sabato 30 dicembre 2017
mercoledì 27 dicembre 2017
La legislatura nel segno delle sorprese (Sorgi)
Cultura
La legislatura
nel segno
delle sorprese
Si chiude una legislatura tra le più complicate e imprevedibili della storia repubblicana. Complicata, come si sa, perché nata morta, con la cosiddetta «non vittoria» del Pd di Bersani e l’assenza di maggioranze precostituite al Senato; e imprevedibile, a parte la durata naturale di 5 anni su cui nessuno avrebbe scommesso nel 2013, perché ha messo a segno inaspettatamente una serie di riforme importanti (anche quelle bocciate nel referendum del 4 dicembre 2016), mai approvate tutte insieme nel corso di un solo mandato parlamentare.
Se solo si riflette sulle leggi realizzate nei mille giorni del governo Renzi, dal Jobs Act, alla scuola, alla legge elettorale (pur emendata chirurgicamente dalla Corte costituzionale), alle unioni civili, e ancora - va detto e ripetuto - alle riforme costituzionali, che avrebbero potuto essere migliori, e probabilmente non cadere sotto la mannaia delle urne referendarie, se a un certo punto del percorso non si fosse arrivati al muro contro muro tra Palazzo Chigi, indisponibile a riscrivere parte dei testi, e le opposizioni, decise a impedirne a qualsiasi costo il varo; e se si aggiungono i risultati del governo Gentiloni, dal salvataggio delle banche al biotestamento, è quasi impossibile rintracciare nel passato il precedente di una legislatura così prodiga di risultati. E i differenti punti di vista, le legittime contrapposizioni sui contenuti delle riforme, sia di quelle cancellate prima di entrare in vigore, sia delle altre sopravvissute, compreso il Rosatellum, la nuova e discussa (ma pur sempre preferibile al nulla determinatosi dopo l’affossamento dell’Italicum da parte della Consulta) legge elettorale che ci consentirà di tornare al voto nel prossimo marzo, non dovrebbero impedire a nessuno di constatare l’eccezionalità del lavoro di questo Parlamento. Un Parlamento, non va dimenticato, in cui anche le opposizioni, certo non tutte, non sempre e al di là dei normali interessi di propaganda, hanno saputo dar prova di responsabilità, e in molte circostanze, soprattutto al Senato, consentire il passaggio di provvedimenti altrimenti destinati al fallimento e di politiche azzardate ma indispensabili, vedi la soluzione trovata per il problema degli sbarchi fuori controllo degli immigrati, costruita dal ministro Minniti con paziente tessitura.
Come tutto ciò abbia potuto realizzarsi, non è semplice da spiegare. Le larghe intese e il «patto del Nazareno», pensati all’inizio per una situazione d’emergenza, si sono dissolte dopo pochi mesi. Il governo Letta ne ha fatto le spese; è stato sostituito in corsa da quello guidato dal leader del Pd e sostenuto da una più precaria maggioranza, da ricercarsi volta per volta a Palazzo Madama, a causa delle divisioni (poi sfociate in scissione) insorte nel frattempo all’interno del partito di Renzi. Il quale, a sua volta, ha dovuto mollare, dopo la cocente sconfitta nel referendum costituzionale. A quel punto, ancorché fosse necessario, se non altro per non gelare i primi refoli di una ripresa economica arrivata dopo otto lunghi anni di crisi, nessuno s’aspettava che le cose potessero continuare. Invece, dal cilindro di Renzi e con la benedizione di Mattarella, è uscito Gentiloni, una sorta di uomo del destino: da anni e anni non s’era più visto uno così capace di navigare nella tempesta, con le vele stracciate e il timone che fatica a rispondere.
Malgrado ciò si sbaglierebbe a dire che è stata tutta opera della Provvidenza, sebbene sicuramente ci abbia messo del suo. Si sa che gli italiani danno il meglio di loro nei momenti difficili: ed è accaduto pure in queste Camere formate per metà e più di deputati e senatori di prima nomina, senza o quasi esperienza. Lo avranno fatto, non è un mistero, anche per salvarsi il posto, che perderanno (e in molti, difficilmente riavranno) di qui a poco. Anche per questo è giusto tributare un minimo di onore al merito ai «morituri» dell’ultimo Parlamento della Seconda Repubblica.
Marcello Sorgi
giovedì 21 dicembre 2017
sabato 16 dicembre 2017
venerdì 15 dicembre 2017
Boschi: La difficile posizione del bersaglio ( Sorgi)
Cultura
La difficile
posizione
del bersaglio
Anche se i suoi accusatori si sono moltiplicati, dopo la deposizione del presidente uscente della Consob, Vegas, davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, nessuna delle accuse mosse al sottosegretario Maria Elena Boschi è tale da comportare una condanna capitale.
Il suo comportamento fu discutibile, certo, specie dopo che il padre era diventato vicepresidente di Banca Etruria. Ma è verosimile che di fronte a un tribunale potrebbe essere assolta.
Se invece è di nuovo finita alla sbarra, è perché Vegas ha raccontato che due o tre volte, una delle quali su sua richiesta, Boschi andò a trovarlo per esprimere timori su Banca Etruria. Si preoccupava della possibile fusione con la Popolare di Vicenza, un altro istituto di credito semifallito.
Voleva metterlo a parte del fatto che il papà, entrato nel consiglio di amministrazione di Etruria a maggio 2014, tre mesi dopo l’approdo della figlia al governo, stava per diventarne vicepresidente. Si rividero a Roma al ministero dei Rapporti con il Parlamento. Ma mai il capo della Consob si sentì pressato: Boschi, a suo giudizio, parlava come parlamentare formalmente interessata a una banca del suo collegio elettorale.
Può darsi che tra qualche giorno, quando sarà ascoltato dalla commissione, anche l’ex amministratore delegato di Unicredit Ghizzoni confermi quanto ha scritto nel suo libro Ferruccio de Bortoli sulle pressioni che il banchiere dovette subire per valutare un’eventuale fusione di Etruria con la stessa Unicredit. E che questo vada a rafforzare la principale accusa rivolta alla Boschi: di aver mentito al Parlamento il 18 dicembre 2015, quando fu chiamata a difendersi dalla mozione di sfiducia presentata contro di lei dal Movimento 5 Stelle. In quell’occasione la ministra e attuale sottosegretaria alla presidenza del consiglio negò - come ha fatto anche ieri sera in tv - di essere responsabile di favoritismi verso suoi familiari, di aver costruito per loro o per la banca corsie preferenziali, o di aver ricavato vantaggi personali dalla vicenda (visto che tra l’altro, come azionista di Etruria, aveva pure perso soldi nel crac dell’istituto). Non disse però di non essersi mai occupata della crisi di Etruria, come ieri Vegas ha confermato. E a parte la mediocre battaglia apertasi tra il Pd e gli accusatori della Boschi sul resoconto stenografico del suo intervento di due anni fa, effettivamente non c’è alcuna contraddizione tra quel che spiegò allora e ciò che adesso viene alla luce.
La domanda da farsi, piuttosto, è un’altra, anche senza scendere nei complicati dettagli della storia: se la Boschi, che dopo Renzi era la personalità più forte del governo, tale da essere considerata una sorta di vicepresidente del Consiglio, avesse veramente adoperato il suo potere per imprimere una conclusione diversa al groviglio di Banca Etruria, come mai non sarebbe riuscita a ottenere alcun risultato? A conti fatti, Etruria non fu acquisita da Unicredit, che accantonò il dossier sulla fusione; venne commissariata e poi sostanzialmente dichiarata fallita dalla Banca d’Italia; e poco dopo il governo, con il decreto salvabanche, dovette prenderne atto. Il padre della Boschi, come tutti i membri del CdA, fu licenziato, multato per 144.000 euro e poi anche inquisito per le false comunicazioni contenute nei prospetti dei titoli venduti ai poveri risparmiatori truffati. Se le pretese pressioni della Boschi sortirono questi effetti, vuol dire che, o non era potente come sembrava, oppure non volle, o non seppe, adoperare veramente il suo potere.
Ma l’aspetto più paradossale della vicenda è che, pur avendo evitato la giustizia penale, in genere assai sollecita ad aprire fascicoli contro i politici, la Boschi è finita al centro della confusa inquisizione parlamentare in corso da settimane a Palazzo San Macuto. In verità, dal primo giorno in cui la commissione s’è insediata, e malgrado le cautele del presidente Casini, s’era capito che tutti gli avversari di Renzi puntassero a mettere in mezzo la sottosegretaria su Etruria. Al punto che veniva da chiedersi come mai, sempre Renzi, avesse insistito tanto per ottenere l’inchiesta, illudendosi di usarla contro Banca d’Italia, e trascurando che la sua ministra ne sarebbe diventata il principale obiettivo.
Tal che ora c’è chi chiede, non solo che la Boschi si dimetta dal governo, ma addirittura che non venga ricandidata dal Pd. Forse è troppo. Dato che non deve rispondere di alcun reato, Boschi ha diritto di rimettersi in lista, e affidare agli elettori il giudizio politico su di sé. È strano, tuttavia, che non si renda conto che in politica è sempre scomodo diventare un bersaglio. E potrebbe difendersi molto meglio rinunciando ai suoi incarichi, invece di aggrapparcisi.
Marcello Sorgi
mercoledì 13 dicembre 2017
martedì 12 dicembre 2017
La resistenza di un Andreotti versione 2.0
Cultura
La resistenza
di un Andreotti
versione 2.0
A un anno dal suo insediamento a Palazzo Chigi, Paolo Gentiloni è in cima a tutte le classifiche di fiducia, gradimento, popolarità. È stato una scoperta (anche se aveva già una lunga carriera alle spalle), ed è certamente merito di Renzi averlo rilanciato, prima come ministro degli Esteri al momento della grave recrudescenza del terrorismo islamico, poi come presidente del Consiglio dopo la peggiore sconfitta - quella al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 - che il Pd e il centrosinistra abbiano mai subito negli ultimi anni. Sembrava impossibile risalire la china: eppure Gentiloni ce l’ha fatta, ha raccolto i frutti della ripresa economica, debole ma significativa dopo otto anni di crisi, senza mai vantarsene troppo, quasi lasciando intendere (anche se non è vero) che il merito fosse di altri.
Ha materialmente salvato le banche, convincendo l’Europa che era suo diritto farlo con soldi pubblici, e lo ha fatto senza litigare con la Banca d’Italia. Ha gestito crisi complicate, come quella dell’Ilva, e non solo, smorzando le tensioni, alla sua maniera, e tenendo duro quand’era necessario.
La simpatia con cui l’opinione pubblica ha accompagnato il suo governo è rimasta per certi versi inspiegabile: perché sarebbe stata più logica a inizio di legislatura, quando gli elettori, anche quelli pigri che non vanno più a votare, sono ben disposti e sperano in un cambiamento che il più delle volte non arriva (o se arriva, com’è accaduto con Renzi, solleva tali e tante di quelle reazioni ostili da spaventarli). Mentre al momento di tirare le somme, e dopo un fallimento come quello delle riforme costituzionali, si poteva scommettere più sul fatto che Gentiloni sarebbe andato in giro a schivare i pomodori e le proteste della gente avvelenata dalla delusione, che non sul successo che alla fine gli è venuto incontro, al punto da motivare un’evidente gelosia anche in chi, come il suo predecessore, l’aveva voluto a quel posto.
In quest’anno appena trascorso, Renzi in effetti lo ha più contrastato che aiutato, sebbene non gli abbia mai fatto mancare l’appoggio dei gruppi parlamentari del Pd. E potrebbe rovinarlo se, come sembra, si mettesse davvero in testa di usarlo al suo fianco in campagna elettorale. Lo ha costretto a mettere la fiducia su una legge elettorale di cui tra l’altro ha cominciato a pentirsi, nel dubbio che alla fine risulti più favorevole al centrodestra, anche se Gentiloni, nel suo primo discorso di fronte al Parlamento, aveva promesso che il governo se ne sarebbe tenuto distante. Lo ha pressato a non rinnovare il mandato al governatore Visco, che un giorno sì e l’altro pure la delegazione renziana nella commissione parlamentare d’inchiesta prende di mira, nel tentativo - impossibile - di trasformarlo nell’unico colpevole delle truffe ai danni dei risparmiatori. E Gentiloni per tutta risposta, d’intesa con Mattarella, ha confermato Visco nel suo incarico.
Tra gli addetti ai lavori capita sovente di domandarsi: come ha fatto a sopravvivere a un anno così terribile, di che pasta è fatto, ma se era tanto debole da farsi venire un mezzo infarto, quando ha cominciato, com’è riuscito a riprendersi e a diventare così forte? Se lo chiedono vecchi e nuovi frequentatori del Palazzo e sono in tanti a non sapersi dare una spiegazione. Eppure, la risposta a tutte queste domande è una sola: Gentiloni ha vinto la sua sfida perché è un Andreotti 2.0, una versione aggiornata, un formidabile anticipatore della stagione del ritorno al passato che sta per cominciare. Del Divo Giulio, che prima o poi finirà per essere rivalutato, ha la stessa passione per i dettagli, una certa secchioneria, la capacità di sminuzzare i problemi in pezzetti piccoli o addirittura infinitesimali, di ricevere un prefetto mentre aspetta una telefonata dalla Merkel, da Macron o da Trump, di ascoltare anche l’ultimo funzionario, anche l’ultimo commesso di Palazzo Chigi, dando l’impressione di saper valutare un suggerimento inutile. L’arte di governare l’Italia è anche questa. Soprattutto, verrebbe quasi da dire. E chissà che a Gentiloni non tocchi di doverlo fare ancora a lungo, perfino contro i suoi desideri.
Marcello Sorgi
lunedì 11 dicembre 2017
Il Tempo della Settimana
Cuneo
Termometro
ancora in giù, neve, pioggia
e ghiaccio
l
a nevicata di Santa Bibiana (sabato scorso) era dunque, secondo tradizione, l’anticipazione di un periodo invernale segnato dal freddo e, a tratti, da un intenso maltempo. Alle temperature gelide che hanno segnato la scorsa settimana, moderate poi da qualche timido aumento, si è aggiunto da ieri un flusso gelido artico che ha fatto di nuovo precipitare i termometri e che ha riportato o sta riportando, prima nel settentrione e poi nelle province meridionali del Nord Ovest, nevicate seguite da piogge intense.
La quota neve, inizialmente bassa, a livello di pianura, si rialzerà nella giornata odierna fino a 1500 mt e forse oltre trasformando i fiocchi in rovesci locali. Una pioggia battente, che si potrebbe anche congelare – per i fenomeni di «inversione termica» - appena toccato il suolo, specie sulle strade delle valli meridionali ai confini con la Liguria. Attenzione dunque alla guida.
Il flusso meridionale, innescato dal vortice artico e responsabile del maltempo odierno, sarà sostituito da domani dalla rimonta anticiclonica e quindi, tra giovedì e venerdì, dalla ripresa dell’Artico con temperature al ribasso e nuove deboli nevicate in quota e a tratti sui fondovalle. Torna il sereno, con freddo, soltanto domenica.
romano.fulvio@libero.it
Fulvio Romano
La Curia di Palermo “Nessuna paura, presto sarà normale vedere ovunque più minareti che campanili”
Italia
La Curia di Palermo
La Curia di Palermo
“Nessuna paura, presto sarà
normale vedere ovunque
più minareti che campanili”
Don Pietro Magro, direttore dell’Ufficio diocesano dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso all’arcidiocesi di Palermo era presente nel giorno dell’inaugurazione della moschea nel capoluogo siciliano, un momento che non esita a definire «festoso». Per lui se la popolazione musulmana continuerà ad aumentare in Europa «sarà normale vedere più moschee che chiese, ma non per questo bisogna osteggiarne la costruzione», perché «è giusto che ogni comunità sia rispettata e abbia i propri luoghi di culto».
L’Europa vende la sua storia E le chiese diventano uffici, ristoranti, negozi e moschee
Italia
L’Europa vende la sua storia
E le chiese diventano uffici,
ristoranti, negozi e moschee
Dalla Sicilia alla Scandinavia: nel vecchio continente secolarizzato
centinaia di edifici sacri del cristianesimo cambiano destinazione
Dalla Sicilia alla Scandinavia: nel vecchio continente secolarizzato
centinaia di edifici sacri del cristianesimo cambiano destinazione
Tappeti al posto degli inginocchiatoi. L’arabo che riecheggia dove per secoli si è pregato in latino e italiano. E appesi al muro non più ritratti di santi ma orologi digitali che segnano l’ora e la posizione della Mecca. È questa la seconda vita della chiesa di San Paolino dei giardinieri, nel cuore della vecchia Palermo, a due passi dalla Cattedrale. La prima chiesa d’Italia trasformata in moschea, nel 1990, oggi non solo è il fulcro dell’Islam in Sicilia, ma anche un esempio per le nuove moschee che stanno sorgendo in tutta Europa al posto di chiese ormai vuote, sconsacrate, abbandonate.
In Gran Bretagna, Germania, Francia, Svezia, Belgio e Olanda sono sempre di più le comunità cristiane che preferiscono monetizzare cedendo a un’altra religione luoghi di culto resi dalla fuga di fedeli peggio che inutili, solo costosi. Perché tra il mantenere una chiesa dove nessuno mette più piede e vendere, la seconda opzione oggi almeno nel Nord Europa, sta diventando di gran lunga la preferita. Solo in Frisia, nel nord dell’Olanda, circa 250 delle 720 chiese hanno chiuso i battenti e sono diventate appartamenti, uffici, ristoranti o, in una manciata di casi, moschee. Nel Regno Unito, a Manchester, Bradford, Londra e in alcuni piccoli centri a rilevare le chiese sono state le comunità islamiche, in cerca di un posto per i propri fedeli. I prezzi, in un Paese che svende le case a una sterlina nelle aree più depresse, per quanto tenuti segreti pare siano stracciati. Nelle Midlands sono diverse le trattative in corso in città di medie dimensioni. D’altronde, molto prosaicamente, come spiega uno studioso del Corano di Marsiglia che preferisce restare anonimo, «anche per le religioni vale la legge del mercato, se la gente non entra più dal formaggiaio ma vuole mangiare pesce, il formaggiaio chiude e tra le stesse quattro mura apre un pescivendolo». Il pescivendolo che ha preso il posto del formaggiaio a Palermo è incastrato tra i tre mercati principali della città: Ballarò, il Capo e la Vucciria.
Ha all’ingresso un’insegna senza troppi fronzoli, con scritto in caratteri semplici “moschea” in italiano e in arabo. A dividerla dalla strada un lungo cancello nero e un minuscolo cortile cementato. Sulla destra all’ingresso, degli scaffali su cui lasciare le scarpe. Nell’angolo un enorme tendone verde fa da separé: è dove possono pregare le donne, rigorosamente tenute lontane dagli sguardi dei maschi. L’atmosfera è straniante, come conferma il fondatore dell’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia) Hamza Piccardo: «D’altronde siamo in tutto e per tutto dentro a una chiesa barocca, per quanto modificata». Anche l’altare è sparito. Se si tralascia l’installazione-provocazione di Christophe Buechel, che nel 2015 trasformò una chiesa in moschea all’interno della Biennale di Venezia - scatenando un putiferio fatto di minacce, vigili urbani con i sigilli, spintoni, insulti e carte bollate arrivate sino al Tar - in Italia sono solo due a oggi le chiese trasformate ufficialmente in moschea, questa di Palermo e quella di Agrigento, inaugurata nel marzo del 2015 dove prima sorgeva una chiesa evangelica.
Daniel Abdin, direttore del centro islamico Al Nour di Amburgo ha vissuto in prima linea il travaglio dell’acquisizione, nel 2012, e poi della costruzione: «Ci hanno messo tutti i bastoni tra le ruote, associazioni cristiane, partiti politici, gente comune. La verità è che quella chiesa era chiusa da dieci anni, nessuno la frequentava. È diventato un bastione del cristianesimo solo dopo il nostro acquisto». Gli stessi meccanismi si stanno ripetendo in Belgio. E lo stesso discorso vale per Francia e Svezia: la moschea di Graulhet, aperta negli anni Ottanta e in grado di rendere più forte il tessuto sociale anziché sfibrarlo, e la supercolletta da tre milioni della chiesa di Nacka per costruire accanto all’edificio cristiano una moschea, sono due casi emblematici di convivenza pacifica. Ma non bastano a controbilanciare situazioni esplosive in luoghi ad alto tasso di rischio, come Malmoe. O Marsiglia, dove è nato un caso politico attorno alla sinagoga in centro città comprata e poi convertita in moschea. Si trova in rue Saint Dominique, a due passi dalla stazione di Saint-Charles, la più grande della città, a quattro dalla cartolina del Vieux Port. Il palazzo, anonimo, potrebbe essere qualsiasi cosa. A far intuire l’esistenza di una moschea è la scritta “associazione islamica al Badr”. Il giovedì non si vede nessuno ed è più animato il negozio dirimpetto che vende abiti islamici e fidget spinner, il gioco del momento. Ma il venerdì, giorno della preghiera islamica, è tutto un via vai di uomini e bambini vestiti a festa, in abiti bianchi elegantissimi. Tra i venti-trentenni la “divisa” è quella della squadra di calcio locale, l’Olympique Marsiglia. Il cancello aperto lascia intravedere i lavori in corso e un soffitto da cui pendono una serie di cavi che paiono infiniti. Ha aperto poco più di un anno fa ed è ancora un cantiere. Ma per ultracattolici ed ebrei intransigenti, la moschea di Al Badr è l’inizio di una colonizzazione, un’invasione.
Al Badr è anche il nome dell’associazione nata nel 2009 a Marsiglia per una serie di scopi nobili: organizzazione di viaggi nei luoghi sacri dell’Islam, corsi per analfabeti, attività sociali e ricreative. Ma chi non li vede di buon occhio punta il dito su un’altra loro attività molto meno reclamizzata: Al Badr raccoglie infatti fondi per comprare chiese e sinagoghe nel sud della Francia e allo stesso tempo allaccia contatti per trovare venditori. Finora la moschea di Rue Saint-Dominique è l’unico acquisto: lì c’era la sinagoga Or Torah. Ma il rabbino che l’ha venduta, per 400 mila euro, non si è pentito. Zvi Ammar, presidente del Concistoro israelita di Marsiglia, ricorda che ormai gli ebrei che vivevano nei pressi della sinagoga si sono tutti spostati in altri quartieri della città: «La sinagoga era vuota da anni e bisogna fare i conti con i cambiamenti sociali. Gli ebrei a Marsiglia sono circa 70 mila, i musulmani oltre 220 mila. Nel ghetto la sinagoga è sempre piena, qui non aveva più ragione d’essere. Siamo passati da cento persone a preghiera negli anni Settanta a meno di venti persone per lo Shabbat».
Gli uomini fuori dalla sinagoga diventata moschea non amano parlare degli scopi dell’associazione. A un primo approccio sono tutti affiliati, vicini all’imam. Ma appena il discorso vira sulle mire espansionistiche di Al Badr, nessuno sa nulla. Ahmed, con addosso la maglia dell’idolo del calcio locale André-Pierre Gignac, sogna «una moschea scintillante, costruita da zero, senza un passato ingombrante. Ma dalle mie parti si dice che quello che hai è spesso più di quel che meriti». L’amico Omar, algerino, giovane, sfrontato e in cerca di occupazione, sostiene Al Badr pur ripetendo più volte di non conoscerne bene i meccanismi: «I musulmani aumentano in Francia, è normale vedere aumentare il numero di moschee. E il problema a quanto ne so non sono preti e rabbini che non vogliono vendere, ma è la raccolta dei soldi. Non mi stupirei se nel giro di quattro cinque anni le chiese convertite in moschee diventassero cinque o dieci nella sola Costa Azzurra. Ma non è una guerra di posizione, è semplicemente il mondo che cambia». Intanto altre città di peso come Lille e Nantes si ritrovano con minareti laddove c’erano campanili. Berlino sta provando la via opposta con l’apertura della House of One, un luogo dove cristiani, musulmani ed ebrei possono pregare tutti sotto lo stesso tetto.
Un esperimento che Mustafà Abderrahmane, imam della moschea di Palermo, non vede di buon occhio: «Ogni religione deve avere i propri spazi, senza pestarsi i piedi, ma piuttosto cercando di aprirsi agli altri organizzando incontri nelle chiese e nelle moschee. Noi lo facciamo da anni, e funziona. Tutto sta nel creare un contesto positivo». La convivenza con i palermitani e la Chiesa locale è l’ultimo dei problemi per l’imam, «perché la Sicilia è un luogo di commistioni culturali, lo dice la sua storia». Nonostante sia testimone diretto di un’esperienza felice e fortunata, mette in guardia altri dal voler replicare in questo momento il modello Palermo: «Troppa gente che fa politica strumentalizzerebbe la costruzione di una moschea al posto di una chiesa. Tra la paura degli attentati, la disinformazione sulle attività dell’Islam in Europa non è saggio gettare benzina sul fuoco oggi». Paradossalmente l’imam anziché espandere il numero di moschee sarebbe per ridurle, almeno a Palermo: «Abbiamo undici centri di preghiera diversi in città, perché ognuno vuole dare voce alla sua fetta di Islam, ma credo che così sia dispersivo per i fedeli e un lavoraccio per la polizia che deve fare i controlli. Serve una maggior centralità». Nella sua moschea, quasi duecento persone si radunano per la preghiera del venerdì. Ma entrando il mercoledì pomeriggio sono solo in tre.
Mohammed, tunisino, non si fa problemi a interrompere la preghiera, spiegando che «la moschea di Palermo è un grande dono, un’opportunità per tutti i musulmani». Per lui il fatto che sorga su una chiesa «non è rilevante». «Oggi è un luogo dove noi ci riuniamo per pregare, ieri lo hanno fatto altri. Qui c’è abbastanza spazio per tutti».
In effetti a Palermo nessuno chiede di chiudere la moschea, o di riconsegnarla alla Chiesa. Giuseppe Vitale, che ormai ha più di 70 anni e si definisce un «cattolico praticante da generazioni», non bada nemmeno più alla moschea pur vivendoci a pochi minuti di cammino: «Fa parte del paesaggio, né più né meno di una chiesa, un albero, un bar o di un carretto che vende pane con la milza». Il cartello con la scritta moschea all’ingresso, annerito dallo smog, la aiuta a mimetizzarsi. Ammesso che serva. Sembra tutto semplice, a sentire l’imam e i palermitani del quartiere. Ma oggi in Italia, replicare il modello Palermo sembra davvero impossibile. Il 1990, anno dell’inaugurazione, pare lontanissimo, ben più dei 27 anni indicati dal calendario. Gli ultracattolici pronti alle barricate poi, se ci sono a Palermo non si espongono. Forse aspettano che spunti un Emil Cioran italiano a parlare per loro. In Francia, il filosofo esistenzialista romeno adottato dai parigini viene citato fino alla noia, ormai, ogni volta che inizia un dibattito interreligioso per una frase contenuta in un carteggio con lo studioso austriaco Wolfgang Kraus: «I francesi non si sveglieranno finché Notre-Dame non diventerà una moschea». Paradosso o profezia?
Roberto Scarcella
domenica 10 dicembre 2017
È morta la filosofa francese Judith Mille, Curò l’eredità del padre Jacques Lacan
Curò l’eredità del padre Jacques Lacan
Difendiamo i giornali dai neofascisti (Zagrebelsky)
Cultura
Difendiamo i giornali dai neofascisti
L’attacco messo in scena contro la Repubblica da una squadra di contestatori sotto la bandiera di Forza Nuova viene pochi giorni dopo l’irruzione a Como di membri di un Fronte Skinhead nella sede di un’associazione che si occupa di assistere migranti in difficoltà. Linguaggio e condotta richiamano prassi fasciste. E a fascismo e nazismo, nei simboli e nelle azioni, esplicitamente si richiamano ormai numerose organizzazioni di estrema destra, oltre che gruppi di tifosi che si ritrovano negli stadi di calcio. Non è da dimenticare il recente ignobile uso del ritratto di Anna Frank per ingiuriare la squadra avversaria.
La situazione diviene grave, anche perché trova riscontro altrove, specialmente all’Est dell’Unione Europea, dove si pratica la «democrazia illiberale» e gruppi di nazionalismo violento hanno libero corso. È inaccettabile la minimizzazione, che talora viene proposta da esponenti della destra politica. Non si tratta di criticabili ragazzate.
Gli aggressori di Repubblica, con la loro «dichiarazione di guerra», dicono di rappresentare oggi ogni italiano, tradito da chi con la penna favorisce la legge sul cosiddetto Ius soli, l’invasione e la sostituzione etnica, con il genocidio del popolo italiano. Con questo linguaggio essi promettono di difendere Roma e l’Italia se necessario a calci e pugni. Anche con la violenza, dunque.
Colpisce e offende che costoro pretendano di rappresentare e difendere l’Italia, interpretandone l’identità e le radici storiche. Chi li ha delegati? E poi, quali radici? L’identità nazionale è pluralistica, impossibile da definire unitariamente, frutto di sedimenti storici contraddittori. Affrontando il tema dei migranti, vi è chi contesta loro di esser diversi dalla maggioranza per cultura e religione. Ma quale è in proposito l’identità nazionale italiana? Trova essa radici nel Piemonte che operava per unificare l’Italia e fino alle rivoluzioni europee del 1848 teneva ebrei e valdesi privi di diritti civili? O più recentemente, nell’Italia che, compiacendo l’alleato nazista, introduceva nel 1938 le leggi razziali che cacciarono dalle scuole studenti e professori ebrei? Oppure, al contrario e in contrapposizione a quel passato, la nostra identità si trova nella drastica rottura rappresentata dalla Costituzione e dalla adesione all’Unione europea? Nella Repubblica, cioè, che, secondo Costituzione, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, l’uguaglianza, la libertà religiosa, la libertà di stampa?
C’è da chiedersi quale risultato abbia avuto il lavoro culturale svolto dalla scuola, quali credibili indicazioni siano venute dalle istituzioni politiche della Repubblica. L’eco che accompagna le azioni dei gruppi come quello che ha contestato il giornale Repubblicasarebbe trascurabile se non trovasse terreno fertile. Vi è un contesto pericoloso: da tempo, larghi settori della vita politica hanno adottato un linguaggio violento e sprezzante anche e specificamente nei confronti dei media e di singoli giornalisti, arrivando a pubblicare liste di proscrizione. L’esempio di Grillo non è il solo.
La riforma della legge sulla cittadinanza, che il Parlamento dovrebbe impegnarsi ad approvare, la vuole riconoscere ai figli di immigrati regolari, che sono nati in Italia o in Italia hanno frequentato le scuole. Niente a che vedere con l’invasione o addirittura la sostituzione etnica. Si tratta di una proposta in linea con la Costituzione e nell’interesse dell’Italia. In ogni caso essa riflette una posizione politica legittima, soggetta alla discussione, non all’aggressione.
Il pluralismo culturale, di costumi, opinioni, stili di vita e religioni è da tempo dentro le società europee, indipendentemente dal fenomeno immigratorio. La libertà di stampa, la libertà dei giornali serve a esprimerlo, difenderlo, renderlo utile.
È certo benvenuta l’immediata solidarietà manifestata dal governo a Repubblica, ma non basta, così come non basterebbe l’azione di polizia promessa dal ministro dell’Interno. Si faccia sapere ai giovani, che l’ignorano, dove le idee di quei gruppi hanno portato l’Italia e l’Europa. L’impegno necessario è di ampio respiro e di lungo periodo.
Tra i tanti episodi che si succedono, spicca per gravità quello contro la Repubblica, che, come questo giornale, si colloca chiaramente nel quadro dei valori costituzionali. La funzione pubblica della discussione dei temi della società, che i media svolgono liberamente, li colloca tra le essenziali istituzioni repubblicane. Essi sono strumenti ineludibili della formazione ed evoluzione dell’opinione pubblica, la quale a sua volta fa sì che le forme della democrazia e in particolare le elezioni non siano vuote di contenuto. In Italia, anche sul tema dell’immigrazione, le posizioni difese dai giornali sono le più varie. Da un lato l’orientamento della Repubblica non è isolato e dall’altro le posizioni opposte non sono relegate in un angolo.
Per l’obiettivo scelto e il motivo dichiarato, l’aggressione a Repubblica non è dunque solo aggressione ad un giornale, è un attacco alla libertà di stampa, alla libertà di tutti, alla democrazia.
Vladimiro Zagrebelsky
Il duello passa per l’Italia
Cultura
Il duello
passa
per l’Italia
La Nato sente l’urgenza di definire una strategia per proteggersi dall’«influenza maligna» degli hacker russi e l’Italia è il prossimo banco di prova su questo fronte di fibrillazione con Mosca.
Il Consiglio atlantico svoltosi a Bruxelles nei giorni scorsi ha visto il segretario di Stato, Tillerson affrontare con gli alleati l’urgenza di darsi la «strategia che non c’è» per fronteggiare le intrusioni cibernetiche provenienti da «attori russi» - più o meno riconducibili alle politiche del Cremlino - il cui intento sembra essere portare scompiglio dentro i Paesi occidentali al fine di minare la stabilità tanto della Nato quanto dell’Unione europea. Ovvero, le due alleanze occidentali uscite rafforzate dalla dissoluzione dell’Urss al termine della Guerra Fredda. Sono almeno 18 mesi, dalla vigilia delle presidenziali Usa, che i maggiori Paesi Nato - Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia, Francia e Germania - dedicano tempo e risorse per esaminare gli elementi a disposizione sulle intrusioni digitali di questi «attori russi».
E l’analisi oramai condivisa è che si tratta di una minaccia «esistente» anche se finora non c’è prova che sia stata «decisiva» nell’influenzare singoli risultati.
Agli hacker russi vengono attribuite con crescente sicurezza le incursioni digitali nel referendum sulla Brexit come nelle elezioni americane ed in più Paesi europei ma resta il dubbio se siano state effettivamente in grado di condizionarne l’esito. E’ invece oramai evidente la tattica che origina gli attacchi cyber - dalle fake news al furto di informazioni - perché l’intento non è sostenere singole forze politiche ma chiunque porti instabilità. Proprio perché questo «scompiglio» è stato innescato in più Paesi c’è convergenza nella Nato sulla necessità di «rispondere a livello strategico». I singoli alleati sono all’opera per definire politiche capaci di premere su Mosca su un doppio fronte: deterrenza e dialogo. Ciò significa sfruttare da un lato i contatti diretti e dall’altro le contromisure elettroniche per far capire al Cremlino che la scelta di «portare il disordine» in Occidente è destinata a fallire così come la disinformazione sovietica negli Anni Settanta ed Ottanta non riuscì a far implodere l’Alleanza diffondendo - in maniere assai più rudimentali - slogan e intolleranza contro «il capitalismo sfruttatore», l’«America guerrafondaia» e il «sionismo-razzismo».
Il sospetto che si fa largo nella Nato è che oggi come allora Mosca per stabilizzare i propri confini punti a destabilizzare i rivali, con la differenza di poter disporre adesso dello spazio digitale che consente di raggiungere milioni di persone in pochi secondi.
In attesa di sapere quali formule gli alleati sceglieranno per disinnescare il pericolo dell’«influenza maligna» - come viene definita da alti funzionari Nato - possono esserci pochi dubbi sul fatto che la nuova tappa della sfida cyber con Mosca sarà il nostro Paese, per il semplice motivo che è il prossimo alleato dove avranno luogo elezioni politiche. Sulla base dei precedenti in Francia e Germania, in ambienti occidentali si ritiene che gli hacker russi tenteranno anche qui di influenzare le urne per complicare la futura governabilità. Visto l’esito in Germania, dove è bastato il 13 per cento di voti all’estrema destra per ostacolare la nascita di una nuova coalizione, l’Italia si presenta come una preda assai più facile in considerazione dei sondaggi che prevedono una situazione di stallo. Tutto ciò inquieta i nostri partner ed alleati perché l’Italia ha un alto valore strategico in ragione delle basi Nato e Usa che ospitiamo - dal comando Africa a Vicenza al nuovo hub anti-terrorismo a Napoli fino alle piste per droni di Sigonella - del numero record di soldati che impieghiamo in missioni internazionali, dei risultati nella prevenzione di attacchi jihadisti e della nostra posizione in mezzo al Mediterraneo teatro di migrazioni di massa e duelli fra potenze. Senza contare il ruolo chiave che possiamo giocare per il possibile rilancio della Ue dopo la Brexit. In breve, un’Italia ingovernabile dopo le legislative sarebbe un grave danno per la Nato, pregiudicherebbe il rilancio della Ue e indebolirebbe la difesa degli interessi dell’Occidente nel Mediterraneo. Ecco perché la Nato vuole gli strumenti per arginare l’offensiva degli hacker russi in casa nostra.
Ma non è tutto perché l’unico canale multilaterale rimasto aperto nelle relazioni fra Est ed Ovest è l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), composta da tutti i Paesi dell’emisfero settentrionale, di cui proprio l’Italia assumerà la presidenza di turno dall’inizio del nuovo anno. Ciò significa che durante il 2018 l’Osce a nostra guida sarà un canale diretto fra Nato e Mosca, la cui gestione avrà un valore non indifferente.
Sono tali e tanti tasselli a spiegare perché le prossime elezioni italiane sono al centro di una crescente attenzione internazionale, evidenziata dalle notizie che abbiamo pubblicato dagli Stati Uniti sulle intrusioni digitali attribuite ai russi per favorire alcune forze politiche a danno di altre.
Maurizio Molinari
Arpino e la sua opera a 30 anni dalla morte
Cultura
Arpino e la sua opera
a 30 anni dalla morte
Trent’anni fa, proprio il 10 dicembre, moriva Giovanni Arpino. Ed è l’occasione per segnalare la disattenzione se non il silenzio sulla sua opera. Nelle ricorrernti celebrazioni e sagre che intendono ribadire o rinverdire la durata di uno scrittore, non figura da tempo il suo nome. Neanche il mondo sportivo, che lo vide cronista partecipe e animoso in gara con Gianni Brera, sembra ricordarsi di lui. Ma non c’è incalzare di mode o presunzione di nuovi, effimeri talenti che possa attentare alla sua grandezza di scrittore.
Nessuno dei suoi coetanei ha saputo essere come lui testimone del proprio tempo. Non soltanto attraverso le staffilate da moralista inferte negli articoli pubblicati su questo giornale, ma con la creatività espressa nei numerosi romanzi. Arpino è uno scrittore che ama calpestare la polvere della cronaca, di una cronaca che si fa storia. I suoi romanzi possono prendere pretesto da una tornata elettorale in una arcaica provincia piemontese o registrare la crisi dell’operaismo torinese mentre si avvertono i primi sintomi del benessere economico. Recuperano la memoria di un’epica paesana intormentita dalle lacerazioni della guerra civile, colgono al volo l’ultimo dibattito che scuote la società, si tratti della droga o dell’eutanasia. Testimoniano in un acceso confronto tra vecchi e giovani il degrado civile e morale delle nostre città, proiettandosi con largo anticipo sul presente. Muovendosi entro i confini di ariose colline (Bra e il Roero in cui Arpino è cresciuto) e di una Torino rappresentata con nitore nelle sue luci e nelle sue ombre. Dove il riscatto dalla semplice «tranche de vie» viene perseguito sperimentando, nella torsione del linguaggio, una tastiera stilistica che trascorre dall’esemplarità epica alla favola picaresca, al brivido surreale. La nativa, generosa esuberanza di Arpino, che di tutto fa racconto, invita a discernere ma non compromette l’altezza di certi risultati. Balzano di primo acchito alla memoria titoli come «La suora giovane», «L’ombra delle colline», «Il fratello italiano». Tra i molti scrittori che onorano la letteratura italiana nata in Piemonte nel secondo Novecento, accanto a Pavese e Fenoglio si colloca con piena dignità anche Giovanni Arpino. È un merito che gli va riconosciuto, in particolare da chi condivide il suo affetto per questa terra e scoprirà ancora in lui una voce fraterna.
Lorenzo
Mondo
Ora Uber scommette sugli autisti
Italia
Ora Uber scommette sugli autisti
“Così miglioriamo la loro vita”
Il piano in sei mesi del colosso americano del trasporto privato:
via libera alla mancia, denaro subito sul conto e corse garantite
Il piano in sei mesi del colosso americano del trasporto privato:
via libera alla mancia, denaro subito sul conto e corse garantite
Per raccontare l’evoluzione di Uber si possono guardare i numeri e scoprire che ogni giorno dieci milioni di corse vengono effettuate in 84 paesi del mondo grazie all’app e i suoi 2 milioni di autisti. Si può ascoltare, sulla strada dall’aeroporto, la storia di Muhammad, che nella settimana fa il magazziniere per un e-commerce di giocattoli a Sacramento e nel weekend il driver a San Francisco. O si può salire all’undicesimo piano del palazzo di Market Street che ospita il quartier generale e scoprire il ripensamento della strategia aziendale. Ma presi singolarmente sarebbero tutti frammenti insufficienti a rivelare quanto la rincorsa spericolata della società non quotata in Borsa con la più alta valorizzazione al mondo, quasi 70 miliardi di dollari, racconti l’anno che sta per finire.
Il 2017 sarà ricordato come l’anno di svolta per la percezione dei giganti tecnologici, diventati troppo grandi e potenti per essere considerate simpatiche startup, l’anno delle accuse sulle fake news in America e sul fisco in Europa, l’anno delle denunce per le molestie sessuali e dei diritti dei lavoratori che tornano in agenda. Non c’è un singolo aspetto di tutto ciò che non si intersechi con la storia di Uber, che negli ultimi dodici mesi ha navigato attraverso scandali per molestie, battaglie legali, colpi di mano degli investitori, senza dimenticare le crisi nei vari mercati in cui opera. A giugno il co-fondatore e amministratore delegato Travis Kalanick, l’anima di Uber fino ad allora, è stato costretto a dimettersi.
Nei primi anni Uber aveva corso seguendo il motto della Silicon Valley di allora: «Move fast and break things», «Muoviti veloce, rompi le cose». La Uber in cui Maya Choksi entra nel 2012 ha quaranta dipendenti a San Francisco e cento nel mondo (oggi sono duemila a San Francisco, dodicimila nel mondo): «Non avevamo un team che facesse ricerca. Uscivamo dall’ufficio e cercavamo di persona i driver per far testare al volo le nuove versioni dell’app».
La forza delle piattaforme è disegnare un’unica soluzione e distribuirla dalla Cina all’Africa, così si può giocare sulle economie di scala. Ma affrontare un’ordinanza del sindaco non è scalabile. Così Uber è andata incontro a proteste e problemi. «Ogni anno raddoppiavamo, l’azienda cresceva così tanto, ma non stavamo investendo abbastanza sulle persone - dice Choksi -, era tutto molto veloce e non abbastanza strutturato, onestamente», ammette.
Qualcosa è cambiato, da allora. Il numero di dipendenti significa maggior tempo da dedicare ai problemi. Così mentre Uber investe sull’auto senza guidatore (ha appena staccato un ordine per 24mila Volvo driverless) e sull’auto volante (test entro il 2020), nel 2017 si è concentrata sul primo motore della sua crescita: gli autisti. Il lavoro di Tom Fallows, per esempio, è migliorare l’esperienza dei pagamenti per i driver: ora dopo il viaggio si può dare la mancia all’autista, l’importo della corsa e la quota che va a Uber è descritta in modo trasparente e il denaro è disponibile sul conto del driver in pochi secondi. Ancora, le corse in luoghi remoti della città vengono garantite in caso di cancellazione, un incentivo che ha anche l’effetto di ampliare le aree coperte.
La vita nuova di Uber passa attraverso un piano di cui tutti parlano nell’azienda, «i 18o giorni», sei mesi per migliorare Uber dal punto di vista degli autisti. Il nuovo ad, Dara Khosrowshahi, ha introdotto nuove parole d’ordine nella cultura aziendale, con l’idea dell’umiltà e del lavoro come ossessione, e ha criticato pubblicamente il predecessore per alcune scelte, quasi a voler dimostrare la nuova integrità dell’azienda. Nonostante gli incidenti di percorso la scommessa di Uber ha tenuto il passo degli investitori. In alcuni continenti, mercati più maturi, la società è vicina all’equilibrio economico, anche se i conti globali, con ricavi lordi che per l’intero 2017 supereranno i 30 miliardi di dollari e ricavi netti vicini ai 10 miliardi, segneranno probabilmente una perdita.
Il capo dei famosi «180 giorni» si chiama Aaron Schildkrout. È un ragazzone alto, felpa grigia, brizzolato, occhiali spessi grigi. «Abbiamo cambiato metodo - dice -, l’azienda è cresciuta così velocemente che aveva decentralizzato le decisioni: è stato importante ma non c’era una strategia unica». Nel 2018 il ripensamento riguarderà non più i driver ma i rider, ovvero le opzioni da offrire all’utente. «Siamo la piattaforma che offre lavoro più grande al mondo. E abbiamo la missione di offrire un trasporto universale», conclude Schildkrout. Gli incidenti sul percorso non sono mancati ma la scommessa è viva. Il paradosso esplicitato dalla (breve) storia di Uber è che senza le forzature di ieri, oggi la società non sarebbe più sul mercato. Se Uber sta facendo ordine, prima o poi bisognerà farci i conti.
@bpagliaro
beniamino pagliaro
Badante, cameriere o barista dove il robot sostituisce l’uomo
Italia
La rivoluzione industriale 4.0
La rivoluzione industriale 4.0
Badante, cameriere o barista
dove il robot sostituisce l’uomo
Prodotto in Germania, costa 100mila euro, debutterà a marzo: “Basta istruirlo”
Nei prossimi 5 anni a rischio 7,1 milioni di posti nei Paesi più industrializzati
Prodotto in Germania, costa 100mila euro, debutterà a marzo: “Basta istruirlo”
Nei prossimi 5 anni a rischio 7,1 milioni di posti nei Paesi più industrializzati
All’ingegnere Matthias Krinke non dispiace poi troppo che la sua creatura venga chiamata «il robot schiavo». Del resto, è difficile trovare una definizione migliore. Attaccato a una presa di corrente, il Workerbot 4 può lavorare di giorno e di notte, cambiare padrone e mansione grazie al «massimo coefficiente di flessibilità». Basta istruirlo. «Sarà anche uno schiavo, però non soffre» dice con un sorriso bonario l’ingegner Krinke.
Costa 100 mila euro. È alto 1,75, pesa 120 chili. Ha una faccetta simpatica da fumetto per non incutere troppo timore. Il problema è la quantità di cose che sta imparando. Non disegnerà un cuore con il latte al centro del vostro cappuccino, ma solo perché nessuno lo ha ancora programmato per farlo. Può fare il barista, mettere la senape su un würstel in quantità variabile, produrre pezzi di plastica personalizzati, cucire magliette su misura. Dicono che presto diventerà portiere d’albergo, guardiano di un condominio e badante infaticabile. Intanto, in forma di prototipo, con il nome di Jolandi, sta già lavando il bagno di casa del suo inventore. «Gli dai lo straccio umido ed ecco che, attraverso un sistema di sensori e telecamere a 360 gradi, con le braccia meccanizzate pulisce con precisione millimetrica. Mia moglie è molto soddisfatta».
Si può scherzare, certo. Ma questa è una frontiera. Ancora nessuno conosce esattamente quello che ci sarà dall’altra parte. Per il World Economic Forum, nei prossimi 5 anni si potrebbero perdere fino a 7,1 milioni di posti di lavoro nei 15 paesi più industrializzati del mondo. Secondo l’ultimo studio della McKinsey, il 49% delle attività umane «è soggetto a qualche forma di automazione». La chiamano rivoluzione industriale 4.0. Non è soltanto la robotizzazione dei processi produttivi su larga scala, cioè fabbriche sempre pi ù tecnologiche e meno umane. È la fine di molti lavori per come erano conosciuti fino a oggi. Gli autisti improvvisamente inutili, sostituiti dai camion e dalle auto a guida autonoma, sono l’esempio più immediato. Ma rischiano tutti gli impieghi più ripetitivi, e in questa classifica cucitori e raccoglitori agricoli sono considerati fra quelli a più alta probabilità di estinzione.
La Germania è la prima produttrice di robot in Europa. A Berlino, a quattro fermate di metropolitana da Alexanderplatz, c’è questo ingegnere con la camicia verde che ha messo sul mercato il primo «robot schiavo». Stiamo parlando del futuro? «Parliamo del presente», risponde Matthias Krinke. L’esordio in società del Workerbot 4 avverrà a marzo 2018, con il primo chiosco con due umanoidi al lavoro. Fabbricheranno oggetti personalizzati davanti ai clienti, all’interno del centro commerciale Bikini Berlin. Un altro chiosco con due robot è stato acquistato da una catena tedesca dal nome ancora top secret. Mentre a maggio arriveranno due umanoidi anche per servire la birra artigianale Baladin di Piozzo, in Piemonte. Ma questi saranno prodotti della Epf Automation di Carrù. Perché anche l’Italia è all’avanguardia nel settore, il secondo Paese produttore di robot in Europa.
Va bene, direte: il gioco dei camerieri umanoidi. E invece, no. Due catene alberghiere tedesche stanno progettando di attrezzare la reception con dei robot. «Controlleranno l’ingresso, i documenti, la corrispondenza dei volti, distribuiranno le chiavi e regoleranno la temperatura in stanza sulla base delle preferenze individuali», spiega Matthias Krinke. Ma se uno avesse bisogno, per dire, di un cuscino? «Il robot non sarà solo. Il progetto prevede sempre di affiancarlo a un essere umano. C’è una seconda versione della reception, dove nel viso del robot comparirà la faccia di una persona in carne ed ossa, collegata da una centrale. In modo che la stessa impiegata possa materializzarsi in diversi alberghi della stessa catena. Lei parlerà, il robot eseguirà, e via così».
L’ingegner Krinke ha 51 anni, da ragazzo sognava di fare il pittore. Quando 23 anni fa ha aperto la sua officina di robot nel distretto di Mitte, in pochi erano disposti a prendere sul serio quel genere di lavoro. Oggi la sua azienda conta 50 dipendenti. Negli ultimi dieci anni ha ricevuto finanziamenti dell’Unione Europea, dall’ente governativo Euronorm e dalla «Investitionsbank» di Berlino. Tutti vogliono vedere cosa c’è dall’altra parte della frontiera.
Potresti trovarci, ad esempio, più solitudine e disoccupazione, un robot per ricordarti che devi prendere una medicina, un altro per il sesso, un altro ancora per prenotare un hotel. Ma per lui, al contrario, andrà bene. «Nessuno adesso si lamenta perché esistono i bancomat, io sono convinto che i robot faranno nascere nuovi impieghi. Serviranno altri tipi di competenze: più diversità, più scuola, più arte. Come in ogni epoca di grande cambiamento, perderemo qualcosa in cambio di altre opportunità». Resterebbe, forse, la tristezza di avere a che fare con gli umanoidi. «Ho appena parlato di questo argomento con mia madre Gisele», dice l’ingegner Krinke. «Lei preferirebbe un badante robot, la farebbe sentire meno in colpa».
Fra i clienti interessati al Workerbot 4, il suo inventore è autorizzato a citare solo la Siemens e Bundesdruckerei, l’ufficio anagrafico e zecca dello Stato tedesco. Insieme stanno cercando di risolvere un problema del futuro prossimo: certificare l’identità dei robot e legarla in modo sicuro a quella dei proprietari. Il progetto si chiama «Safe identity». Il Parlamento europeo ha appena stabilito che non dovremo più chiamarli robot. Accanto alle persone fisiche e alle persone giuridiche, adesso ci sono loro: le persone elettroniche. Fra le applicazioni allo studio dell’ingegner Krinke, c’è un’agenzia di lavoro temporaneo con questo slogan: «Impiegati 0%, 100% robot». E poi l’idea di mettere in vendita le sue creature sotto forma di investimento. Immagina, cioè, un mondo dove un pensionato, ad esempio, possa comprare un robot per poi affittarlo a qualche fabbrica e ricavarne un reddito. Lo stipendio per conto robot.
Chissà cosa di tutto questo diventerà reale. L’ingegner Krinke sorride soddisfatto: «Le ultime stime dicono che in Germania nel 2018 verranno prodotte 85 mila persone elettroniche». Al posto di quanti esseri umani lavoreranno?
nICCOLò ZANCAN
L’irresistibile ascesa delle criptovalute
Italia
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dietro la crisi delle Banche centrali
Analisti divisi: Jp Morgan boccia le banconote virtuali ma poi le compra
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«Posso calcolare i movimenti delle stelle, non la follia degli uomini»: così, nel 1722 , il geniale astronomo Isaac Newton commentò il crollo in Borsa della South Sea Company, nata nel 1711 per commerciare, soprattutto in schiavi.
Dal gennaio all’agosto del 1720 il titolo salì da 128 a 1000, e tutta Londra, compreso Newton che investì 22.000 sterline, sperò di arricchirsi. A settembre, tra falsari e corruttori, South Sea crollò a quota 124, rovinando City e governo. La lontana vicenda è ora paragonata all’ascesa formidabile dei bitcoin, moneta elettronica passata dal valore di circa mille dollari pochi mesi fa, ai circa 14.500 dollari di ieri. Chi l’ha comprata in tempo se ne vanta, chi ne è rimasto fuori si morde le dita e spera di rientrare, scommettendo su una nuova fiammata. Che fare? Comprare o no? Fidarsi della moneta digitale o starne alla larga come dai titoli Mare del Sud nel XVIII secolo? Il lettore che cercasse di informarsi se, e come, investire in bitcoin i sudati risparmi, resterebbe perplesso, perché, come sempre nel digitale, Vero&Falso si intrecciano.
Se il Chicago Mercantile Exchange, la storica Borsa dei contratti «futures», annuncia, senza dubbi, che comincerà ad usare bitcoin, come non partecipare alla corsa all’oro coniato in bit? L’economista Noriel Roubini raffredda gli entusiasmi, «Bitcoin? Bolla speculativa che aspetta solo di scoppiare». Jamie Dimon, amministratore del colosso finanziario JpMorgan Chase, in ottobre si allinea a Roubini «Non mi importa a quanto si vendano bitcoin, come si comprino e chi li venda, perché o a chi. Se siete così stupidi da comprarne, pagherete il prezzo, prima o poi. Licenzierò il primo dei miei broker che becco a trattarli».
Peccato però che ZeroHedge, blog finanziario anonimo che a volte ci prende, a volte diffonde notizie pro Cremlino, non accusi subito JpMorgan di avere in cassaforte informatica un bel po’ di bitcoin, e che, appena quaranta giorni dopo la stentorea bocciatura di Dimon, gli analisti di Bloomberg confermino che anche JPMorgan debutta nel trattare bitcoin, sia pure solo «facilitando» contratti futures via il Cme Group Inc. Non è ancora marcia indietro, ma gli «stupidi» disprezzati da Dimon sono folla ormai, come lasciarli alla concorrenza?
Boom, speculazione o bolla che sia, nascono intanto altre criptovalute, il Litecoin, considerato «argento» contro «l’oro» bitcoin, coniato nel 2011 da Charles Lee, ex Mit e Google, o i contratti «smart» di Ethereum, nati nel 2015 e già con un mercato stimato a 35 miliardi di euro, secondo nelle monete digitali solo ai bitcoin originari. Fidarsi o no, dunque, della zecca di coin, fondata nel 2009 da informatici sconosciuti, raccolti sotto lo pseudonimo Satoshi Nakatomo? Prima di fare un’ipoteca sulla casa e investirla in bitcoin, val la pena comprendere il concetto chiave di blockchain, che sta alla base di tante transazioni digitali in varie comunità. Blockchain è la rete che raccoglie, verifica e autorizza le transazioni in bitcoin, bloccando quelle insostenibili, approvando quelle legittime, in un processo sempre trasparente agli utenti con accesso al meccanismo. Bitcoin nasce dalla sfiducia nelle banche dopo la crisi 2008 – il nostro dibattito su Bankitalia quanti bitcoinisti sta arruolando? – e offre moneta digitale per comprare un bene, senza intermediari, con venditore e acquirente che vengono, passo passo, legittimati a vicenda dalla rete di appartenenza. Chiave è la crittografia, cui gli utenti abilitati accedono via codici personali. Un ledger, libro mastro, di ogni transazione, è custodito da tutti i membri della «catena», ciascuno garante della sostenibilità complessiva del sistema. Chi investe in bitcoin respinge le accuse di «Catena di Sant’Antonio della frode», o di «schema Ponzi», dal nome dell’ex studente della Sapienza di Roma Charles Ponzi che negli Anni Venti truffò 40.000 persone in America: a render tutto trasparente è proprio blockchain, perché gli utenti si controllano a vicenda, creando una comunità dove il contratto virtuoso elide quello a rischio. I tecnici che risolvono i problemi più spinosi, con algoritmi di mercato o giuridici, possono venir remunerati in bitcoin, allargando l’area di «liquidità», se così possiamo definirla, e garantendo che i bitcoin non vengano spesi due volte.
Vi fidate? Vi ha persuaso il Chicago Mercantile, Roubini, o siete in bilico come Dimon? Nessuna certezza esiste sui bitcoin e chi ve la offrisse, pro o contro, spara nel buio. Nel riflettere, mettete a fuoco blockchain, comunità digitale che cresce su fiducia e garanzie mutuali. Se anche i bitcoin fallissero come la Compagnia Mari del Sud tre secoli or sono, blockchain non finirà, come la Borsa sopravvisse al crack dei tempi di Newton. Blockchain è strumento comunitario, libero da intermediazioni, e nel nostro scettico tempo digitale potrebbe rivelarsi una rivoluzione.
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*Capoanalista presso ActivTrades Londra
carlo alberto de casa*
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Oggi il debutto alla Borsa di Chicago, dopo il record a 19 mila dollari
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Tutti pazzi per la criptovaluta. Mentre il Bitcoin macina record, la febbre da valuta alternativa contagia sempre più investitori, anche quelli più piccoli. Un picco di interesse dettato dalle aspettative di rialzo e di maggior impiego della moneta digitale negli scambi. Ed ecco che il Bitcoin segna un rialzo del 40% in 40 ore, arrivando a superare la soglia dei 19 mila dollari, per poi assestarsi a circa 14.500 dollari. La cripotvaluta creata da Satoshi Nakamoto, o dall’eminenza che si nasconde dietro tale nome, arriva a raggiungere un valore di mercato di 271 miliardi, superiore a 488 delle 500 Corporation dello Standard & Poor’s 500. Una capitalizzazione che supera quella dell’oracolo Warren Buffett, e il Pil di un Paese come la Nuova Zelanda, distanziando colossi di Wall Street come Goldman Sachs o Ubs.
Ma non di solo Bitcoin si nutre il mondo della criptovaluta, dove fioriscono divise digitale ogni giorno: ad oggi se ne contano 1330 per un valore di oltre 400 miliardi di dollari, anche se solo 17 sono sopra il miliardo di dollari. E un proliferare di inviti e promozioni “vestiti” anche da occasioni natalizie, come le monete digitali offerte gratuitamente col logo accattivante di “cryptogift”, ovvero cryptoregali. E ancora: «Non comprate Bitcoin, le cryptovalute del futuro sono altre», recita un sito specializzato, mentre c’è chi in modo più scientifico indica quali sono le “CryptoBig” su cui puntare, ora. Come Ethereum o la rampante Iota, che, pur valendo meno di 5 dollari, ha messo a segno un balzo dell’850% nell’ultimo mese e del 231% nell’ultima settimana. E con boutique finanziarie online come Crypterium, che si definisce «la Jp Morgan delle criptobanche». Del resto le medie di mercato parlano chiaro con performance superiori rispetto a quelle dei titoli azionari. Tanto che la febbre da criptovaluta ha contagiato anche uno degli ultimi bastioni del socialismo reale come Nicolas Maduro. Il presidente venezuelano ha annunciato che lancerà una criptovaluta bolivariana, il “Petro” il cui valore è agganciato all’andamento di petrolio, gas, oro e diamanti. L’ultima spiaggia per il regime di Caracas impossibilitato a stampare moneta per il tasso di inflazione da capogiro.
Ma anche uno spunto di riflessione per capire i rischi legati a questo mondo, come avverte Howard Davies, presidente della Royal Bank of Scotland, il quale ha paragonato la febbre da criptovalua all’Inferno dantesco. Che ci sia un problema di volatilità è stato chiaro anche negli ultimi giorni quando da un picco di 19.340 dollari il Bitcoin ha improvvisamente fatto registrare un calo del 20%, scendendo a 15.198 dollari e poi risalendo poco sopra i 16 mila dollari. Un altalena dettata anche dal fatto che ad oggi la criptovaluta è scambiata solo sul mercato «over the counter», ed è quindi scevra da codificazioni tipiche dei mercati regolamentati. Ecco perché alcuni vedono con un certo timore il lancio del primo contratto «future», previsto per domenica 10 dicembre, sul Chicago Board of Exchange e, il 18 dicembre, sul Chicago Mercantile Exchange.
Come hanno spiegato le principali autorità di settore in una missiva ufficiale «l’introduzione dei future sul bitcoin non è supportata dalla necessaria trasparenza». Anche perché sul mercato Otc si può puntare solo al rialzo, mentre con i «future» si potrà venderla allo scoperto, ovvero puntare al ribasso. A quel punto, potrebbe scattare una pioggia di ordini di dismissione, con conseguenti buchi di liquidità devastanti. Specie per gli investitori più piccoli.
francesco semprini