Italia
I morti
I morti
La Spoon River della torre in m ezzo al mare
Le storie delle sette vittime dell’incidente, ancora due corpi da ritrovare. All’obitorio arrivano disperati da tutta Italia i parenti per i riconoscimenti
Dormono, dormono in fondo al mare, in questa Spoon River del porto di Genova fatta di lacrime e strazio e ricerche vane anche questa seconda notte. Dormono ancora in fondo al mare il sergente Gianni Jacoviello, 33 anni della Spezia, e il suo collega della Capitaneria di porto il maresciallo Francesco Cetrola, 38 anni, ufficialmente dispersi, rimasti intrappolati nell’ascensore della Torre del porto che i sommozzatori dei vigili del fuoco e della capitaneria non hanno ancora trovato. «Preghiamo affinchè siano ancora vivi», si aggrappa a quel che può il sindaco di Santa Marina in provincia di Salerno da dove era partito anni fa il maresciallo Cetrola. L’ascensore che avevano appena preso a fine turno, per lasciare quella torre alta cinquanta metri dev’essere da qualche parte in fondo al mare, dodici metri di acqua e di cemento e vetri e ferro e detriti dove si vede il nulla più nero.
Era bello vedere Genova da lassù. La lanterna a destra, il mare davanti, ma quelle navi grandi come mostri erano troppo vicine, maledettamente vicine. Il militare della Guardia costiera Daniele Fratantonio che aveva 30 anni e veniva da Rapallo lo aveva messo anche su Facebok un anno fa. La nave passeggeri che aveva fotografato era così vicina che quasi si poteva toccarla. «Se tu vedi passare una nave a questa distanza... cosa pensi?», aveva chiesto. E chissà cosa deve avere pensato quando si è visto la nave addosso al suo ufficio tra il mare e il cielo.
All’Istituto di medicina legale dell’ospedale San Martino di Genova, Daniele Fratantonio è il primo ad arrivare. Sua madre con la maglietta nera e le sneakers bianche piange e si dispera e bestemmia ad alta voce: «Dio... Dio perchè te lo sei preso?». Il suocero giura che lui non voleva altro, non sognava che il mare da quando aveva fatto il militare a Santa Margherita ligure e poi aveva rinnovato la ferma per sette anni fino a diventare un anno fa operatore alla torre di controllo.
Arrivano alle due del pomeriggio con due pullmini della guardia costiera i parenti delle vittime. La madre di Davide Morella che a 33 anni portava la divisa con orgoglio è venuta qui da Biella vestita tutta di nero. Una psicologa dell’ospedale con la pettorina gialla le tiene la mano e le chiede di non entrare a vedere lo scempio che hanno fatto il ferro e il cemento. Basterebbero poche cose ritrovate e non quel che resta del corpo, per il riconoscimento, straziante ma pietoso. «E’ mio figlio, voglio almeno stringergli la mano, sono forte io, non si preoccupi lei...», dice per dieci minuti questa donna che non si ferma davanti a niente. Nemmeno al figlio che la tira per la manica e che lei incenerisce con una frase che solo le mamme possono dire: «Zitto tu... Stai al tuo posto...».
Nessuno fa silenzio in questo cortile tra il sole e la pioggia. I genitori del pilota Michele Robazza che aveva 45 anni e lascia due bambini di otto e sette anni sono corsi qui da Livorno. Amava così tanto il mare e la sua città che ogni giorno faceva su e giù dalla Liguria alla Toscana. E in fondo al mare dove nemmeno doveva esserci, più lui di tutti quanti, hanno trovato il suo corpo. Perchè l’altra sera Mike come lo chiamavano tutti non doveva essere in servizio. Aveva chiesto il cambio a un suo collega, Bruno Prinz, 70 anni, che si è salvato per uno di quei casi della vita e adesso è lui anche qui all’obitorio che piange e abbraccia i colleghi e i parenti. «Anche i limoni del suo orto in Toscana che mi aveva promesso adesso saranno rimasti in fondo al mare... Se fossi passato a prenderli non sarei vivo».
Chissà se piacevano anche al sottocapo della Guardia costiera Giuseppe Tusa, 25 anni originario di Milazzo in Sicilia, i limoni di Mike. A Milazzo sono rimasti i suoi genitori che non ce l’hanno ancora fatta ad essere qui. E la sua fidanzata che fa l’avvocato e che ogni week end se lo trovava davanti perchè dopo il mare il sottocapo Giuseppe Tusa amava la musica e si faceva chiamare Giuppy Black quando faceva il disc jokey nei locali della sua zona. «Alla radio ci sapeva fare», dicono i suoi colleghi e non si capisce se pensano alla musica o agli ordini che impartiva alle navi di passaggio, così maledettamente vicine alla torre che non c’è più, sommersa a metà nell’acqua dove spunta lo scheletro della cabina, 165 metri quadri di vetro scintillante ora ridotto a una bara di metallo blu contorto.
Alla radio a darsi il cambio, ore 23 l’altra sera, il minuto esatto dell’incidente quando la torre e l’ascensore e la scala contorta erano affollati tra chi andava e chi veniva, era Sergio Basso, 50 anni di Genova, operatore radio rimorchiatori della Società rimorchiatori riuniti. Un «torrettista» lo chiamavano. Uno che via radio conoscevano tutti e che parlava con quell’inconfondibile accento ligure che lontano da qui magari faceva un po’ ridere e che adesso a non sentirlo più fa solo piangere.
Nella palazzina gialla dell’Istituto di medicina legale dove faranno le autopsie si fa la fila per entrare. Gli psicologi tengono per mano i famigliari delle vittime. I carabinieri registrano nomi e insieme ai militari della capitaneria cercano di tenere le fila di questa tragedia.
Ogni tanto si sente un accento toscano. Sono i parenti di Marco De Candussio, 40 anni di Lavagna ma nato a Barga in provincia di Lucca. Dopo essere stato per dieci anni a comandare la Guardia di costiera di Lavagna era salito sulla torre che ogni tanto faceva vedere con orgoglio a suo figlio che ha 13 anni e al quale nessuno ha ancora avuto il coraggio di dire che suo padre non c’è più. «E’ a scuola come sempre... Come in un giorno normale...», racconta una zia bionda con il golfino chiaro mentre trattiene le lacrime e si capisce che fa fatica perché non c’è niente di normale a morire in un giorno così per un incidente di cui si accerteranno responsabilità, si cercheranno colpe e colpevoli ma alla fine quello che si troverà è solo un mare di lapidi.
In questa Spoon River del mare qualcuno è entrato di violenza, con una chiamata al telefono nel cuore della notte. Altri hanno sperato fino all’ultimo. Altri si sono illusi. Ma uno di loro era quasi sicuro di potere ritrovare suo padre. Federico, il figlio ventenne dell’operatore radio piloti Maurizio Potenza, 50 anni di Genova, era stracontento quando gli avevano detto che suo padre ce l’aveva fatta. «Lo hanno ritrovato... Non è messo bene ma è vivo... E alla fine è quello che conta...», ripeteva giù al porto al mattino, quando come tutti aspettava una notizia, una bella notizia attesa per una notte, alla luce delle fotoelettriche dei pompieri che frugano in quel castello diroccato di cemento e ferro così fragile che sembra possa crollare del tutto come nel gioco dello shangai. Nel cortile dell’ospedale ci sono gli psicologi e una brutta notizia. Quella che gli avevano evitato per compassione o perchè non si sapeva bene. Federico Potenza esce dall’obitorio che piange ma pare già rassegnato. «In faccia è bello... Ha una benda in testa ma è ancora bello...». E sembra già immaginare quella foto sulle lapidi di questa Spoon River del mare, un mare così calmo ma non ancora placato che deve restituire altri due corpi finiti chissà dove, in questi dodici metri profondi come la fossa di un cimitero.
Fabio Poletti