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una manovra
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La scorsa settimana è passato inosservato un fatto piuttosto significativo: la missione annuale di sorveglianza sull’Italia del Fmi è terminata senza la tradizionale «pagella». Gli economisti del Fmi hanno concluso che il governo non aveva ancora definito in modo chiaro le proprie linee di politica economica e il giudizio è stato rinviato a ottobre. Effettivamente, a due mesi dalla sua formazione, le linee del governo soprattutto in materia di conti pubblici restano del tutto indefinite. Quale sarà l’obiettivo per il deficit per il 2019 e come sarà possibile riconciliare le promesse del contratto di governo con i vincoli di bilancio? Cerchiamo di capirlo partendo da qualche numero.
Quest’anno il deficit (la differenza tra spese pubbliche e entrate) dovrebbe attestarsi intorno all’1,6 per cento del Pil, secondo il quadro definito in aprile dal governo precedente (forse un po’ di più visto l’aumento dei tassi di interesse e il rallentamento nella crescita ma non complichiamo le cose). Il prossimo anno avevamo promesso all’Europa di scendere allo 0,9 per cento, obiettivo da raggiungere facendo scattare le clausole di salvaguardia (in primis l’aumento dell’Iva).
Una cosa sappiamo: questo governo non le farà scattare. Senza di loro il deficit per il 2019 salirebbe più o meno al livello di quest’anno. In uno dei suoi recenti interventi Tria ha indicato che questa sarebbe la sua intenzione: mantenere il deficit invariato (Tria parlava del deficit strutturale il che è un po’ diverso ma non entriamo in tecnicismi). Il problema è che questa posizione non lascia spazio né per le azioni previste dal contratto di governo (reddito di cittadinanza, flat tax, controriforma Fornero) né per l’aumento degli investimenti pubblici caro allo stesso Tria. Che fare?
Credo il governo, per evitare l’immediata reazione dei mercati, cioè un aumento dello spread, non presenterà una legge di bilancio palesemente insensata. Ma dovrà comunque dare qualcosa al proprio elettorato. Secondo me farà due cose. La prima è aumentare il deficit di qualche decimo di punto, magari portandolo al 2-2,1 per cento. Questo è il livello medio del 2016-2018, è insomma una cosa che può essere presentata come non troppo diversa, in termini di saldi, da quello fatto da Renzi («perché lui si e noi no?»). Secondo, adotterà ipotesi ottimistiche su alcune variabili fondamentali: sulla crescita del Pil (più crescita vuol dire più entrate), sull’inflazione (più inflazione fa crescere il Pil nominale e riduce il rapporto tra debito e Pil) e sulle entrate attese dalla pace fiscale (nonostante i recenti moniti di Tria in proposito). Questo consentirebbe di raggranellare 20-30 miliardi, cui si potrebbero aggiungere il riciclo di risorse già esistenti (i 10 miliardi degli 80 euro di Renzi, le spese per il reddito di inclusione che sarebbe inglobato in un inizio di reddito di cittadinanza) e qualche taglio di spesa (impossibile che Salvini non tagli le spese per i migranti). Certo, una parte di queste risorse andrebbe a finanziare le cosiddette «spese indifferibili» (voci di spesa che vengono rifinanziate di anno in anno, come le missioni all’estero) e la maggior spesa per interessi causata dall’aumento dello spread avvenuto da metà maggio. Ma resterebbe qualcosa di importante per finanziare nuove iniziative in linea col contratto.
Come reagirebbe l’Europa a una politica di questo genere, l’ennesimo rallentamento o inversione nel percorso di avvicinamento al pareggio di bilancio richiesto dalle regole europee? Non credo ci sarebbero troppo rischi nell’immediato. La Commissione Europea non potrebbe iniziare subito una procedura di deficit eccessivo in assenza di un dichiarato intento di eccedere il tetto del 3 percento. Potrebbe intervenire solo nella prossima primavera alla luce dei dati finali per il 2018. Ma mi sembra improbabile che la Commissione intervenga alla vigilia delle elezioni europee del maggio 2019. I tempi sarebbero quindi lunghi.
Come reagirebbero i mercati finanziari? Nell’immediato la reazione potrebbe non essere troppo negativa. Magari ci sarebbe un aumento dello spread ma, in assenza di un evento che focalizzi l’azione della miriade di operatori di cui il mercato è composto (vedi sotto), il temuto balzo dello spread in un «territorio di non ritorno» potrebbe essere rinviato.
Tutto a posto dunque? Per niente. La politica sopra descritta allontanerebbe il deficit dal quel sentiero di discesa decisa che è assolutamente necessario raggiungere per mettere al sicuro i conti pubblici, ciò per evitare che il minimo scossone che ci arriva dall’esterno porti a un nuovo aumento del rapporto debito e Pil e quindi a un’immediata crisi di fiducia nella possibilità per l’Italia di restare solvente senza lasciare l’euro. Un qualunque shock recessivo scatenerebbe un attacco speculativo e un aumento dello spread che trasformerebbe una piccola recessione in una crisi profonda, una crisi da cui sarebbe più difficile uscire che nel 2011. Questa è la debolezza dell’Italia e i piani del governo, seppure mediati da Tria, seppure tollerati dall’Unione Europea, seppure in assenza di un’immediata reazione dei mercati, porterebbero a un aumento, non a una riduzione, dei rischi che fronteggiamo. Dobbiamo solo sperare di essere fortunati e che l’economia europea continui a crescere nei prossimi anni. Se questo non avverrà, saranno guai.
Carlo Cottarelli