Cultura
L’amara
verità
capitolina
Se il Movimento 5 Stelle ha deciso ancora una volta - Grillo, garante, in testa a tutti - di far quadrato attorno a Virginia Raggi, per la quale ieri la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio con l’accusa di falso, è per una serie di ragioni, non tutte perfettamente logiche, ma di sicuro condivise dal popolo stellato.
La prima è che la situazione processuale della sindaca di Roma si è alleggerita: sono cadute le accuse di abuso di ufficio per le nomine di Salvatore Romeo a capo della segreteria e di Renato Marra (fratello di Raffaele, attualmente agli arresti domiciliari per corruzione) a dirigente del dipartimento turismo. Raggi, al tempo di queste scelte circondata da una sorta di cerchio magico dal quale si è (o è stata dal Movimento) rapidamente liberata, difficilmente riuscirà a sfuggire alla condanna in primo grado per falso, dato che mentì all’Anticorruzione, pensando di salvarsi dalla stretta fatale dei suoi loschi collaboratori di allora e dicendo di aver deciso tutto da sola, quando invece intercettazioni telefoniche e documenti firmati dimostrano che non andò così.
Molto probabilmente, quando i giudici emetteranno la loro sentenza (che segnerà anche un primo momento di rottura tra il Movimento e la magistratura), la sindaca sarà costretta ad autosospendersi come ha fatto il suo collega Cinque Stelle, primo cittadino di Bagheria, ma non per questo M5S mollerà la presa sul Campidoglio romano. Anzi, per come sono fatti gli elettori del Movimento, e per come s’è visto di recente a Rimini, la Raggi continuerà ad essere un’icona stellata quasi dello stesso livello di Di Maio e Di Battista, e saranno in molti a credere (glielo faranno credere) che contro di lei sia stata ordita una macchinazione quando era stata appena eletta, approfittando della sua iniziale inesperienza.
In altre parole, rispetto alla Raggi, Grillo, Casaleggio e Di Maio (il quale, inquisito a sua volta, si tiene a debita distanza da quella che potrebbe rappresentare la prima grana della sua neonata leadership) hanno deciso di comportarsi con un atteggiamento opposto a quello che il Pd renziano ebbe verso il sindaco Marino: defenestrato a costo perfino di far firmare dai consiglieri comunali al cospetto di un notaio l’autoaffondamento dell’intero Campidoglio, con il bel risultato di consegnarlo in blocco ai Cinque Stelle, che mai e poi mai avrebbero sperato di conquistare il governo della Capitale.
Naturalmente tutto ciò avviene in base a un mediocre e progressivo aggiustamento del codice etico del Movimento: dal semplice avviso di garanzia, l’argine è slittato via via al rinvio a giudizio e adesso alla condanna in primo grado: alla quale, c’è da giurarci, in qualche modo Raggi sopravviverà politicamente, continuando a galleggiare sullo stato di degrado in cui Roma è caduta. Un decadimento insopportabile, certo non tutta responsabilità sua, dato che le due precedenti amministrazioni avevano alzato bandiera bianca di fronte agli enormi e ormai quasi irrisolvibili problemi di Roma; ma aggravato dall’evidente rinuncia della sindaca a farci i conti e a cercare soluzioni, essendo preferibile, per lei e i suoi sostenitori, denunciare quotidianamente il complotto che impedirebbe alla nuova amministrazione di lavorare.
La verità, amara quanto si vuole, ma altrettanto inconfutabile e ben chiara ai Cinque Stelle, è che Roma diventa, sì, ogni giorno più invivibile, ma il ricordo della corruzione recente e l’impressione lasciata, al di là della conclusione, dal processo «Mafia capitale», sono ancora molto forti. E i romani, disillusi per natura e per la storia millenaria che hanno alle spalle, preferiscono tenersi la Raggi, piuttosto che veder tornare in Campidoglio un politico di professione, di centrosinistra o centrodestra.
Marcello Sorgi