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Nel giardino dell’abbazia si recuperano le antiche varietà
Nel giardino dell’abbazia si recuperano le antiche varietà
Il meleto dell’abbazia di Vezzolano ad Albugnano (Asti) compie 22 anni. È una storia antica fatta di mani, sapienza, amore. In quel meleto, nato nel 1996 quasi per scherzo da un comitato di amici con la benedizione di Paola Salerno, Soprintendente ai Beni architettonici del Piemonte, si trovano le più antiche varietà di mele piemontesi. Un «saluto giocoso» avvisa il visitatore: «Benvenuto pellegrino che sei giunto da Torino, dall’Europa, da lontano, per mirare Vezzolano… nel frutteto i cultivar più svariati puoi trovar. Sono mele di un passato davvero ritrovato nello sguardo di chi cura la memoria e la natura».
Guai a dire: «A son mac pom» (sono solo mele), come fece un paesano all’inaugurazione, offendendo un po’ i nobili e gli studiosi riuniti in comitato: Roberto Radicati, Ludovico Radicati di Brozolo, il professore universitario Dario Rei, Leonardo Mosso di Cerreto, Claudio Caramellino e il «papà» delle mele, il chierese Luigi Dorella, alfiere del paesaggio monferrino, che a 86 anni cura ancora il frutteto. I «pom» sono diventati gustosi e famosi. Le piante sono una cinquantina, le varietà 24. Il meleto è stato preso a esempio dagli svizzeri ed è diventato strumento didattico. «Il meleto è nato per recuperare un patrimonio storico, per strappare all’oblio una tradizione piemontese. Nessuno ha pensato a un profitto economico: non business ma cultura», spiega il sociologo Dario Rei.
Eccola la scommessa del giardino delle mele nato all’ombra dell’abbazia di Santa Maria di Vezzolano. Recuperare quelle antiche varietà. Passeggiando nel frutteto in prima fila, come compagne di scuola, ci sono le mele Carla e la rossa Calvilla. Poi la «Ciocarina» che tra le mani sembra tintinnare come un sonaglino. Per la gioia degli agri-chef ecco il pom Rusnent e con cui si cucina la torta monferrina. In terza fila il pom dla Bota e la Matan che nelle vecchie cascine conservavamo nelle damigiane o in cassette al buio. Ogni pianta ha la sua targhettina con i nomi piemontesi: si passa dal pom del re ( piaceva a Carlo VIII e casa Savoia) al pom ad San Gioann, dal vanitoso pom Marcon al pom Giraudet.
Molto di questo meleto si deve a Luigi Dorella che alla natura ha dedicato la sua vita. Conosce il linguaggio che nasce dal cuore ed entra in empatia con animali e piante. Mentre pota e insegna l’arte dell’innesto spiega: «Mai avvicinarsi ad una pianta brandendo le forbici, bisogna procedere con determinazione, ma con calma e rida pure chi non ci crede ma se si mormora alla pianta qualche parola d’amore, rassicurandola, la potatura riesce e l’albero dona fiori e frutti». Per arricchire il meleto è andato su e giù per le vigne, negli orti, nei prati. «I contadini mangiavano la frutta e buttavano via il torsolo, per questo in campagna ci sono piante selvatiche». Dorella, per 22 anni, ha curato il frutteto fortificandolo e trasformandolo in una meraviglia.
selma chiosso