Contano i voti, non solo le percentuali
Già le elezioni politiche si erano concluse con un sorpasso in discesa e di esigua misura del centrosinistra sul centrodestra, cioè con il contemporaneo arretramento di entrambi e con un bel 25% di elettorato risucchiato dall'astensione. Sono passati pochi mesi e la cosa si ripete ancora peggiorata. Eppure non sembrerebbe, stando alle dichiarazioni trionfanti in particolare degli esponenti del centrosinistra. Il pericolo grillino appare momentaneamente ridimensionato, ma la disaffezione alle urne sale alle stelle.
Prendiamo il test più significativo, quello di Roma, dove almeno si è manifestato un largo distacco tra Marino e Alemanno e dove purtroppo Sandro Medici, schierato alla sinistra di Marino, non ha raggiunto il quorum per entrare in consiglio comunale. Dunque parrebbe un tripudio per il centrosinistra. Ma non lo è se i voti si contano per davvero.
Come si faccia, quindi, a trarre da queste elezioni amministrative (anche gli altri capoluoghi confermano tendenze analoghe) la conferma di uno stato di salute vigoroso del centrosinistra e per di più sposarlo con il contemporaneo rafforzamento del governo delle larghe intese rimane un mistero politico e aritmetico. Ma più semplicemente si tratta di un'ulteriore perdita di senso della realtà da parte delle elite dirigenti.
L'unica cosa che sembra contare sono le percentuali. Tranne che nel caso del referendum bolognese sui finanziamenti alle scuole private, dove invece i perdenti, con in testa il Pd, si lamentano della scarsa partecipazione al voto, peraltro da loro stessi promossa. La ragione è semplice. Sono le percentuali a determinare comunque l'elezione dei candidati, mentre delle tendenze di lungo corso - riscontrabili solo nell'andamento dei voti effettivi - che mostrano il distacco crescente della popolazione dall'attuale offerta politica e la crisi di credibilità delle formazioni in campo, sembra non curarsi nessuno. Dio acceca chi vuole perdere.