ebook di Fulvio Romano

sabato 30 settembre 2017

Le scorciatoie inaccettabili sulla corruzione ( Onida)

LA STAMPA

Cultura


La criminalità organizzata di «stampo mafioso», che nel nostro Paese ha una lunga storia purtroppo tutt’altro che esaurita, 
richiede certamente, per essere combattuta efficacemente, speciali capacità e abilità investigative e valutative, e può richiedere anche, in parte, norme speciali. Lo stesso è a dirsi, con diversi contesti e diversi problemi, per la criminalità terroristica. Su entrambi questi terreni l’Italia e le sue istituzioni - Parlamento, magistratura e forze dell’ordine - hanno maturato esperienze significative e messo a punto strumenti ad hoc (si pensi solo alla Procura nazionale e alle Procure distrettuali antimafia e antiterrorismo).

Ciò non significa però che possano venir meno o attenuarsi le esigenze di rispetto dei principi costituzionali fondamentali che governano e devono governare, in uno Stato democratico, ogni intervento di repressione e di prevenzione della criminalità. I principi di stretta legalità dei reati e delle pene, di presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, di irretroattività delle norme punitive, di umanità e finalità rieducativa della pena, di ragionevolezza e adeguatezza delle misure cautelari, di garanzia del contraddittorio e del diritto di difesa, di rispetto, sempre, della dignità umana, sono caposaldi irrinunciabili di civiltà giuridica, a cui lo Stato democratico non può mai rinunciare nemmeno in nome di una qualsiasi «emergenza». 

Una sentenza del 2004 della Corte Suprema israeliana, redatta dal suo Presidente Aharon Barak, si esprime sul punto con queste memorabili parole: «Questo è il destino di una democrazia - essa non considera come accettabili tutti i mezzi, e le vie seguite dai suoi nemici non sono sempre aperte davanti ad essa: Una democrazia deve talvolta combattere con una mano legata dietro la schiena. Tuttavia la democrazia prevale. Il principio di legalità (rule of law) e le libertà individuali costituiscono un aspetto importante della sua sicurezza. Alla fine del giorno, essi rafforzano il suo spirito e questa forza le consente di superare le sue difficoltà».

Non pare superfluo questo richiamo nel momento in cui si discute di nuove misure per combattere la criminalità. Penso alle norme modificative del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, che in particolare estendono le misure di prevenzione patrimoniale (sequestro dei beni e confisca), fra l’altro, al caso di indiziati di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, come il peculato, la corruzione e la concussione. Si badi bene, semplicemente «indiziati»: dunque non è necessario che sia accertato il reato con la relativa condanna, e nemmeno che sussistano i presupposti che consentono l’adozione di misure cautelari patrimoniali.

Ora, qual è il senso delle misure di prevenzione? Dovrebbe essere quello di tenere sotto controllo più da vicino le attività di chi sia seriamente sospettato di essere contiguo a «giri» criminali, prevenendo appunto lo sviluppo o la diffusione di attività delittuose. Ma sequestrare e confiscare i beni di chi sia indiziato di delitti per i quali non è, o non è ancora, perseguito penalmente, e al di fuori del quadro delle misure cautelari previste dall’ordinamento, significa in realtà anticipare una pena a chi non è ancora nemmeno sotto processo perché mancano, o mancano ancora, le prove sufficienti per il processo medesimo. Il rischio insomma è di un utilizzo strumentale delle misure di prevenzione là dove non si riesce a intervenire con il processo e la condanna. Come si è espressa significativamente, in un atto giudiziario, una Procura nel proporre appunto l’applicazione di una misura di prevenzione personale, «il diritto penale come extrema ratio, le difficoltà probatorie» (imposte dalla giurisprudenza di Cassazione che ha tracciato i limiti di configurabilità del reato di concorso esterno in associazione mafiosa), «e la varietà delle forme attraverso cui si esprime la contiguità alla mafia hanno portato a rivitalizzare la tematica delle misure di prevenzione», per colpire ogni comportamento che, pur non configurando un reato, venga ritenuto «funzionale agli interessi dei poteri criminali e costituisca una sorta di terreno favorevole permeato di cultura mafiosa», pervenendo così ad una «vera e propria mutazione genetica delle misure di prevenzione»,

Ora il legislatore ha voluto estendere l’applicabilità del sistema delle misure di prevenzione patrimoniali al campo dei delitti di corruzione amministrativa. Ma questo rischia di rivelarsi un terreno vasto e scivoloso in cui, muovendo dal sospetto dell’esistenza di diffuse pratiche corruttive e di una «cultura mafiosa» nelle amministrazioni e intorno ad esse (che magari esiste, ma va appunto combattuta, oltre che con la vigilanza all’interno, con gli strumenti della cultura piuttosto che con quelli del diritto penale), si brandisca l’arma delle misure di prevenzione per colpire dove non si è in grado di intervenire con gli accertamenti processuali e con le relative condanne. 

Il rischio di incostituzionalità delle norme o della loro applicazione è palese, come quello di esporre il Paese a nuove condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Un sequestro di beni può bene essere necessario anche in via cautelare, ma sulla base di un procedimento che miri all’accertamento del reato. Un sequestro e addirittura una confisca di beni che si collochino al di fuori dell’indagine e del processo diretti ad accertare e punire un reato rappresentano invece una indebita applicazione di una «pena alternativa» al di fuori del principio di legalità e delle regole del processo.  Prevenire la corruzione è necessario, oltre che reprimerla. Ma non può voler dire lasciare campo libero alla cultura del sospetto e allentare le garanzie essenziali della persona. Nel campo della corruzione politico-amministrativa, prevenire significa anzitutto eliminare o almeno ridurre l’oscurità della normativa, che si traduce sia in uno spazio aggiuntivo e indebito di discrezionalità, sia in una minaccia permanente sul capo degli amministratori; ridurre i tempi e potenziare la trasparenza dei processi decisionali e la conoscibilità degli atti interni; costruire e diffondere la cultura del risultato in luogo di quella dell’adempimento e del cavillo; accrescere le motivazioni sane di chi è chiamato a decidere piuttosto che gravarlo di sempre nuove forme o nuove minacce di responsabilità giuridica; avere il coraggio di intervenire drasticamente dal punto di vista organizzativo, facendo pulizia, dove si accertano cedimenti alle varie forme di corruzione.

La ricerca di «scorciatoie», attraverso la espansione indebita delle misure di prevenzione, non è invece accettabile.

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Valerio Onida*


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