Cultura
Dio non gioca a dadi, però...
In un’America ferita e inquieta, la teoria della complessità
cerca di riconoscere le regole che governano il caso, per orientarsi nel caos
In un’America ferita e inquieta, la teoria della complessità
cerca di riconoscere le regole che governano il caso, per orientarsi nel caos
Provate ad allineare con i soldatini di piombo di una volta i contendenti nella guerra civile in Siria, che ha fatto 250.000 morti e milioni di profughi, destabilizzato il Medio Oriente e l’Europa, messo Usa contro Russia come ai tempi della Guerra fredda facendo dire a papa Francesco: «È la Terza guerra mondiale a pezzetti». Da una parte l’esercito di Assad, dall’altra i ribelli. Poi schierate con Damasco Putin, l’Iran sciita e gli hezbollah libanesi, con i ribelli gli Stati Uniti e la «coalizione», dagli inglesi ai sauditi. Qui siamo già a tre conflitti, Assad/ribelli, Usa/Russia, sciiti/sunniti, cui vanno aggiunti l’Isis, contro cui agisce una diversa coalizione, Italia inclusa, e ancora Turchia, curdi, al Qaeda…
La tragedia in Siria è un esempio perfetto di quella che gli scienziati chiamano «teoria della complessità», astrusa e affascinante disciplina che tratta con la stessa disinvoltura matematica e economia, biologia e linguistica, epidemiologia e informatica. La vecchia scienza credeva nell’idea di Laplace, fissata nel 1814 e così descritta dalla professoressa Melanie Mitchell nel saggio Complexity: A Guided Tour: «Date le leggi di Newton e la corrente posizione e velocità di ogni particella dell’universo, è possibile, in linea di principio, prevedere ogni evento, per l’eternità».
L’ambiziosa speranza del marchese Laplace è datata 1814, giusto un anno prima che il Congresso di Vienna imponesse all’Europa regimi che, come le particelle dell’universo, dovevano restare fissati per sempre. La rivoluzione del 1848 li travolge in politica, mentre in fisica tocca aspettare il 1927, il principio di Heisenberg e la fisica dei quanti, per riconoscere che nell’universo, come nella storia, soffia forte il random, il caso, e addio sicurezza ferrea delle previsioni.
Einstein era certo, «Dio non gioca ai dadi»; Dio sembra invece divertirsi molto con il caso e la teoria della complessità prova adesso a riconoscere con quali regole, intrecciando i dati della biologia, della fisica, i calcoli matematici, i risultati di scienze umane e sociali, l’economia, per orientarsi nel caos, o almeno sapere quando non abbiamo nessuna rotta credibile.
Il blog Slate lancia in questi giorni A Crude Look at Whole: The Science of Complex System in Business, Life, and Society, ultimo libro dello studioso John H. Miller, confrontando la complessità con la riottosa America della campagna elettorale 2016. Miller e la Mitchell presentano esempi così disparati da lasciare, dapprima, di stucco il lettore. Cosa unirà mai un formicaio, le Borse mondiali, il funzionamento del nostro sistema immunitario, il moto dell’universo, i neuroni del cervello, l’evoluzione della vita sulla Terra, il web?
Un tempo, sui libri di scuola, ogni disciplina era fissata con rigore, «la matematica non è un’opinione» dicevano severi i professori, ma con la complessità nulla è così lineare, nella scienza, e in politica ci sono strappi, passaggi random che rendono le previsioni ardue, per la Casa Bianca come per la Borsa. La domanda della Mitchell ci strega in questo confuso XXI secolo: «Perché mai tutti questi sistemi della natura che chiamiamo complessi - cervelli, colonie di insetti, il sistema immunitario, le cellule, l’economia globale, l’evoluzione biologica - producono comportamenti e si adattano in modo tanto complesso, a partire da poche regole comuni?».
E se queste «regole comuni» ai grandi sistemi esistono, saremo un giorno in grado di analizzarle e governarle? Potremo comprendere come il caso, un effimero cambiamento cellulare, possa produrre risultati macroscopici nelle specie animali o come una guerra locale a Damasco basti a infiammare il pianeta? Potremo programmare un computer «totale», capace di pensare?
Molti scienziati son certi di sì, progettano macchine pronte a lavorare per noi o, come aveva previsto Italo Calvino nel 1967, perfino a «scrivere romanzi». Però, con contraddizione tipica della complessità, il mito dell’Intelligenza artificiale è prima denunciato dal fisico Hawking come «l’ultima cosa che l’uomo farà», perché le macchine si ribelleranno al creatore sterminando l’Homo sapiens, poi, con meno spirito di fantascienza, deprecato dai suoi pionieri che temono un’ondata di disoccupazione. La scorsa settimana è stata fatta circolare dal Future of Life Institute, in Massachusetts, una lettera aperta con oltre 10.000 firme di scienziati: denunciano ai governi che le future macchine intelligenti lasceranno milioni di persone senza lavoro, impiegati, tecnici, operai, producendo povertà di massa e gravissima instabilità sociale (http://goo.gl/Bcbkop).
Da generazioni l’America non era inquieta e ferita come in questa stagione. Straordinario dunque che si appassioni giusto alla teoria della complessità, che ci mette in guardia dalla facilità con cui insignificanti fenomeni, a prima vista senza importanza alcuna, in un nonnulla distruggano comunità che si consideravano formidabili.
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Gianni Riotta