Cultura
La
guerra
di
Piero
Usciva nell’aprile 1924 il saggio
con cui Gobetti tentò l’ultima battaglia contro il fascismo
Usciva nell’aprile 1924 il saggio
con cui Gobetti tentò l’ultima battaglia contro il fascismo
Ricordare i novant’anni della Rivoluzione liberale, l’aureo libretto di Piero Gobetti (apparso nell’aprile del 1924) significa ancora una volta affacciarsi sul «prodigioso giovinetto» (l’etichetta, celebre, è di Norberto Bobbio). Il volume era una raccolta di articoli apparsi nell’omonimo settimanale, il cui il primo numero era uscito il 12 febbraio 1922 (l’ultimo il 1° novembre ’25). Piero non aveva neppure ventun anni, essendo nato il 19 giugno 1901. Era la sua seconda rivista, dopo le prove di Energie nove, avviata, diciassettenne, ai tempi del liceo; una terza, intitolata, con scelta significativa, all’illuminista piemontese Baretti, apparve il 23 dicembre 1924, e fu continuata da un gruppo di amici, dopo l’improvvisa morte del fondatore, sino alla fine del 1928. Nel frattempo c’era stato il rapporto con Antonio Gramsci, e la collaborazione come critico teatrale all’Ordine nuovo, nel 1921-22, ma già nel 1920 Piero aveva guardato agli operai in lotta nella Torino industriale come a un contropotere nascente, speranza della rivoluzione italiana, che peraltro egli, suscitando sconcerto tanto tra i liberali quanto tra i socialisti, si ostinava a chiamare «liberale».
La rivoluzione liberale settimanale fu lo stendardo di una disperata intransigenza, proprio quando a molti la vittoria fascista pareva inevitabile: una delle voci più forti e coraggiose dell’antifascismo militante, che denunciò la viltà del ceto politico e l’abiezione di quello intellettuale «vile razza bastarda», pronta a saltare sul carro del vincitore. Gobetti tuttavia non smise i panni a lui congeniali dell’organizzatore culturale, mettendo a frutto l’esperienza fiorentina della Voce, rifiutando però il cinismo di Prezzolini (famoso lo scontro fra i due: a Prezzolini che teorizzava la «società degli apoti», una sorta di prefigurazione del nostro «cerchiobottismo», Gobetti rispondeva proponendo, contro il fascismo, «la compagnia della morte»). Ma tutta l’opera di Gobetti non sarebbe pensabile al di fuori di Torino, la «città seria» lodata da Gramsci, la città «positiva», permeata dalla cultura del rigore, dove la «civiltà dei produttori» raggiungeva il suo culmine; la città dove l’università mostrava una vocazione civile, in un fecondo interscambio con la politica, il giornalismo, l’editoria. Fu una fabbrica di menti eccelse la facoltà giuridica dove Piero si laureò nel ’22, con «il maestro dei maestri», Gioele Solari (nella stessa sessione, con Solari, troviamo Alessandro Passerin d’Entrèves, e, negli anni seguenti, una straordinaria schiera, che annovera Bobbio e Firpo).
Non scelse l’accademia, Piero, troppo grande era il fervore politico; ma volle essere studioso, oltre che giornalista e editore: «Penso a un editore come a un creatore», scriveva. E all’editoria affidava il compito di suscitare «un intero movimento di idee». Le intimidazioni, le censure, le percosse si intensificavano: Mussolini ordinò di «rendere difficile vita questo insulso oppositore di governo e fascismo». Poche settimane prima del delitto Matteotti, nell’aprile 1924, nella «Biblioteca di studi sociali diretta da R. Mondolfo», apparve presso l’editore Cappelli di Bologna l’opera che oggi ricordiamo: 162 pagine. Il sottotitolo, Saggio sulla lotta politica in Italia, era un’esplicitazione del significato che l’autore annetteva al libro: l’ultima dichiarazione di guerra al fascismo che infatti la raccolse, distruggendo quasi tutte le copie nel magazzino dell’editore. Ma era anche il tentativo di capire la genesi del movimento mussoliniano, il punto finale dei mali dell’Italia, la sua triste «autobiografia».
Gobetti stabiliva un canone interpretativo sovente riproposto, specie in epoca recente quando da più parti si è creduto di vedere nel berlusconismo una nuova «autobiografia della nazione». La capacità di sintetizzare in formule efficaci le sue analisi, tanto da apparire una sorta di formidabile copywriter («Risorgimento senza eroi», «paradosso dello spirito russo», e la stessa «rivoluzione liberale»), ha favorito la fortuna di Gobetti, lasciandoci una spigolosa e insieme feconda eredità di un pensiero non giunto a compimento, gravido di spunti, tensioni e paradossi. Nessun suo coetaneo ha inciso così profondamente, sia pure in modo erratico, non tanto nel proprio tempo, quanto in quello a venire.
All’epoca il lavoro febbrile dell’«allievo maestro» (così Augusto Monti, avviando la costruzione del mito), aveva già permeato il tessuto culturale torinese, tanto che si può parlare di un’«aura gobettiana», che ritroviamo in tante iniziative culturali nella città che, orfana dei due dioscuri (Gramsci e Gobetti), sarebbe rimasta per qualche tempo una capitale intellettuale. Questo è il lascito fondamentale gobettiano; ma, sul piano etico-politico, la sua battaglia, condotta sulle colonne del settimanale - poi riprese nella loro parte meno d’occasione nel libro che con felice intuizione ne ripeteva il titolo - è quella più fascinosa, se ancora oggi, per esempio, nell’università che fu sua (quantum mutata ab illa!), un gruppo di studenti avvia un seminario autogestito dedicato al pensiero di Gobetti. Nel ’68 si facevano su Marcuse e i «francofortesi»… È forse proprio la tensione morale che anima tutte le sue pagine, oltre che la stessa vicinanza ideale (un giovane che si contrappone ai vecchi, un «provocatore» che dà scandalo con la formula quasi ossimorica della «rivoluzione liberale», un irregolare rispetto alla cultura e alla politica), a suggestionare i suoi coetanei di un secolo dopo, in tempi di «silenzio degli intellettuali».
Angelo d’Orsi