e il maggioritario, quando in Parlamento fu varato il Mattarellum, dal nome dell’attuale Presidente della Repubblica che ne fu il relatore, Martinazzoli pretese un sistema a un solo turno – diverso dalla legge a due turni per l’elezione dei sindaci che Andreotti aveva fatto approvare, sempre con la fiducia, tre anni prima –, solo per tre quarti basato sul voto dei collegi, e per un quarto proporzionale, nell’illusione di salvare in questo modo la Dc, di cui era destinato ad essere l’ultimo segretario. Così finì che democristiani e comunisti, che avevano appena cambiato nome ma non identità, si presentarono separati; mentre due coalizioni, raffazzonate e debolmente collegate tra loro, una al Nord con Forza Italia e la Lega, e una al Centro e al Sud, sempre con Forza Italia più Alleanza Nazionale, fecero trionfare Berlusconi. Ma anche lui, nel 2005, vedendo troppe crepe nella sua maggioranza, e cercando di tenere insieme un’alleanza affollata e divisa, decise di riproporre il proporzionale con premio di maggioranza: il famoso Porcellum, grazie al quale Prodi lo sconfisse nel 2006.
Se ne ricava che nessuna legge elettorale, in democrazia, è di per sé in grado di introdurre un regime, come gridano in questi giorni gli oppositori dell’Italicum, molti dei quali, fuori e dentro il Pd, lo avevano considerato buono a rimediare ai guasti introdotti dal Porcellum, nel decennio che sta per chiudersi. La legge, non va dimenticato, vide la luce in quel Comitato dei Saggi, nominato nell’estate del 2013 dal governo di Enrico Letta con il consenso di Bersani (l’uno e l’altro contrari, oggi), coordinato dall’ex ministro Quagliariello e dall’ex presidente della Camera Violante, e composto da costituzionalisti e studiosi di culture e visioni politiche diverse. Non è neppure vero, come ora si sostiene, che l’Italicum introduca surrettiziamente una sorta di presidenzialismo. Anzi, pur essendoci in quel comitato molti convinti presidenzialisti, fu scelta la strada di eleggere il presidente del Consiglio, insieme a un partito o a una coalizione, proprio per ancorarlo a una maggioranza – che, resta fermo, deve dargli, e può togliergli, la fiducia –, e per evitare che fosse svincolato da un appoggio parlamentare, come accade in Francia o negli Stati Uniti, dove il capo dello Stato e del governo è eletto per un periodo prestabilito a prescindere dagli effetti della sua condotta politica. L’idea di dare a un partito, o a una coalizione, la possibilità di proporre un candidato per la guida del governo direttamente agli elettori, parve la più razionale, dato che di fatto questo avveniva in Italia già da vent’anni, ed erano stati eletti due volte, con il nome sulla scheda al centro del simbolo elettorale, sia Prodi, sia Berlusconi.
E tuttavia c’è chi obietta: un conto è la lista, di cui un leader autoritario può fare ciò che vuole, imbottendola di eletti da lui scelti, e un conto è la coalizione, che limita – meglio sarebbe dire paralizza, sulla base dell’esperienza – le velleità del premier. Sarà: ma in un referendum del 2009, promosso dal costituzionalista Guzzetta, sostenuto, tra gli altri, da Renato Brunetta, Gianni Cuperlo e Rosi Bindi, attualmente fieri oppositori dell’Italicum, e approvato anche da Berlusconi e Veltroni, si proponeva la stessa cosa – il premio alla lista e non alla coalizione – che oggi si denuncia come stortura autoritaria. Alla riuscita del referendum mancò il quorum, richiesto, del cinquanta per cento più uno degli elettori. Ma le schede scrutinate erano quasi all’unanimità per quella soluzione, a dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, che i cittadini, dopo vent’anni di coalizioni rissose e governi che non riescono a governare, preferiscono la competizione tra due partiti a quella tra alleanze cucite e rattoppate alla meglio per vincere le elezioni. Lo stesso si può dire delle preferenze, presentate dagli oppositori dell’attuale legge come toccasana a difesa della libertà degli elettori, e cancellate (ma chi se ne ricorda?) da un altro referendum, nel ’91, votato da oltre il novanta per cento degli elettori.
Concludendo, l’Italicum non è certo la migliore delle leggi possibili, ma è quella che nel tempo ha raccolto il consenso più largo, da Renzi (e Bersani, e Letta) a Berlusconi. Non è neppure in grado di risolvere del tutto i problemi accumulati nel tempo dai sistemi elettorali sperimentati finora, compreso il numero dei parlamentari nominati, conti alla mano pari esattamente a quello del Mattarellum e molto al di sotto del Porcellum. Renzi, al momento, è il candidato più adatto ad avvalersene, anche se nessuno è in grado di prevedere cosa succederà al momento in cui si voterà, e la storia recente ha sempre riservato sorprese a chi partiva vincitore e s’è ritrovato battuto. Forse anche per questo, il premier avrebbe potuto risparmiarsi di porre la questione di fiducia, che ieri ha fatto annunciare alla ministra per le Riforme Boschi, subito dopo una votazione a scrutinio segreto nella quale ben quindici deputati dell’opposizione erano andati a infoltire la solida maggioranza del governo. Ma in un Parlamento in cui, in materia elettorale, è difficile fare l’elenco completo dei voltagabbana, un pizzico di precauzione ci sta pure.