Cultura
Andrea Camilleri
Andrea Camilleri
Montalbano nella foresta di Rousseau il Doganiere
In anteprima il nuovo giallo Un covo di vipere, una fosca storia
che prende le mosse dal caso di un morto ammazzato due volte
In anteprima il nuovo giallo Un covo di vipere, una fosca storia
che prende le mosse dal caso di un morto ammazzato due volte
Che la ’ntricata foresta dintra alla quali lui e Livia si erano vinuti ad attrovari, senza sapiri né pircome né pirchì, fosse virgini non c’era nisciun dubbio pirchì ’na decina di metri narrè avivano viduto un cartello di ligno ’nchiovato al tronco di un àrbolo supra il quali ci stava scrivuto con littre marchiate a foco: foresta vergine. Parivano Adamo ed Eva in quanto erano tutti e dù completamenti nudi e si cummigliavano le cosiddette vrigogne, le quali, a pinsarici bono, non avivano nenti di vrigognoso, con le classiche foglie di fico che si erano accattate da ’na bancarella all’entrata a un euro l’una ed erano fatte di plastica. Siccome erano rigide, davano tanticchia di fastiddio. Ma quello che cchiù fastiddiava era il caminare a pedi nudi.
A mano a mano che Montalbano procidiva, sempri cchiù si faciva pirsuaso che in quel posto c’era già stato ’na vota. Ma quanno? La testa di un lioni ’ntravista ’n mezzo all’àrboli, che non erano àrboli ma felci gigantesche, gli fornì la spiegazioni.
«Lo sai, Livia, dove ci troviamo?».
«Lo so, in una foresta vergine. C’era il cartello».
«Ma si tratta di una foresta dipinta!».
«Come dipinta?».
«Siamo dentro al Sogno di Yadwigha, il celebre quadro di Rousseau il Doganiere!».
«Ma ti sei ammattito?».
«Vedrai se non ho ragione, tra un poco dovremmo imbatterci in Yadwigha».
«E come mai conosci questa donna?» spiò Livia sospittosa.
E ’nfatti, doppo picca, s’imbattero in Yadwigha che, a vidirli, sinni ristò supra al divano, stinnicchiata nuda com’era, ma si portò l’indici al naso facenno ’nzinga di stari ’n silenzio e dissi: «Sta per cominciare».
Supra a un ramo si posò ’n aceddro, forsi un usignolo. Fatto ’na speci d’inchino all’ospiti, attaccò Il cielo in una stanza.
L’usignolo era cchiù che bravo a cantare, ’na sdillizia, faciva modulazioni squasi ’mpossibbili macari a Mina, era chiaro che ’mprovisava, ma con una fantasia d’autentico artista.
Po’ ci fu un botto, un secunno, un terzo cchiù forti di tutti e Montalbano s’arrisbigliò.
Santianno, accapì che era scoppiato un grannissimo temporali. Uno di quelli che segnano la morti della stati.
Ma com’è che ’n mezzo a tutta quella battaria continuava a sintiri, e da vigliante, all’aceddro che cantava Il cielo in una stanza? Non era possibbili.
Si susì, taliò il ralogio, erano le sei e mezza del matino. S’addiriggì verso la verandina, la friscata proviniva da quella parte. E non si trattava di ’n aceddro, ma di un omo che sapiva friscare come a ’n aceddro. Raprì la porta-finestra.
Nella verandina, corcato ’n terra, ci stava un cinquantino malo vistuto, la giacchetta strazzata, la varba longa che pariva Mosè, ’na massa di capiddri cinirini arruffati. Allato a lui, un sacco. Un vagabunno, era chiaro.
Appena che vitti a Montalbano, si susì a mezzo e dissi: «L’ho svegliata? Mi scusi. Mi sono riparato qua per la pioggia. Se le do fastidio, vado via».
«Ma no, resti pure» fici il commissario.
Era ristato colpito da come parlava quell’omo. A parti il taliàno pirfetto, era la sò voci educata che gli aviva fatto ’mpressioni.
Gli parse malo chiuirigli la porta-finestra ’n facci, perciò la lassò mezza aperta e si annò a priparare il cafè.
Si era vivuta la prima cicarata, quanno gli venni ’na speci di rimorso. Ne inchì ’n’autra e la portò all’omo.
«Per me?» spiò quello sbalorduto, susennosi addritta.
«Sì».
«Grazie, grazie!».
Mentri s’arricriava sutta alla doccia, pinsò che forsi quel povirazzo va a sapiri da quann’era che non si lavava. Quanno ebbi finuto, tornò nella verandina. Chioviva della bella.
«Se la vuole fare una doccia?».
L’omo lo taliò ’mparpagliato.
«Dice sul serio?».
«Sul serio».
«Non sogno altro, sa? Lei non immagina quanto gliene sarò grato».
Ennò, quell’omo parlava troppo bono per essiri quello che appariva. Lo scanosciuto si calò a pigliari il sacco e seguì il commissario. Ma se era uno ’struito, aducato, come mai si era arriduciuto accussì?
Quanno niscì dal bagno, l’omo si era cangiato la cammisa, macari chista però coi polsini e il colletto sfilacciati. Sorridì a Montalbano.
«Mi sento ringiovanito».
E po’, facenno un mezzo ’nchino:
«Permette? Mi chiamo Savastano».
«Piacere. Montalbano» fici il commissario pruiennogli la mano.
L’autro, prima di stringirgliela, fici un gesto ’stintivo: si passò il palmo supra ai cazùna, come per puliziarlo. Sorridì ancora, gli ammancava un denti di davanti.
«La conosco, sa? Una sera, in un bar, l’ho vista in televisione».
«Senta» tagliò Montalbano. «Io devo andare in ufficio».
L’omo accapì a volo. Si calò a pigliari il sacco, niscì nella verandina.
«Le dispiace, commissario, se resto ancora qua fino a che spiove? La mia diciamo abitazione è a due passi, ma con questa pioggia… Lei perciò chiuda pure».
«Senta, se vuole l’accompagno con la mia macchina».
«Grazie, ma le verrebbe difficile».
«Perché?».
«Abito in una grotta a mezza costa nella collina di marna proprio dietro la sua casa».
Certo, stari dintra a ’na grutta era sempri meglio che corcarisi cummigliato di cartoni sutta alle colonne del municipio.
«Resti quanto vuole. Arrivederla».
Cavò fora dalla sacchetta il portafogli, pigliò un biglietto di vinti euri, lo pruì all’omo.
«No, grazie, lei ha già fatto anche troppo per me» arrefutò quello arresoluto.
Montalbano non insistì.
Chiuienno la porta-finestra sintì che l’omo aviva ripigliato a friscari.
Per essiri bravo, era bravo. Squasi quanto l’usignolo del sogno.
Andrea Camilleri