La più alta a Savona...
martedì 30 aprile 2013
Situation dall'alto: mar Ligure sgombro
Ponente, grigiume che prepara una pausa delle piogge...
Nord Ovest, dove piove...
Italia senza Padri. Dai Nonni ai Nipoti, saltando i Padri...
Da La Stampa
Non è un Paese
per i Padri
Dai Nonni ai Nipoti, saltando la generazione di mezzo
La cronaca politica italiana conferma un fenomeno da tempo segnalato da psicologi e psicoanalisti
Nonno e nipote. Quarantun anni separano Giorgio Napolitano da Enrico Letta. Se una generazione conta venticinque anni, qui ci sono quasi due generazioni di distanza. Qualcosa è accaduto, anche simbolicamente, nel nostro Paese in questi mesi, se dalla generazione dei nonni si è passati a quella dei nipoti, saltando invece a piè pari i padri.
Da tempo gli psicologi e gli psicoanalisti ce lo segnalano: i padri oggi mancano; la loro autorità simbolica ha perso peso, e di fatto si è eclissata. Il padre tradizionale, autoritario, dominatore, castratore, secondo la vulgata freudiana, Kronos che divora i propri figli dopo averli dominati, è scomparso. Nel Sessantotto i Figli hanno dato l’assalto all’autorità in ogni sua manifestazione: religiosa, politica, sociale, accademica, famigliare, sessuale. La critica antiedipica dei movimenti giovanili nel Maggio del 1968, e poi nella primavera del 1977, ha mandato in frantumi la figura dominante del Padre-Padrone: il sistema patriarcale è finito di colpo, e con lei la struttura stessa delle gerarchie tradizionali.
Pasolini lo aveva capito con chiarezza, e nelle sue Lettere luterane tentava un nuovo approccio pedagogico con Gennariello, il nuovo adolescente. Da allora, dalla fine degli Anni Settanta, i padri hanno cominciato a latitare. Nel 2011 Massimo Recalcati, psicoanalista di scuola lacaniana, in un suo saggio, Cosa resta del padre? (Cortina editore), ha descritto il cambiamento in corso, che sembra aver raggiunto il suo culmine proprio in questi giorni, orientando la forma stessa dell’autorità politica e statale. La composizione del governo Letta è stata salutata nei titoli dei giornali per la presenza di donne e soprattutto per la bassa età di molti dei suoi ministri. Prima di arrivare a questa soluzione, voluta fortemente dal Nonno Napolitano, si è cercato di eleggere dei Padri alla Presidenza della Repubblica: Franco Marini, Romano Prodi, e anche il più anziano Stefano Rodotà, che rappresentavano la generazione di mezzo tra il vecchio Presidente e il giovane presidente.
Secondo Gustavo Pietropolli Charmet, che da tempo studia le trasformazioni del mondo adolescenziale italiano (La paura di essere brutti. Gli adolescenti e il corpo, Cortina editore 2013), la sconfitta di Luigi Bersani è attribuibile, almeno dal punto di vista simbolico, alla sua incapacità d’incarnare una figura paterna, mentre Napolitano ha assunto il ruolo di Padre-Nonno accuditivo che interviene per placare la lotta tra i fratelli. Non il padre punitivo, bensì un padre dai tratti quasi materni, che provvede a separare i fratelli che si contendono il corpo della Madre-Patria, in un eccesso di litigiosità, fino ad agitare il fantasma sempre risorgente nella comunità umana della guerra civile.
Affidando al giovane Letta, il fratello più giovane della compagine fraterna, il governo del Paese, il Nonno-Padre ha inteso sancire, dice Pietropolli Charmet, un principio di giustizia al di sopra delle parti, o almeno di due delle tre fazioni in cui è diviso, dopo il voto di febbraio, il Parlamento. La lettura che lo psicoterapeuta fornisce delle ultime vicende italiane è quello dello scontro tra adolescenti, tra spavaldi e insieme fragili ragazzi, che non provano più un vero senso di colpa (il Padre è morto), ma piuttosto un alterno senso di vergogna: Narciso ha preso il posto di Edipo. Adolescenti narcisistici sono per Pietropolli Charmet il giovane Matteo Renzi e anche il più anziano Beppe Grillo, entrambi liberati dal senso di colpa verso l’autorità dei padri («Vi rottamiamo», afferma il primo; «Siete morti», urla il secondo), dediti alla continua valorizzazione del proprio Sé.
Per completare il quadro di una lettura psicologica della politica italiana, si può aggiungere la figura dello Zio trasgressivo, incarnata da Silvio Berlusconi, scavezzacollo, irresponsabile, play boy seduttore, privo di freni inibitori, che ha fatto, come scrive Recalcati in Il complesso di Telemaco (Feltrinelli 2013), del godimento un imperativo assoluto, un elemento che s’impasta con l’istinto di morte. Più di trent’anni fa, Pier Paolo Pasolini ha rappresentato tutto questo nei libertini del suo film Salò-Sade.
L’atto compiuto da Napolitano di passare il testimone al «nipote» Letta, reso palpabile dalla fotografia diffusa dalle agenzie, in cui il vecchio Presidente si protende felice nello stringere la mano al «nipotino», è il tentativo di bloccare una deriva pericolosa, almeno dal punto di vista simbolico, instaurata dal conflitto tra i fratelli-adolescenti, che oscillano tra la rivalità totale di Edipo e l’isolamento autistico di Narciso. Privi di figure paterne in grado di richiamare i figli all’ordine della Legge, il Padre accuditivo, Nonno quasi materno, ha cercato la tregua. Un gesto che tuttavia non sappiamo se avrà gli esiti che si propone, ovvero quelli di svelenire la lotta politica degli ultimi vent’anni.
Tuttavia l’elezione di papa Francesco sembra andare nella medesima direzione: la ripresa di una figura paterna che contiene in sé elementi materni, di protezione, tenerezza, parola quest’ultima che Mario José Bergoglio ha usato rivolgendosi ai fedeli. Dio che non è solo Padre, ma anche Madre, come aveva sostenuto nel suo breve regno papa Luciani. Dopo il balcone vuoto annunciato da Nanni Moretti in Habemus papam, in cui Recalcati, psicoanalista lacaniano, vede annunciati i due grandi sintomi del nostro tempo – afasia e amnesia –, sembrerebbe che papa Bergoglio indichi l’inizio di un’epoca nuova. Possiamo interpretare in questo stesso modo la nomina di Enrico Letta a presidente del Consiglio voluta dal Padre-Nonno?
Difficile dirlo. A molti è sembrato un ritorno all’indietro, a un’età politica precedente, quando la mediazione politica democristiana smussava gli spigoli acuti del conflitto, così almeno sino alla crisi degli anni Settanta. Possibile, ma la storia, come sosteneva Hegel, si nutre di astuzie che spiazzano le nostre convinzioni più profonde, e persino le previsioni più accorte.
Non a caso Recalcati, per descrivere la paternità nell’epoca ipermoderna, cita le pagine del romanzo dello scrittore americano Corman McCarthy La strada. Nel libro un figlio e un padre camminano sullo sfondo dell’apocalisse del nostro mondo: è la devastazione totale in un universo senza Padre e senza Dio, in cui la figura adulta si prende cura del giovane ragazzo sino alla fine: «Se io morissi», chiese una volta il figlio al padre, «tu cosa faresti?». «Vorrei morire anch’io», rispose il padre, «per poter restare con te». La cura come antidoto alla lotta e alla sopraffazione, chiosa lo psicoanalista. A questo siamo dunque arrivati? Non più di Padre in Figlio, bensì di Nonno in Nipote.
Marco Belpoliti
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Non è un Paese
per i Padri
Dai Nonni ai Nipoti, saltando la generazione di mezzo
La cronaca politica italiana conferma un fenomeno da tempo segnalato da psicologi e psicoanalisti
Nonno e nipote. Quarantun anni separano Giorgio Napolitano da Enrico Letta. Se una generazione conta venticinque anni, qui ci sono quasi due generazioni di distanza. Qualcosa è accaduto, anche simbolicamente, nel nostro Paese in questi mesi, se dalla generazione dei nonni si è passati a quella dei nipoti, saltando invece a piè pari i padri.
Da tempo gli psicologi e gli psicoanalisti ce lo segnalano: i padri oggi mancano; la loro autorità simbolica ha perso peso, e di fatto si è eclissata. Il padre tradizionale, autoritario, dominatore, castratore, secondo la vulgata freudiana, Kronos che divora i propri figli dopo averli dominati, è scomparso. Nel Sessantotto i Figli hanno dato l’assalto all’autorità in ogni sua manifestazione: religiosa, politica, sociale, accademica, famigliare, sessuale. La critica antiedipica dei movimenti giovanili nel Maggio del 1968, e poi nella primavera del 1977, ha mandato in frantumi la figura dominante del Padre-Padrone: il sistema patriarcale è finito di colpo, e con lei la struttura stessa delle gerarchie tradizionali.
Pasolini lo aveva capito con chiarezza, e nelle sue Lettere luterane tentava un nuovo approccio pedagogico con Gennariello, il nuovo adolescente. Da allora, dalla fine degli Anni Settanta, i padri hanno cominciato a latitare. Nel 2011 Massimo Recalcati, psicoanalista di scuola lacaniana, in un suo saggio, Cosa resta del padre? (Cortina editore), ha descritto il cambiamento in corso, che sembra aver raggiunto il suo culmine proprio in questi giorni, orientando la forma stessa dell’autorità politica e statale. La composizione del governo Letta è stata salutata nei titoli dei giornali per la presenza di donne e soprattutto per la bassa età di molti dei suoi ministri. Prima di arrivare a questa soluzione, voluta fortemente dal Nonno Napolitano, si è cercato di eleggere dei Padri alla Presidenza della Repubblica: Franco Marini, Romano Prodi, e anche il più anziano Stefano Rodotà, che rappresentavano la generazione di mezzo tra il vecchio Presidente e il giovane presidente.
Secondo Gustavo Pietropolli Charmet, che da tempo studia le trasformazioni del mondo adolescenziale italiano (La paura di essere brutti. Gli adolescenti e il corpo, Cortina editore 2013), la sconfitta di Luigi Bersani è attribuibile, almeno dal punto di vista simbolico, alla sua incapacità d’incarnare una figura paterna, mentre Napolitano ha assunto il ruolo di Padre-Nonno accuditivo che interviene per placare la lotta tra i fratelli. Non il padre punitivo, bensì un padre dai tratti quasi materni, che provvede a separare i fratelli che si contendono il corpo della Madre-Patria, in un eccesso di litigiosità, fino ad agitare il fantasma sempre risorgente nella comunità umana della guerra civile.
Affidando al giovane Letta, il fratello più giovane della compagine fraterna, il governo del Paese, il Nonno-Padre ha inteso sancire, dice Pietropolli Charmet, un principio di giustizia al di sopra delle parti, o almeno di due delle tre fazioni in cui è diviso, dopo il voto di febbraio, il Parlamento. La lettura che lo psicoterapeuta fornisce delle ultime vicende italiane è quello dello scontro tra adolescenti, tra spavaldi e insieme fragili ragazzi, che non provano più un vero senso di colpa (il Padre è morto), ma piuttosto un alterno senso di vergogna: Narciso ha preso il posto di Edipo. Adolescenti narcisistici sono per Pietropolli Charmet il giovane Matteo Renzi e anche il più anziano Beppe Grillo, entrambi liberati dal senso di colpa verso l’autorità dei padri («Vi rottamiamo», afferma il primo; «Siete morti», urla il secondo), dediti alla continua valorizzazione del proprio Sé.
Per completare il quadro di una lettura psicologica della politica italiana, si può aggiungere la figura dello Zio trasgressivo, incarnata da Silvio Berlusconi, scavezzacollo, irresponsabile, play boy seduttore, privo di freni inibitori, che ha fatto, come scrive Recalcati in Il complesso di Telemaco (Feltrinelli 2013), del godimento un imperativo assoluto, un elemento che s’impasta con l’istinto di morte. Più di trent’anni fa, Pier Paolo Pasolini ha rappresentato tutto questo nei libertini del suo film Salò-Sade.
L’atto compiuto da Napolitano di passare il testimone al «nipote» Letta, reso palpabile dalla fotografia diffusa dalle agenzie, in cui il vecchio Presidente si protende felice nello stringere la mano al «nipotino», è il tentativo di bloccare una deriva pericolosa, almeno dal punto di vista simbolico, instaurata dal conflitto tra i fratelli-adolescenti, che oscillano tra la rivalità totale di Edipo e l’isolamento autistico di Narciso. Privi di figure paterne in grado di richiamare i figli all’ordine della Legge, il Padre accuditivo, Nonno quasi materno, ha cercato la tregua. Un gesto che tuttavia non sappiamo se avrà gli esiti che si propone, ovvero quelli di svelenire la lotta politica degli ultimi vent’anni.
Tuttavia l’elezione di papa Francesco sembra andare nella medesima direzione: la ripresa di una figura paterna che contiene in sé elementi materni, di protezione, tenerezza, parola quest’ultima che Mario José Bergoglio ha usato rivolgendosi ai fedeli. Dio che non è solo Padre, ma anche Madre, come aveva sostenuto nel suo breve regno papa Luciani. Dopo il balcone vuoto annunciato da Nanni Moretti in Habemus papam, in cui Recalcati, psicoanalista lacaniano, vede annunciati i due grandi sintomi del nostro tempo – afasia e amnesia –, sembrerebbe che papa Bergoglio indichi l’inizio di un’epoca nuova. Possiamo interpretare in questo stesso modo la nomina di Enrico Letta a presidente del Consiglio voluta dal Padre-Nonno?
Difficile dirlo. A molti è sembrato un ritorno all’indietro, a un’età politica precedente, quando la mediazione politica democristiana smussava gli spigoli acuti del conflitto, così almeno sino alla crisi degli anni Settanta. Possibile, ma la storia, come sosteneva Hegel, si nutre di astuzie che spiazzano le nostre convinzioni più profonde, e persino le previsioni più accorte.
Non a caso Recalcati, per descrivere la paternità nell’epoca ipermoderna, cita le pagine del romanzo dello scrittore americano Corman McCarthy La strada. Nel libro un figlio e un padre camminano sullo sfondo dell’apocalisse del nostro mondo: è la devastazione totale in un universo senza Padre e senza Dio, in cui la figura adulta si prende cura del giovane ragazzo sino alla fine: «Se io morissi», chiese una volta il figlio al padre, «tu cosa faresti?». «Vorrei morire anch’io», rispose il padre, «per poter restare con te». La cura come antidoto alla lotta e alla sopraffazione, chiosa lo psicoanalista. A questo siamo dunque arrivati? Non più di Padre in Figlio, bensì di Nonno in Nipote.
Marco Belpoliti
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Chi pagherà le spese della costosa "agenda Letta"?...
... Viene spontaneo rispondere: i "soliti noti" già bersagliati da Monti...
Da La Stampa
L’agenda Letta? Costa almeno 12 miliardi
Gli interventi su tasse e lavoro di cui ha parlato ieri il premier potrebbero far salire il totale a 20 miliardi
Due le strade per il nuovo esecutivo: tagliare la spesa o rivedere gli impegni presi con l’Europa?
Col tono rassicurante di chi conosce il mestiere (tre figli all’attivo) Enrico Letta l’ha detta così: «faremo le cose possibili secondo il criterio del buon padre di famiglia, quello che non fa mai debiti». Facile a dirsi, difficile a farsi, soprattutto se di mezzo ci sono genitori dalle mani bucate o bambini carichi di desideri. La lista delle misure elencate dal premier, più o meno la somma delle richieste avanzate da Pd e Pdl vale almeno 10-12 miliardi di euro: Imu, Iva, aumento della dotazione del fondo centrale di garanzia per sostenere il credito alle piccole e medie imprese, rifinanziamento della cassa integrazione in deroga e missioni internazionali, conferma dei bonus energetici e per la ristrutturazione edilizia. Fin qui le promesse misurabili. Ma nel discorso programmatico del nuovo premier c’è molto di più: l’introduzione di un reddito di cittadinanza «soprattutto per le famiglie bisognose», il superamento del precariato nella pubblica amministrazione, gli incentivi fiscali all’innovazione tecnologica, il sostegno alla internazionalizzazione delle imprese, la soluzione al problema degli esodati. E poi «la riduzione delle tasse sul lavoro, a partire da quello stabile» e dei giovani. Somma qui, aggiungi là, il conto potrebbe salire rapidamente a 20 miliardi di euro.
Un libro dei sogni di berlusconiana memoria? «Si è fatto un po’ prendere la mano», ammette un amico deputato. Soprattutto se si tiene conto che lui stesso ha promesso di «rispettare gli obiettivi di risanamento presi a Bruxelles» e di voler ottenere la cancellazione della procedura di infrazione per deficit eccessivo vinta dal governo Berlusconi. Eppure l’ultimo documento ufficiale del governo parla chiaro: nel 2013 l’Italia è già molto vicina al tetto del 3%. Che farà dunque il buon padre di famiglia?
Fatti salvi quelli ai costi della politica (irrilevanti rispetto ai grandi numeri) Letta ha evitato accuratamente di pronunciare la parola «tagli». Lo spazio nel bilancio pubblico non mancherebbe, a partire da quell’enorme mole di «contributi alle imprese» - oltre trenta miliardi di euro - che ogni anno vengono distribuiti per metà ad enti e società statali, altrettanto alle Regioni spendaccione. Letta, allievo del rigorista Andreatta, sa bene che fra le pieghe del bilancio ci sono spese che poco hanno a che vedere con il sostegno alla crescita. Le circostanze però non giocano a favore dei rigoristi, almeno non abbastanza da permettere di finanziare ogni nuova spesa secondo il rigido criterio del buon padre di famiglia.
La strada che seguiremo, almeno in parte, sarà un’altra, e anche di questa Letta non ha fatto menzione esplicita: chiedere a Bruxelles la deroga agli impegni che formalmente dice di voler rispettare. Il vicesegretario Pd ne aveva parlato durante le consultazioni in streaming coi grillini, beccandosi la bacchettata del ministro delle Finanze tedesco Schaueble. Ieri è stato più generico: «nelle sedi europee ci impegneremo a individuare strategie per ravvivare la crescita». L’omissione è comprensibile: se Letta avesse fatto cenno all’ipotesi nel discorso di fiducia di fronte alle Camere probabilmente l’incontro di oggi con Angela Merkel - in piena campagna elettorale e pressata dai falchi antieuro - avrebbe preso una brutta piega. Ma è di questo che Letta inizierà a discutere (riservatamente) nel suo imminente tour europeo. In fondo è quel che l’Europa ha già detto di voler concedere e che ha concesso alla Francia prima e alla Spagna dopo. Con una differenza non trascurabile: il nostro debito pubblico (quest’anno toccherà il 130% in rapporto al prodotto) non ci permette uno spazio di manovra ampio. Secondo quanto riferiscono fonti governative il margine di trattativa per quest’anno potrebbe valere mezzo punto di Pil, più o meno otto miliardi, abbastanza per non compromettere la ritrovata fama di buoni padri di famiglia.
Twitter @alexbarbera
alessandro barbera
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Da La Stampa
L’agenda Letta? Costa almeno 12 miliardi
Gli interventi su tasse e lavoro di cui ha parlato ieri il premier potrebbero far salire il totale a 20 miliardi
Due le strade per il nuovo esecutivo: tagliare la spesa o rivedere gli impegni presi con l’Europa?
Col tono rassicurante di chi conosce il mestiere (tre figli all’attivo) Enrico Letta l’ha detta così: «faremo le cose possibili secondo il criterio del buon padre di famiglia, quello che non fa mai debiti». Facile a dirsi, difficile a farsi, soprattutto se di mezzo ci sono genitori dalle mani bucate o bambini carichi di desideri. La lista delle misure elencate dal premier, più o meno la somma delle richieste avanzate da Pd e Pdl vale almeno 10-12 miliardi di euro: Imu, Iva, aumento della dotazione del fondo centrale di garanzia per sostenere il credito alle piccole e medie imprese, rifinanziamento della cassa integrazione in deroga e missioni internazionali, conferma dei bonus energetici e per la ristrutturazione edilizia. Fin qui le promesse misurabili. Ma nel discorso programmatico del nuovo premier c’è molto di più: l’introduzione di un reddito di cittadinanza «soprattutto per le famiglie bisognose», il superamento del precariato nella pubblica amministrazione, gli incentivi fiscali all’innovazione tecnologica, il sostegno alla internazionalizzazione delle imprese, la soluzione al problema degli esodati. E poi «la riduzione delle tasse sul lavoro, a partire da quello stabile» e dei giovani. Somma qui, aggiungi là, il conto potrebbe salire rapidamente a 20 miliardi di euro.
Un libro dei sogni di berlusconiana memoria? «Si è fatto un po’ prendere la mano», ammette un amico deputato. Soprattutto se si tiene conto che lui stesso ha promesso di «rispettare gli obiettivi di risanamento presi a Bruxelles» e di voler ottenere la cancellazione della procedura di infrazione per deficit eccessivo vinta dal governo Berlusconi. Eppure l’ultimo documento ufficiale del governo parla chiaro: nel 2013 l’Italia è già molto vicina al tetto del 3%. Che farà dunque il buon padre di famiglia?
Fatti salvi quelli ai costi della politica (irrilevanti rispetto ai grandi numeri) Letta ha evitato accuratamente di pronunciare la parola «tagli». Lo spazio nel bilancio pubblico non mancherebbe, a partire da quell’enorme mole di «contributi alle imprese» - oltre trenta miliardi di euro - che ogni anno vengono distribuiti per metà ad enti e società statali, altrettanto alle Regioni spendaccione. Letta, allievo del rigorista Andreatta, sa bene che fra le pieghe del bilancio ci sono spese che poco hanno a che vedere con il sostegno alla crescita. Le circostanze però non giocano a favore dei rigoristi, almeno non abbastanza da permettere di finanziare ogni nuova spesa secondo il rigido criterio del buon padre di famiglia.
La strada che seguiremo, almeno in parte, sarà un’altra, e anche di questa Letta non ha fatto menzione esplicita: chiedere a Bruxelles la deroga agli impegni che formalmente dice di voler rispettare. Il vicesegretario Pd ne aveva parlato durante le consultazioni in streaming coi grillini, beccandosi la bacchettata del ministro delle Finanze tedesco Schaueble. Ieri è stato più generico: «nelle sedi europee ci impegneremo a individuare strategie per ravvivare la crescita». L’omissione è comprensibile: se Letta avesse fatto cenno all’ipotesi nel discorso di fiducia di fronte alle Camere probabilmente l’incontro di oggi con Angela Merkel - in piena campagna elettorale e pressata dai falchi antieuro - avrebbe preso una brutta piega. Ma è di questo che Letta inizierà a discutere (riservatamente) nel suo imminente tour europeo. In fondo è quel che l’Europa ha già detto di voler concedere e che ha concesso alla Francia prima e alla Spagna dopo. Con una differenza non trascurabile: il nostro debito pubblico (quest’anno toccherà il 130% in rapporto al prodotto) non ci permette uno spazio di manovra ampio. Secondo quanto riferiscono fonti governative il margine di trattativa per quest’anno potrebbe valere mezzo punto di Pil, più o meno otto miliardi, abbastanza per non compromettere la ritrovata fama di buoni padri di famiglia.
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alessandro barbera
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Il Roque Cinchado e la Via Lattea
Milky Way and Stone Tree
Image Credit & Copyright: Daniel López (El Cielo de Canarias)
Explanation: What's that next to the Milky Way? An unusual natural rock formation known as Roque Cinchado or Stone Tree found on the Spanish Canary Island of Tenerife. A famous icon, Roque Cinchado is likely a dense plug of cooled volcanic magma that remains after softer surrounding rock eroded away. Majestically, the central band of our Milky Way Galaxy is visible arcing across the right of the above seven image panoramic mosaic taken during the summer of 2010. On the far right is the Teide volcano complete with a lenticular cloud hovering near its peak.
Image Credit & Copyright: Daniel López (El Cielo de Canarias)
Explanation: What's that next to the Milky Way? An unusual natural rock formation known as Roque Cinchado or Stone Tree found on the Spanish Canary Island of Tenerife. A famous icon, Roque Cinchado is likely a dense plug of cooled volcanic magma that remains after softer surrounding rock eroded away. Majestically, the central band of our Milky Way Galaxy is visible arcing across the right of the above seven image panoramic mosaic taken during the summer of 2010. On the far right is the Teide volcano complete with a lenticular cloud hovering near its peak.
lunedì 29 aprile 2013
La Francia sedotta dal modello Letta...
Da Il Fatto Quotidiano
Francia, il 78% dei cittadini è favorevole all’inciucio all’italiana
E’ quanto emerge da un sondaggio dell’istituto Ifop, realizzato per il Journal du dimanche: quasi 8 intervistati su 10 si dichiarano favorevoli a un nuovo esecutivo, che metta insieme esponenti di sinistra, centro e destra. Il 47% si è spinto ad auspicare perfino la partecipazione di esponenti del Front National di Marine Le Pen
di Leonardo Martinelli | 29 aprile 2013
Avete presente la Francia, quel paese dove un sistema elettorale maggioritario, con collegi uninominali e votazioni a due turni, consente sempre e comunque di costituire una maggioranza salda e duratura in Parlamento? Ebbene, quel paese, tanto invidiato, almeno da questo punto di vista, da numerosi italiani, guarda ora al nostro inciucio, alias il nuovo governo a larghe intese, addirittura con invidia.
E’ quanto emerge da un sondaggio dell’istituto Ifop, praticamente il più affidabile oltralpe, realizzato per il Journal du dimanche: il 78% degli intervistati si è dichiarato favorevole anche in Francia a un nuovo esecutivo, che metta insieme esponenti di sinistra, centro e destra. Il 47% si è spinto ad auspicare perfino la partecipazione di esponenti del Front National di Marine Le Pen. Sì’, l’estrema destra, ormai non più ostracizzata da queste parti (undici anni fa, quando Jean-Marie, il padre di Marine, era finito al secondo turno delle presidenziali contro Jacques Chirac, quest’utimo aveva attirato il 90% dei consensi). Il Journal du Dimanche ha giustificato il sondaggio prendendo spunto proprio dal governo presieduto da Enrico Letta, definito “una buffonata” dal leader dell’estrema sinistra, Jean-Luc Mélenchon, ma per il resto accolto a Parigi con una buona dose di interesse. E di subitaneo desiderio di imitazione.
Cosa sta succedendo in Francia? Succede che la situazione economica si sta deteriorando sempre più, che la disoccupazione macina un record dietro l’altro. E che François Hollande, eletto presidente appena un anno fa, registra una quota di popolarità di appena il 24%, record minimo per un capo di stato francese. Hollande non convince più e neanche Jean-Marc Ayraut, il premier socialista. E se, per gestire l’attuale emergenza sulla base di un amplio consenso, si ricorresse a un governo di larghe intese, come fatto ora in Italia e nel passato da altri paesi, Germania compresa? L’idea era stata lanciata negli ultimi giorni innanzitutto da François Bayrou, leader del centro. Ma poi anche da Benoist Apparu, esponente dell’Ump, il partito di centro-destra, lo stesso di Nicolas Sarkozy. La sua posizione è stata in seguito condivisa dall’ex premier dell’epoca Sarkozy, François Fillon, per il quale “Hollande dovrebbe pensare a una politica sostenuta sia da una parte della sinistra che da una parte della destra”.
Sembrava fantapolitica. Ma il sondaggio, che a Parigi ha rappresentato una sorta di choc, mostra che pure il francese medio sarebbe favorevole a una soluzione del genere. La percentuale è ovviamente alta tra gli elettori dell’Ump (l’89%), esclusi dal governo attuale. L’appoggia anche il 79% di quelli dell’Fn. Ma perfino i due terzi degli elettori della sinistra spera ormai in un epilogo di questo tipo. Secondo Bruno Jérome, ricercatore all’università Paris-II, “le grandi coalizioni rendono più facili le riforme strutturali, ma sono possibili nei paesi dove il consenso sociale è più forte”. Insomma, non proprio in Francia, dove, su certe questioni, vedi la riforma del mercato del lavoro, le divisioni sono nette e dolorose. In effetti l’inciucio alla francese sembra nella realtà dei fatti assai improbabile. Soprattutto perché non è necessario come in Italia. In Francia il Partito socialista (che, va ricordato, alle elezioni del giugno 2012 ottenne all’incirca la stessa percentuale di voti del Pd alle ultime legislative italiane) puo’ contare sulla maggioranza assoluta dei seggi e in più su un presidente, certo impopolare, ma in teoria in sella ancora per quattro anni. E’ dai tempi della Liberazione che la grande coalizione (dalla sinistra alla destra al potere) non vede più la luce. Allora fu il generale De Gaulle a ricorrere a quella soluzione, quando il sistema elettorale non era quello attuale. E quando si doveva affrontare un’emergenza politica ed economica. Apparentemente oggi i francesi ritengono di vivere un momento ugualmente difficile.
Francia, il 78% dei cittadini è favorevole all’inciucio all’italiana
E’ quanto emerge da un sondaggio dell’istituto Ifop, realizzato per il Journal du dimanche: quasi 8 intervistati su 10 si dichiarano favorevoli a un nuovo esecutivo, che metta insieme esponenti di sinistra, centro e destra. Il 47% si è spinto ad auspicare perfino la partecipazione di esponenti del Front National di Marine Le Pen
di Leonardo Martinelli | 29 aprile 2013
Avete presente la Francia, quel paese dove un sistema elettorale maggioritario, con collegi uninominali e votazioni a due turni, consente sempre e comunque di costituire una maggioranza salda e duratura in Parlamento? Ebbene, quel paese, tanto invidiato, almeno da questo punto di vista, da numerosi italiani, guarda ora al nostro inciucio, alias il nuovo governo a larghe intese, addirittura con invidia.
E’ quanto emerge da un sondaggio dell’istituto Ifop, praticamente il più affidabile oltralpe, realizzato per il Journal du dimanche: il 78% degli intervistati si è dichiarato favorevole anche in Francia a un nuovo esecutivo, che metta insieme esponenti di sinistra, centro e destra. Il 47% si è spinto ad auspicare perfino la partecipazione di esponenti del Front National di Marine Le Pen. Sì’, l’estrema destra, ormai non più ostracizzata da queste parti (undici anni fa, quando Jean-Marie, il padre di Marine, era finito al secondo turno delle presidenziali contro Jacques Chirac, quest’utimo aveva attirato il 90% dei consensi). Il Journal du Dimanche ha giustificato il sondaggio prendendo spunto proprio dal governo presieduto da Enrico Letta, definito “una buffonata” dal leader dell’estrema sinistra, Jean-Luc Mélenchon, ma per il resto accolto a Parigi con una buona dose di interesse. E di subitaneo desiderio di imitazione.
Cosa sta succedendo in Francia? Succede che la situazione economica si sta deteriorando sempre più, che la disoccupazione macina un record dietro l’altro. E che François Hollande, eletto presidente appena un anno fa, registra una quota di popolarità di appena il 24%, record minimo per un capo di stato francese. Hollande non convince più e neanche Jean-Marc Ayraut, il premier socialista. E se, per gestire l’attuale emergenza sulla base di un amplio consenso, si ricorresse a un governo di larghe intese, come fatto ora in Italia e nel passato da altri paesi, Germania compresa? L’idea era stata lanciata negli ultimi giorni innanzitutto da François Bayrou, leader del centro. Ma poi anche da Benoist Apparu, esponente dell’Ump, il partito di centro-destra, lo stesso di Nicolas Sarkozy. La sua posizione è stata in seguito condivisa dall’ex premier dell’epoca Sarkozy, François Fillon, per il quale “Hollande dovrebbe pensare a una politica sostenuta sia da una parte della sinistra che da una parte della destra”.
Sembrava fantapolitica. Ma il sondaggio, che a Parigi ha rappresentato una sorta di choc, mostra che pure il francese medio sarebbe favorevole a una soluzione del genere. La percentuale è ovviamente alta tra gli elettori dell’Ump (l’89%), esclusi dal governo attuale. L’appoggia anche il 79% di quelli dell’Fn. Ma perfino i due terzi degli elettori della sinistra spera ormai in un epilogo di questo tipo. Secondo Bruno Jérome, ricercatore all’università Paris-II, “le grandi coalizioni rendono più facili le riforme strutturali, ma sono possibili nei paesi dove il consenso sociale è più forte”. Insomma, non proprio in Francia, dove, su certe questioni, vedi la riforma del mercato del lavoro, le divisioni sono nette e dolorose. In effetti l’inciucio alla francese sembra nella realtà dei fatti assai improbabile. Soprattutto perché non è necessario come in Italia. In Francia il Partito socialista (che, va ricordato, alle elezioni del giugno 2012 ottenne all’incirca la stessa percentuale di voti del Pd alle ultime legislative italiane) puo’ contare sulla maggioranza assoluta dei seggi e in più su un presidente, certo impopolare, ma in teoria in sella ancora per quattro anni. E’ dai tempi della Liberazione che la grande coalizione (dalla sinistra alla destra al potere) non vede più la luce. Allora fu il generale De Gaulle a ricorrere a quella soluzione, quando il sistema elettorale non era quello attuale. E quando si doveva affrontare un’emergenza politica ed economica. Apparentemente oggi i francesi ritengono di vivere un momento ugualmente difficile.
Piemonte e Nord Ovest. Situazione meteo ...
domenica 28 aprile 2013
Ponente, massime tra 11 e 15 gradi...
Mentre ad aprile sono già scesi 100 mm di pioggia...!
C'era un tempo il Ponente Felix! Ora è una bagnarola...
C'era un tempo il Ponente Felix! Ora è una bagnarola...
Una pausa prima della ripresa delle piogge...
Meteo dall'alto. Continua il flusso da Sud Ovest che nelle prossime ore dovrebbe portare a nuove piogge
Tutti gli uomini (e donne) di Letta...
Da La Stampa
Ecco tutti gli uomini di Letta
Fuori i big, ministri più giovani
Record di donne nell’esecutivo
Nove Pd, cinque Pdl, due di Scelta Civica, una radicale
e quattro tecnici. Napolitano: “Ora reciproco rispetto”
Dopo due mesi e due giorni l’Italia ha finalmente un nuovo governo. Con sprezzo del pericolo, Enrico Letta l’ha annunciato alle 17,17, leggendo la lista dei ministri nella sala stampa del Quirinale. C’è da fare gli scongiuri? Il parto è salutato con gioia, ma la creatura è gracile e ha bisogno di essere accudita. Napolitano, che lo sa meglio di tutti, parlando subito dopo il nuovo premier, ha chiesto «spirito di ferma coesione... senza conflittualità e pregiudiziali, e con reciproco rispetto».
Come dire: cercate di andare d’accordo! Tra le tante novità di questo governo, infatti, la più importante è anche quella che rischia di passare in secondo piano, tanto è data per scontata. E cioè: questo è il primo esecutivo che mette insieme, dopo vent’anni di contrapposizione feroce, centrodestra e centrosinistra. Nozze riparatrici - si ripara in primo luogo la mancata riforma elettorale - e quindi obbligate. Per questo il presidente della Repubblica teme che si torni presto a litigare, e raccomanda a tutti di mettere l’interesse del Paese davanti ai vecchi rancori e ai futuri interessi elettorali. Prima di arrivare al divorzio, Pd e Pdl devono perlomeno affrontare l’emergenza economica, rifare la legge elettorale e dare ai cittadini la prova che la politica ridimensiona i propri costi e i propri privilegi. Fatto questo, e tolti quindi molti buoni argomenti all’antipolitica, possono anche tornare a dividersi. Ma non prima.
Le novità di questo governo, dicevamo, sono però tante. L’età media dei suoi ministri, innanzitutto: 53 anni, undici meno del precedente esecutivo. Il presidente del Consiglio e il suo vice sono addirittura sotto la media: 46 anni Letta, 42 Alfano. È poi il governo con la più alta percentuale di donne nella storia d’Italia: sette ministri su ventuno. È il primo governo con un ministro di colore, nata in Africa. Ci sono due sindaci, Zanonato e Del Rio, perché la gente chiede politici a contatto con le cose concrete di tutti i giorni. È un governo di svolta anche perché archivia una stagione: fuori i big, dentro le nuove leve. Solo due dei «politici» erano già stati ministri: Alfano ed Emma Bonino. Ma il dicastero assegnato alla Bonino - gli Esteri - è pure quello una novità: mai i Radicali avevano occupato un ruolo così importante.
Proprio questa esclusione della vecchia guardia è stato probabilmente il nodo più difficile da sciogliere. L’accordo è arrivato infatti una settimana dopo l’applauso bipartisan tributato a Montecitorio al rieletto presidente della Repubblica, il quale con parole dure aveva messo i partiti di fronte alle proprie responsabilità. Una settimana non è tanto, per fare un governo: ma già si era in un ritardo storico, e pareva che l’urgenza fosse stata recepita da tutti.
Quando però s’è trattato di passare dai buoni propositi ai fatti, le cose si sono complicate. Intanto non era facile trovare un accordo sulla linea politica, soprattutto su quella economica: la questione dell’Imu, ad esempio, è probabilmente ancora da risolvere. E poi c’erano i nomi dei ministri. I cosiddetti big non ci stavano a farsi rottamare. Reclamavano un posto, motivandolo con la propria esperienza, che è sempre utile, in particolare quando si tratta di navigare nella tempesta. Qui però è partito il sempiterno gioco dei veti incrociati. Se il Pd presentava D’Alema, Berlusconi poteva rispondere «e allora perché non anch’io»? Ci si è impuntati su diversi personaggi: Amato, Brunetta... Alla fine Enrico Letta ha imposto la linea del rinnovamento: fuori quasi tutti i «vecchi», dentro i nuovi. È stata una mossa giusta? Il ricambio generazionale va incontro alla domanda di gran parte del popolo italiano. Ma un governo pieno di pezzi grossi, cioè di personaggi che nei loro rispettivi partiti contano ancora molto, avrebbe probabilmente ridotto il rischio di una fine prematura. Insomma tra il rischio di apparire vecchi e quello di essere fragili, si è preferito affrontare il secondo. Solo il tempo dirà se è stata una scelta illuminata.
La «quadra» tra Pd e Pdl è stata trovata ieri all’ora di pranzo, dopo l’incontro a Montecitorio tra i due Letta (zio e nipote), Berlusconi e Alfano. Alle tre del pomeriggio il premier incaricato è andato al Quirinale. Mentre una piccola folla di curiosi aspettava in piazza sotto una debole pioggia - c’è stata perfino una surreale tentata incursione di protesta da parte di un gruppo sedicente «in difesa del cittadino basco» - Enrico Letta metteva a posto le ultime caselle con Napolitano. Solo alle cinque hanno aperto la sala stampa.
Dove Enrico Letta si è presentato appunto alle 17,17 con un «buonasera» alla Papa Francesco. Ha espresso «profonda gratitudine nei confronti del presidente della Repubblica» e una «sobria soddisfazione per la squadra che siamo riusciti a comporre». Di fronte a una folla di fotografi, teleoperatori e giornalisti, il neo premier ha presentato i suoi ventuno ministri come «competenze al servizio del Paese» e orgogliosamente, per due volte, ha sottolineato il «record di presenze femminili». Poi ha cominciato a leggere i nomi. «Una squadra che io spero coesa», ha detto alla fine dell’elenco, sapendo anche lui qual è il nervo scoperto. «Coesa», ha aggiunto, «e fortemente determinata».
Quando, subito dopo, s’è presentato Napolitano, è stato come veder apparire un uomo d’altri tempi e d’altri discorsi (altri rispetto non a Letta, ma alla politica cui siamo, ahinoi, da anni abituati). Lo Stato, la Costituzione, l’Italia, una politica che non deve guardare alle prossime elezioni ma alle prossime generazioni. Checché ne insinuino, Napolitano ha accettato la rielezione contro ogni suo desiderio. Sa che molti chiameranno questo esecutivo «del presidente», e allora dice subito che «non c’è bisogno di alcuna formula per definire questo governo». «È un governo politico», aggiunge, «secondo la prassi della nostra democrazia parlamentare». Sa anche che è un governo che ha già molti obiettori (soprattutto nel Pd) e allora spiega pure che «è l’unico governo possibile, la cui costituzione non poteva tardare oltre». Ringrazia per «lo sforzo paziente e tenace: una volontà di seria collaborazione era indispensabile da tutte le parti». Ancora: «Voglio ringraziare vivamente Enrico Letta, che è l’artefice principale. Io ho assecondato il suo tentativo». Poi, l’auspicio finale: «Che questo governo si metta a lavorare rapidamente con spirito di ferma coesione...» eccetera come scritto sopra.
Questa mattina, alle 11,30, i nuovi ministri giureranno al Quirinale. Daranno al Paese il senso di un cambiamento? Ci sarà Cecile Kyenge, 48 anni, medico oculista, nata in Congo e madre di due figli. Ci sarà Josefa Idem che è nata in Germania (anche lei 48 anni fa) ma che ha fatto otto Olimpiadi con la maglia azzurra. Si è italiani anche se si nasce altrove, questo ci dice intanto il nuovo governo Letta.
Poi, davanti al presidente Napolitano che quest’anno compie 88 anni, giureranno Nunzia De Girolamo che ha 37 anni, Beatrice Lorenzin che ne ha 41, Andrea Orlando, 44, Giampiero D’Alia, 46. Del governo uscente vedremo solo Filippo Patroni Griffi come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Enzo Moavero Milanesi che resta ministro agli Affari europei e Anna Maria Cancellieri che passa dall’Interno alla Giustizia. Degli ex segretari di partito (Alfano a parte) ci saranno solo Dario Franceschini, Pd, che sarà ministro dei rapporti con il parlamento.
Adesso comincerà la discussione su chi ha vinto e chi ha perso, anzi è già cominciata. I numeri dicono che dei nuovi ventuno ministri, otto sono del Pd, cinque del Pdl, tre di Scelta Civica, una radicale, quattro «tecnici» (Saccomanni, Cancellieri, Trigilia e Giovannini). In più, il Pd ha anche il premier.
Ma sulla bocca di tutti, da ieri, c’è che il più soddisfatto è Berlusconi. Si dice che il vero vincitore sia lui. In realtà anche il Cavaliere avrà da oggi qualche grattacapo. Nella squadra di governo hanno infatti trovato posto le «colombe». I «falchi», come Santanchè e Brunetta, sono rimasti fuori; altri, come Verdini che non aspirava a un posto ma a una linea più dura, non sono stati ascoltati. E quindi qualche mal di pancia nel Pdl ci sarà. Ma niente in confronto a quelli che porteranno dal gastroenterologo mezzo Pd, che non digerisce l’alleanza con «il Caimano» e che teme di essere spazzato via, alle prossime elezioni, da Grillo, destinato ad egemonizzare un’opposizione in cui si troverà con Sel e (forse) la Lega.
Berlusconi era stato dato per morto quando dovette lasciare Palazzo Chigi e ancora pochi mesi fa, al tempo delle gloriose primarie del Pd, si diceva che il Pdl era attorno al 14-15 per cento. In poco tempo il Cavaliere ha ribaltato la situazione, «pareggiato» alle elezioni e oggi porta a casa i ministeri più importanti, dagli Interni alle Riforme Costituzionali.
Ma vedremo. In realtà tutti, sia nel Pd che nel Pdl, hanno interesse a che il governo duri nel tempo. Certo, per parteciparvi tutti hanno dovuto rinunciare a una parte di sé: ma si muore un po’ per poter vivere.
Michele Brambilla
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Copyright 2013 La Stampa
Ecco tutti gli uomini di Letta
Fuori i big, ministri più giovani
Record di donne nell’esecutivo
Nove Pd, cinque Pdl, due di Scelta Civica, una radicale
e quattro tecnici. Napolitano: “Ora reciproco rispetto”
Dopo due mesi e due giorni l’Italia ha finalmente un nuovo governo. Con sprezzo del pericolo, Enrico Letta l’ha annunciato alle 17,17, leggendo la lista dei ministri nella sala stampa del Quirinale. C’è da fare gli scongiuri? Il parto è salutato con gioia, ma la creatura è gracile e ha bisogno di essere accudita. Napolitano, che lo sa meglio di tutti, parlando subito dopo il nuovo premier, ha chiesto «spirito di ferma coesione... senza conflittualità e pregiudiziali, e con reciproco rispetto».
Come dire: cercate di andare d’accordo! Tra le tante novità di questo governo, infatti, la più importante è anche quella che rischia di passare in secondo piano, tanto è data per scontata. E cioè: questo è il primo esecutivo che mette insieme, dopo vent’anni di contrapposizione feroce, centrodestra e centrosinistra. Nozze riparatrici - si ripara in primo luogo la mancata riforma elettorale - e quindi obbligate. Per questo il presidente della Repubblica teme che si torni presto a litigare, e raccomanda a tutti di mettere l’interesse del Paese davanti ai vecchi rancori e ai futuri interessi elettorali. Prima di arrivare al divorzio, Pd e Pdl devono perlomeno affrontare l’emergenza economica, rifare la legge elettorale e dare ai cittadini la prova che la politica ridimensiona i propri costi e i propri privilegi. Fatto questo, e tolti quindi molti buoni argomenti all’antipolitica, possono anche tornare a dividersi. Ma non prima.
Le novità di questo governo, dicevamo, sono però tante. L’età media dei suoi ministri, innanzitutto: 53 anni, undici meno del precedente esecutivo. Il presidente del Consiglio e il suo vice sono addirittura sotto la media: 46 anni Letta, 42 Alfano. È poi il governo con la più alta percentuale di donne nella storia d’Italia: sette ministri su ventuno. È il primo governo con un ministro di colore, nata in Africa. Ci sono due sindaci, Zanonato e Del Rio, perché la gente chiede politici a contatto con le cose concrete di tutti i giorni. È un governo di svolta anche perché archivia una stagione: fuori i big, dentro le nuove leve. Solo due dei «politici» erano già stati ministri: Alfano ed Emma Bonino. Ma il dicastero assegnato alla Bonino - gli Esteri - è pure quello una novità: mai i Radicali avevano occupato un ruolo così importante.
Proprio questa esclusione della vecchia guardia è stato probabilmente il nodo più difficile da sciogliere. L’accordo è arrivato infatti una settimana dopo l’applauso bipartisan tributato a Montecitorio al rieletto presidente della Repubblica, il quale con parole dure aveva messo i partiti di fronte alle proprie responsabilità. Una settimana non è tanto, per fare un governo: ma già si era in un ritardo storico, e pareva che l’urgenza fosse stata recepita da tutti.
Quando però s’è trattato di passare dai buoni propositi ai fatti, le cose si sono complicate. Intanto non era facile trovare un accordo sulla linea politica, soprattutto su quella economica: la questione dell’Imu, ad esempio, è probabilmente ancora da risolvere. E poi c’erano i nomi dei ministri. I cosiddetti big non ci stavano a farsi rottamare. Reclamavano un posto, motivandolo con la propria esperienza, che è sempre utile, in particolare quando si tratta di navigare nella tempesta. Qui però è partito il sempiterno gioco dei veti incrociati. Se il Pd presentava D’Alema, Berlusconi poteva rispondere «e allora perché non anch’io»? Ci si è impuntati su diversi personaggi: Amato, Brunetta... Alla fine Enrico Letta ha imposto la linea del rinnovamento: fuori quasi tutti i «vecchi», dentro i nuovi. È stata una mossa giusta? Il ricambio generazionale va incontro alla domanda di gran parte del popolo italiano. Ma un governo pieno di pezzi grossi, cioè di personaggi che nei loro rispettivi partiti contano ancora molto, avrebbe probabilmente ridotto il rischio di una fine prematura. Insomma tra il rischio di apparire vecchi e quello di essere fragili, si è preferito affrontare il secondo. Solo il tempo dirà se è stata una scelta illuminata.
La «quadra» tra Pd e Pdl è stata trovata ieri all’ora di pranzo, dopo l’incontro a Montecitorio tra i due Letta (zio e nipote), Berlusconi e Alfano. Alle tre del pomeriggio il premier incaricato è andato al Quirinale. Mentre una piccola folla di curiosi aspettava in piazza sotto una debole pioggia - c’è stata perfino una surreale tentata incursione di protesta da parte di un gruppo sedicente «in difesa del cittadino basco» - Enrico Letta metteva a posto le ultime caselle con Napolitano. Solo alle cinque hanno aperto la sala stampa.
Dove Enrico Letta si è presentato appunto alle 17,17 con un «buonasera» alla Papa Francesco. Ha espresso «profonda gratitudine nei confronti del presidente della Repubblica» e una «sobria soddisfazione per la squadra che siamo riusciti a comporre». Di fronte a una folla di fotografi, teleoperatori e giornalisti, il neo premier ha presentato i suoi ventuno ministri come «competenze al servizio del Paese» e orgogliosamente, per due volte, ha sottolineato il «record di presenze femminili». Poi ha cominciato a leggere i nomi. «Una squadra che io spero coesa», ha detto alla fine dell’elenco, sapendo anche lui qual è il nervo scoperto. «Coesa», ha aggiunto, «e fortemente determinata».
Quando, subito dopo, s’è presentato Napolitano, è stato come veder apparire un uomo d’altri tempi e d’altri discorsi (altri rispetto non a Letta, ma alla politica cui siamo, ahinoi, da anni abituati). Lo Stato, la Costituzione, l’Italia, una politica che non deve guardare alle prossime elezioni ma alle prossime generazioni. Checché ne insinuino, Napolitano ha accettato la rielezione contro ogni suo desiderio. Sa che molti chiameranno questo esecutivo «del presidente», e allora dice subito che «non c’è bisogno di alcuna formula per definire questo governo». «È un governo politico», aggiunge, «secondo la prassi della nostra democrazia parlamentare». Sa anche che è un governo che ha già molti obiettori (soprattutto nel Pd) e allora spiega pure che «è l’unico governo possibile, la cui costituzione non poteva tardare oltre». Ringrazia per «lo sforzo paziente e tenace: una volontà di seria collaborazione era indispensabile da tutte le parti». Ancora: «Voglio ringraziare vivamente Enrico Letta, che è l’artefice principale. Io ho assecondato il suo tentativo». Poi, l’auspicio finale: «Che questo governo si metta a lavorare rapidamente con spirito di ferma coesione...» eccetera come scritto sopra.
Questa mattina, alle 11,30, i nuovi ministri giureranno al Quirinale. Daranno al Paese il senso di un cambiamento? Ci sarà Cecile Kyenge, 48 anni, medico oculista, nata in Congo e madre di due figli. Ci sarà Josefa Idem che è nata in Germania (anche lei 48 anni fa) ma che ha fatto otto Olimpiadi con la maglia azzurra. Si è italiani anche se si nasce altrove, questo ci dice intanto il nuovo governo Letta.
Poi, davanti al presidente Napolitano che quest’anno compie 88 anni, giureranno Nunzia De Girolamo che ha 37 anni, Beatrice Lorenzin che ne ha 41, Andrea Orlando, 44, Giampiero D’Alia, 46. Del governo uscente vedremo solo Filippo Patroni Griffi come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Enzo Moavero Milanesi che resta ministro agli Affari europei e Anna Maria Cancellieri che passa dall’Interno alla Giustizia. Degli ex segretari di partito (Alfano a parte) ci saranno solo Dario Franceschini, Pd, che sarà ministro dei rapporti con il parlamento.
Adesso comincerà la discussione su chi ha vinto e chi ha perso, anzi è già cominciata. I numeri dicono che dei nuovi ventuno ministri, otto sono del Pd, cinque del Pdl, tre di Scelta Civica, una radicale, quattro «tecnici» (Saccomanni, Cancellieri, Trigilia e Giovannini). In più, il Pd ha anche il premier.
Ma sulla bocca di tutti, da ieri, c’è che il più soddisfatto è Berlusconi. Si dice che il vero vincitore sia lui. In realtà anche il Cavaliere avrà da oggi qualche grattacapo. Nella squadra di governo hanno infatti trovato posto le «colombe». I «falchi», come Santanchè e Brunetta, sono rimasti fuori; altri, come Verdini che non aspirava a un posto ma a una linea più dura, non sono stati ascoltati. E quindi qualche mal di pancia nel Pdl ci sarà. Ma niente in confronto a quelli che porteranno dal gastroenterologo mezzo Pd, che non digerisce l’alleanza con «il Caimano» e che teme di essere spazzato via, alle prossime elezioni, da Grillo, destinato ad egemonizzare un’opposizione in cui si troverà con Sel e (forse) la Lega.
Berlusconi era stato dato per morto quando dovette lasciare Palazzo Chigi e ancora pochi mesi fa, al tempo delle gloriose primarie del Pd, si diceva che il Pdl era attorno al 14-15 per cento. In poco tempo il Cavaliere ha ribaltato la situazione, «pareggiato» alle elezioni e oggi porta a casa i ministeri più importanti, dagli Interni alle Riforme Costituzionali.
Ma vedremo. In realtà tutti, sia nel Pd che nel Pdl, hanno interesse a che il governo duri nel tempo. Certo, per parteciparvi tutti hanno dovuto rinunciare a una parte di sé: ma si muore un po’ per poter vivere.
Michele Brambilla
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Meteo dall'alto. Europa tagliata in due...
Un sistema depressionaria taglia l'Europa da Nord a Sud. Ad ovest, sulla Francia e Spagna: freddo con neve a basse quote sui Pirenei. Ad Est caldo...
Il nostro Nord Ovest risente del cozzo tra l'aria umida che risale dal Mediterraneo e i flussi freddi dalla Francia. Il maltempo continua stanotte, specie su Canavese e Verbano, e continuerà ancora domenica pomeriggio e poi fino a martedì...
Il nostro Nord Ovest risente del cozzo tra l'aria umida che risale dal Mediterraneo e i flussi freddi dalla Francia. Il maltempo continua stanotte, specie su Canavese e Verbano, e continuerà ancora domenica pomeriggio e poi fino a martedì...
Piemonte: forti piogge nel Canavese e nell'Ossola...
La mappa Arpa delle piogge odierne
Dal Corriere della sera:
IVREA - È stato salvato in extremis un anziano che è rimasto intrappolato nella sua abitazione a Montalto Dora. Le squadre di soccorso sono riusciti a raggiungerlo in tempo. Intanto sono una decina le squadre dei vigili del fuoco impegnate nella zona di Ivrea, dove la pioggia delle ultime ore sta creando parecchi problemi, con diverse zone allagate. I pompieri stanno soccorrendo persone rimaste bloccate in alcune auto, lungo le strade allagate anche a causa dei tombini, molti rimasti ostruiti da detriti. L'acqua ha invaso anche diversi negozi.
Dal Corriere della sera:
IVREA - È stato salvato in extremis un anziano che è rimasto intrappolato nella sua abitazione a Montalto Dora. Le squadre di soccorso sono riusciti a raggiungerlo in tempo. Intanto sono una decina le squadre dei vigili del fuoco impegnate nella zona di Ivrea, dove la pioggia delle ultime ore sta creando parecchi problemi, con diverse zone allagate. I pompieri stanno soccorrendo persone rimaste bloccate in alcune auto, lungo le strade allagate anche a causa dei tombini, molti rimasti ostruiti da detriti. L'acqua ha invaso anche diversi negozi.
sabato 27 aprile 2013
Piemonte, massime da 14,4 a 20,2...
Ponente e nuvole... Con un po' di pioggia.
Piemonte, minime tra 9,5 e 13,5 gradi...
Precari e somari. Il Buongiorno di Gramellini.
LA STAMPA
Prima Pagina
Precari e somari
«Ho 32 anni e un dottorato di ricerca in lingue straniere. Per sbarcare il lunario e pagare l’affitto dell’appartamento che condivido con il mio compagno ho accettato di dare lezioni private a un quattordicenne svogliato e apatico. Di fronte alla mia ennesima esortazione a cercare il significato di un verbo sul vocabolario di latino, il ragazzo si oppone perché “tanto è come dico io...” (in latino ha la media del 4). Cerco di spiegargli con calma che per migliorare è necessario uno sforzo maggiore - compreso quello di sfogliare le pagine del vocabolario - ma lui niente. Allora lo riprendo con maggiore enfasi, dicendogli che nello studio c’è bisogno anche di un po’ di umiltà. Diventa viola dalla rabbia, assume il tono della vittima e mi sbatte la porta di casa in faccia. Il giorno dopo ricevo un sms dalla madre del ragazzino (si faccia attenzione alla modalità di comunicazione scelta della signora). Afferma di avere constatato il turbamento del figlio a seguito delle mie ingiuste critiche. E mi spiega che il rimprovero non è un approccio corretto verso un ragazzo che andrebbe invece appassionato allo studio. In conclusione mi ha “licenziata”. Noi giovani disoccupati viviamo costantemente sotto ricatto: di un contratto a tempo, di un datore di lavoro che sfrutta la tua condizione precaria e perfino di un ragazzino viziato la cui pigrizia è alimentata da genitori che lo giustificano. Se fossi stata zitta e l’avessi assecondato, adesso avrei ancora quel lavoro. Malgrado questo, una parte di me si rallegra di avere ricevuto un’educazione diversa».
(Lettera firmata a Specchio dei tempi).
Massimo Gramellini
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Precari e somari
«Ho 32 anni e un dottorato di ricerca in lingue straniere. Per sbarcare il lunario e pagare l’affitto dell’appartamento che condivido con il mio compagno ho accettato di dare lezioni private a un quattordicenne svogliato e apatico. Di fronte alla mia ennesima esortazione a cercare il significato di un verbo sul vocabolario di latino, il ragazzo si oppone perché “tanto è come dico io...” (in latino ha la media del 4). Cerco di spiegargli con calma che per migliorare è necessario uno sforzo maggiore - compreso quello di sfogliare le pagine del vocabolario - ma lui niente. Allora lo riprendo con maggiore enfasi, dicendogli che nello studio c’è bisogno anche di un po’ di umiltà. Diventa viola dalla rabbia, assume il tono della vittima e mi sbatte la porta di casa in faccia. Il giorno dopo ricevo un sms dalla madre del ragazzino (si faccia attenzione alla modalità di comunicazione scelta della signora). Afferma di avere constatato il turbamento del figlio a seguito delle mie ingiuste critiche. E mi spiega che il rimprovero non è un approccio corretto verso un ragazzo che andrebbe invece appassionato allo studio. In conclusione mi ha “licenziata”. Noi giovani disoccupati viviamo costantemente sotto ricatto: di un contratto a tempo, di un datore di lavoro che sfrutta la tua condizione precaria e perfino di un ragazzino viziato la cui pigrizia è alimentata da genitori che lo giustificano. Se fossi stata zitta e l’avessi assecondato, adesso avrei ancora quel lavoro. Malgrado questo, una parte di me si rallegra di avere ricevuto un’educazione diversa».
(Lettera firmata a Specchio dei tempi).
Massimo Gramellini
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Il Totoministri del mattino...
Da La Stampa
Pd e Pdl d’accordo
per un “tecnico”
all’Economia
Tesoro, spuntano i nomi di Saccomanni o Siniscalco
Tajani, commissario Ue, verso le Politiche europee
Al momento di stringere, i problemi sul tavolo di Enrico Letta si sono rivelati ben più duri del previsto. Il caso D’Alema, innanzitutto. L’ex premier aspirava al ministero degli Esteri e la sua ingombrante figura ieri ha riaperto i giochi che due giorni fa sembravano ampiamente risolti. Ovviamente se saltasse la regola di tenere fuori dal governo gli ex ministri, allora come frenare le ambizioni di Renato Brunetta, della Carfagna o della Gelmini?
Quanto alla Farnesina, c’era anche Mario Monti che ambiva all’incarico. Ma a sera, il Professore ha fatto chiarezza: «Per rafforzare il vigore del governo Letta è importante che i leader politici, o i personaggi senior del mondo politico, diano il loro appoggio ma non ne siano membri». Un plateale invito a D’Alema a restare fuori.
Se quindi terrà lo schema dei giovani ma «rodati», gente che dal primo giorno sia in grado di «guidare la macchina» di un dicastero, per dirla con le parole di Enrico Letta, si sta delineando la rosa dei prossimi ministri.
Per il Pd, potrebbero entrare in quattro: Dario Franceschini in predicato per la Difesa, Stefano Fassina al Welfare, il sindaco di Reggio Emilia Graziano Del Rio alla Coesione, il rettore dell’università pisana Sant’Anna Maria Chiara Carrozza all’Istruzione. Sarebbero così sazie tutte le componenti del Pd: ex popolari, giovani turchi, renziani e bersaniani.
C’è poi Luciano Violante in ballottaggio con Michele Vietti per la Giustizia. Il secondo, già parlamentare Udc, è leggermente preferito per la sua carica istituzionale di vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. In questi anni è stato in strettissimo contatto con il Capo dello Stato. S’avanza però un terzo nome: il giovane Andrea Orlando, responsabile Giustizia del Pd, figura equilibrata.
Seconda poltrona delicatissima, l’Interno. Anna Maria Cancellieri s’è conquistata il rispetto di entrambi gli schieramenti, è stimata al Quirinale, piace a Enrico Letta. Il Viminale, però, rientra in una trattativa più complessa e potrebbe convincere Angelino Alfano a entrare nel governo. Il segretario del Pdl, infatti, nicchia. Non è entusiasta di mollare il partito. Se lo facesse, vorrebbe una adeguata contropartita. Si parla di un incarico di vicepremier. Ma Alfano pare che accetterebbe solo se ci fossero adeguate deleghe. E l’Interno è adeguato.
Terza incognita, la guida dell’Economia. Non è caduta l’ipotesi di Giuliano Amato. Ma c’è anche Fabrizio Saccomanni, figura di assoluto rilievo, rispettata all’estero, gradito a Bankitalia.
Un’alternativa più politica potrebbe essere Domenico Siniscalco, che pure fu ministro del centrodestra molti anni fa, e non s’era lasciato bene con Berlusconi. Ma il Pdl ha il cruccio di indicare un nome competente e sennò è costretto a ricadere su Brunetta, con il quale Berlusconi ha un debito d’onore, ma che è figura indigesta al Pd e anche a larga parte del Pdl.
Berlusconi s’è convinto di lanciare volti nuovi e i giovani. In pole position ci sono Maurizio Lupi, Beatrice Lorenzin, Annamaria Bernini, Gaetano Quagliariello. Forse Deborah Bergamini. E poi c’è una carta a sorpresa: Antonio Tajani, vicepresidente della Commissione Europea è il loro candidato per il ministero delle Politiche europee. Berlusconi lo ha sponsorizzato molto. In questo caso soffierebbe il posto al montiano Ezio Moavero. Da quelle parti sono in ascesa Mario Mauro e Benedetto Della Vedova. Giampiero D’Alia, Udc, potrebbe essere il prossimo ministro dell’Agricoltura.
francesco grignetti
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Pd e Pdl d’accordo
per un “tecnico”
all’Economia
Tesoro, spuntano i nomi di Saccomanni o Siniscalco
Tajani, commissario Ue, verso le Politiche europee
Al momento di stringere, i problemi sul tavolo di Enrico Letta si sono rivelati ben più duri del previsto. Il caso D’Alema, innanzitutto. L’ex premier aspirava al ministero degli Esteri e la sua ingombrante figura ieri ha riaperto i giochi che due giorni fa sembravano ampiamente risolti. Ovviamente se saltasse la regola di tenere fuori dal governo gli ex ministri, allora come frenare le ambizioni di Renato Brunetta, della Carfagna o della Gelmini?
Quanto alla Farnesina, c’era anche Mario Monti che ambiva all’incarico. Ma a sera, il Professore ha fatto chiarezza: «Per rafforzare il vigore del governo Letta è importante che i leader politici, o i personaggi senior del mondo politico, diano il loro appoggio ma non ne siano membri». Un plateale invito a D’Alema a restare fuori.
Se quindi terrà lo schema dei giovani ma «rodati», gente che dal primo giorno sia in grado di «guidare la macchina» di un dicastero, per dirla con le parole di Enrico Letta, si sta delineando la rosa dei prossimi ministri.
Per il Pd, potrebbero entrare in quattro: Dario Franceschini in predicato per la Difesa, Stefano Fassina al Welfare, il sindaco di Reggio Emilia Graziano Del Rio alla Coesione, il rettore dell’università pisana Sant’Anna Maria Chiara Carrozza all’Istruzione. Sarebbero così sazie tutte le componenti del Pd: ex popolari, giovani turchi, renziani e bersaniani.
C’è poi Luciano Violante in ballottaggio con Michele Vietti per la Giustizia. Il secondo, già parlamentare Udc, è leggermente preferito per la sua carica istituzionale di vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. In questi anni è stato in strettissimo contatto con il Capo dello Stato. S’avanza però un terzo nome: il giovane Andrea Orlando, responsabile Giustizia del Pd, figura equilibrata.
Seconda poltrona delicatissima, l’Interno. Anna Maria Cancellieri s’è conquistata il rispetto di entrambi gli schieramenti, è stimata al Quirinale, piace a Enrico Letta. Il Viminale, però, rientra in una trattativa più complessa e potrebbe convincere Angelino Alfano a entrare nel governo. Il segretario del Pdl, infatti, nicchia. Non è entusiasta di mollare il partito. Se lo facesse, vorrebbe una adeguata contropartita. Si parla di un incarico di vicepremier. Ma Alfano pare che accetterebbe solo se ci fossero adeguate deleghe. E l’Interno è adeguato.
Terza incognita, la guida dell’Economia. Non è caduta l’ipotesi di Giuliano Amato. Ma c’è anche Fabrizio Saccomanni, figura di assoluto rilievo, rispettata all’estero, gradito a Bankitalia.
Un’alternativa più politica potrebbe essere Domenico Siniscalco, che pure fu ministro del centrodestra molti anni fa, e non s’era lasciato bene con Berlusconi. Ma il Pdl ha il cruccio di indicare un nome competente e sennò è costretto a ricadere su Brunetta, con il quale Berlusconi ha un debito d’onore, ma che è figura indigesta al Pd e anche a larga parte del Pdl.
Berlusconi s’è convinto di lanciare volti nuovi e i giovani. In pole position ci sono Maurizio Lupi, Beatrice Lorenzin, Annamaria Bernini, Gaetano Quagliariello. Forse Deborah Bergamini. E poi c’è una carta a sorpresa: Antonio Tajani, vicepresidente della Commissione Europea è il loro candidato per il ministero delle Politiche europee. Berlusconi lo ha sponsorizzato molto. In questo caso soffierebbe il posto al montiano Ezio Moavero. Da quelle parti sono in ascesa Mario Mauro e Benedetto Della Vedova. Giampiero D’Alia, Udc, potrebbe essere il prossimo ministro dell’Agricoltura.
francesco grignetti
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Ponente, nubi, gocce, nebbia sulla Cornice...
Cuneo: nuvole, gocce e qualche timido squarcio...
venerdì 26 aprile 2013
Ora sono gli "sfascisti" a contestare il 25 aprile...
Da La Stampa
ORA LA CONTESTAZIONE ARRIVA DAGLI “SFASCISTI”
Una volta a sporcare il 25 aprile erano i fascisti. Ora ci pensano gli sfascisti, quelli che la democrazia è sospesa ed Enrico Letta è come il maresciallo Pétain.
Ieri Nichi Vendola, a chi gli chiedeva un parallelo tra il governo di unità nazionale del dopoguerra e quello di larghe intese che (forse) sta per essere varato, ha detto che sono due cose imparagonabili perché «nel Cln non c’erano i fascisti».
Come dire che oggi, invece, ci sono. Infatti Paolo Flores d’Arcais ha detto che «il Pd sta rinnegando i valori della Resistenza, l’accordo con il Pdl insulta i partigiani». Un redivivo Di Pietro, poi, ha scritto sul suo sito che non riesce a festeggiare il 25 aprile perché «l’Italia di oggi non è un Paese libero e dopo le elezioni la Liberazione invece di avvicinarsi si è allontanata» (forse perché lui non è stato rieletto?).
Ma naturalmente il protagonista assoluto del funerale della festa di ieri è stato Beppe Grillo. «Il 25 aprile è morto», ha titolato l’home page del suo sito. È morto nella nomina di Enrico Letta («un membro del Bilderberg»), è morto «nell’abbraccio tra Bersani e Alfano», «nella rielezione di Napolitano», «nella mancata elezione di Rodotà», che era il suo candidato, forte di ben 4600 voti sul web e quindi unico vero rappresentante dell’intero popolo italiano.
Ovviamente, ciascuno è libero di pensare che un governo di larghe intese sia un errore. Così come ciascuno ha il diritto di desiderare che Berlusconi stia il più lontano possibile dal governo del Paese. Ma chi paragona un governo Pd-Pdl al fascismo e il berlusconismo al ventennio di Mussolini, offende - oltre che la propria salute mentale - la Storia e soprattutto la memoria di quelli che la Resistenza l’hanno fatta davvero. Di quelli che quando in Italia c’era la dittatura del Duce, e non quella «dei partiti», finivano in galera o al confino; che hanno poi combattuto contro i panzer della Wehrmacht e contro le SS; che sono stati torturati dalle Brigate Nere e fucilati. Offende la memoria dei cittadini italiani che sono stati emarginati dalle infami leggi razziali, e poi deportati nei Lager, e poi ammazzati con il gas, e infine sciolti nei forni crematori. Ma hanno mai letto, questi soggetti, una pagina di Primo Levi? O di Etty Hillesum? O il Diario di Anna Frank?
Se c’è un paragone, sia pur flebile, che si può fare tra il dopoguerra e oggi, è che si tratta di due momenti difficili. Certo ben diversi, perché allora si usciva da una guerra che aveva fatto cinquanta milioni di morti: ma comunque due momenti difficili. Democristiani e comunisti - cioè uomini ideologicamente molto più distanti di quanto possano essere distanti oggi il centrosinistra e il centrodestra - si misero insieme per salvare il Paese, e a quell’intesa si diede il nome di arco costituzionale. Oggi un accordo tra forze diverse è schifato come «inciucio». Certo: i protagonisti di oggi sono nani, in confronto ai giganti di allora. Ma chi usa con disprezzo il termine «inciucio» che alternativa propone? Andare alle urne con questa legge elettorale, ben sapendo che non avremmo di nuovo alcun governo? Evidentemente sì, preferiscono il caos. Per questo li abbiamo chiamati «sfascisti».
Sfascisti i quali, a quanto pare, vorrebbero che in Italia diventasse perpetua la stagione dell’odio, quella in cui si fa a gara a chi urla e a chi insulta di più: così potrebbero continuare a prosperare con le proprie attività politiche ed editoriali, che appunto di urla e di insulti si nutrono. Beppe Grillo ieri ha rievocato lo spettro del fascismo. Ma in questi ultimi tempi chi ha incitato alla marcia su Roma? Chi ha detto di puntare a controllare il cento per cento delle Camere? Chi telecomanda i suoi parlamentari a credere obbedire combattere, e guai a chi osa parlare di bocca propria?
Naturalmente, nel de profundis intonato al 25 aprile, Grillo non ha mancato di ricordare «l’informazione corrotta», nella quale ci inserirà senz’altro, magari ripetendo la sesquipedale balla del finanziamento pubblico ai giornali, sempre buona per additare nemici da odiare. Una cosa giusta, però, Grillo ieri l’ha scritta: che «se i partigiani tornassero tra noi si metterebbero a piangere». E pensare che a farli piangere sarebbe uno che una volta faceva ridere.
Michele Brambilla
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Copyright 2013 La Stampa
ORA LA CONTESTAZIONE ARRIVA DAGLI “SFASCISTI”
Una volta a sporcare il 25 aprile erano i fascisti. Ora ci pensano gli sfascisti, quelli che la democrazia è sospesa ed Enrico Letta è come il maresciallo Pétain.
Ieri Nichi Vendola, a chi gli chiedeva un parallelo tra il governo di unità nazionale del dopoguerra e quello di larghe intese che (forse) sta per essere varato, ha detto che sono due cose imparagonabili perché «nel Cln non c’erano i fascisti».
Come dire che oggi, invece, ci sono. Infatti Paolo Flores d’Arcais ha detto che «il Pd sta rinnegando i valori della Resistenza, l’accordo con il Pdl insulta i partigiani». Un redivivo Di Pietro, poi, ha scritto sul suo sito che non riesce a festeggiare il 25 aprile perché «l’Italia di oggi non è un Paese libero e dopo le elezioni la Liberazione invece di avvicinarsi si è allontanata» (forse perché lui non è stato rieletto?).
Ma naturalmente il protagonista assoluto del funerale della festa di ieri è stato Beppe Grillo. «Il 25 aprile è morto», ha titolato l’home page del suo sito. È morto nella nomina di Enrico Letta («un membro del Bilderberg»), è morto «nell’abbraccio tra Bersani e Alfano», «nella rielezione di Napolitano», «nella mancata elezione di Rodotà», che era il suo candidato, forte di ben 4600 voti sul web e quindi unico vero rappresentante dell’intero popolo italiano.
Ovviamente, ciascuno è libero di pensare che un governo di larghe intese sia un errore. Così come ciascuno ha il diritto di desiderare che Berlusconi stia il più lontano possibile dal governo del Paese. Ma chi paragona un governo Pd-Pdl al fascismo e il berlusconismo al ventennio di Mussolini, offende - oltre che la propria salute mentale - la Storia e soprattutto la memoria di quelli che la Resistenza l’hanno fatta davvero. Di quelli che quando in Italia c’era la dittatura del Duce, e non quella «dei partiti», finivano in galera o al confino; che hanno poi combattuto contro i panzer della Wehrmacht e contro le SS; che sono stati torturati dalle Brigate Nere e fucilati. Offende la memoria dei cittadini italiani che sono stati emarginati dalle infami leggi razziali, e poi deportati nei Lager, e poi ammazzati con il gas, e infine sciolti nei forni crematori. Ma hanno mai letto, questi soggetti, una pagina di Primo Levi? O di Etty Hillesum? O il Diario di Anna Frank?
Se c’è un paragone, sia pur flebile, che si può fare tra il dopoguerra e oggi, è che si tratta di due momenti difficili. Certo ben diversi, perché allora si usciva da una guerra che aveva fatto cinquanta milioni di morti: ma comunque due momenti difficili. Democristiani e comunisti - cioè uomini ideologicamente molto più distanti di quanto possano essere distanti oggi il centrosinistra e il centrodestra - si misero insieme per salvare il Paese, e a quell’intesa si diede il nome di arco costituzionale. Oggi un accordo tra forze diverse è schifato come «inciucio». Certo: i protagonisti di oggi sono nani, in confronto ai giganti di allora. Ma chi usa con disprezzo il termine «inciucio» che alternativa propone? Andare alle urne con questa legge elettorale, ben sapendo che non avremmo di nuovo alcun governo? Evidentemente sì, preferiscono il caos. Per questo li abbiamo chiamati «sfascisti».
Sfascisti i quali, a quanto pare, vorrebbero che in Italia diventasse perpetua la stagione dell’odio, quella in cui si fa a gara a chi urla e a chi insulta di più: così potrebbero continuare a prosperare con le proprie attività politiche ed editoriali, che appunto di urla e di insulti si nutrono. Beppe Grillo ieri ha rievocato lo spettro del fascismo. Ma in questi ultimi tempi chi ha incitato alla marcia su Roma? Chi ha detto di puntare a controllare il cento per cento delle Camere? Chi telecomanda i suoi parlamentari a credere obbedire combattere, e guai a chi osa parlare di bocca propria?
Naturalmente, nel de profundis intonato al 25 aprile, Grillo non ha mancato di ricordare «l’informazione corrotta», nella quale ci inserirà senz’altro, magari ripetendo la sesquipedale balla del finanziamento pubblico ai giornali, sempre buona per additare nemici da odiare. Una cosa giusta, però, Grillo ieri l’ha scritta: che «se i partigiani tornassero tra noi si metterebbero a piangere». E pensare che a farli piangere sarebbe uno che una volta faceva ridere.
Michele Brambilla
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Flop di Crimi-Lombardi in streaming: così Letta vendicò Bersani...
Da La Stampa
Letta vendica Bersani
Il premier incaricato rilancia su legge elettorale e misure anti-casta
Postulato: niente rende una riunione più artefatta di una diretta streaming. Ma la recita, così aderente al copione, può sorprendere la prima volta. A Pierluigi Bersani successe e ci rimediò l’umiliazione che sappiamo.
Ed Enrico Letta raccontò quanto i ragazzi a cinque stelle gli fossero apparsi scorbutici (eufemismo). «Ci sembra di essere a Ballarò», disse Roberta Lombardi e tutti lo ricordano. Ieri non è stato diverso: un vertice per la formazione del governo è stato trasformato in un talk show neanche tanto ciccioso e neanche tanto vivace, dove i grillini avevano la necessità di testimoniare la loro incorruttibile differenza, e non gli importava di trovare punti di contatto (attività ormai considerata prossima all’alto tradimento); e dove Letta era impegnato a dimostrare che lui stavolta non ci sarebbe cascato: non avrebbe fatto la fine di Bersani, che parlava ai cinque stelle pensando di avere di fronte degli interlocutori, mentre i cinque stelle parlavano alla telecamera a beneficio dei simpatizzanti, perché vedessero quant’erano bravi a mettere nel sacco il dinosauro post-comunista. È questo il risultato della trasparenza elevata a feticcio della politica rinnovabile (tranne quando si tratta di riunioni interne al M5S: allora lì subentra un comprensibile carbonarismo).
E così Letta a questo giro si aspettava il trucchetto e ha ribaltato tutto. Sarà perché coi quarantenni grillini è sintonizzato, ha grosso modo la stessa età, la stessa franchezza, forse la stessa rapidità di esecuzione, come loro è cresciuto davanti alla tv e al computer (però ha anche studiato), è post-ideologico e non si perde dietro a pregiudizi di impresentabilità, oppure sarà che ha velocemente messo a frutto l’esperienza del primo rendez-vous, ma ha davvero ribaltato tutto. Ha accettato una parte pure un po’ irrituale. Già l’altra volta partecipò all’incontro non si sa a che titolo, visto che è vicesegretario del Pd ma a quel tavolo Bersani sedeva da premier (semi)incaricato e non da leader di partito. Ieri Letta se l’è giocata da segretario facente funzioni più che da uomo di governo. Ed è stata una passeggiata: quando Vito Crimi gli ha detto che sarebbe stato bene se anche il Pd avesse scelto i suoi con consultazioni on line, a Letta non è sembrato vero, e ha risposto che Stefano Rodotà è stato votato da 4 mila 677 elettori del web, mentre Ignazio Marino ha ottenuto la candidatura a sindaco di Roma da 50 mila persone convenute ai gazebo. E lì la Lombardi («da romana») s’è agganciata per chiedere quanto fosse morale che Marino si buttasse sul Campidoglio dopo essere stato eletto senatore. Stiamo un po’ uscendo dal seminato, ha detto Letta, ma siccome è così raro il privilegio di avervi qui...
Niente più regole? Ebbene, niente più regole: Letta ha accettato il ring. Ha accettato il balletto a beneficio di telecamera. Tanto non c’era nulla da decidere: il premier incaricato sapeva che non avrebbe mai convinto i cinque stelle a votargli la fiducia, e i cinque stelle sapevano non si sarebbero fatti convincere da niente. Contava soltanto l’esito dell’imboscata. E allora Letta ha estratto la lista luccicante: via i rimborsi elettorali (e la Lombardi gli ha allungato la proposta di riforma con un piccolo irrimediabile ritardo), riduzione dei parlamentari, abolizione delle province, fine del bicameralismo perfetto, modifica della legge elettorale. Il cedimento dei ragazzi di Grillo, privati delle rivendicazioni preferite, è stato progressivo. Si sono persino dimenticati di chiedere conto al dirimpettaio delle sue frequentazioni col gruppo Bilderberg, uno dei grandi miti demoniaci del web. Il cittadino-deputato Mario Michele Giarrusso si è arrischiato in un ultimo assalto: «Non ho sentito parlare di legge elettorale». E Letta: «Ne ho parlato: c’è la diretta streaming». Ecco, la diretta streming che in sessanta giorni è stata prosciugata e resa quasi inservibile. Buona soltanto come qualsiasi altro terreno per sfide di tattica. Altro che casa di cristallo. E buona però a mostrarci il solito Letta conciliante ed ecumenico, ma anche più disincantato, più cinico, più rapido. Chissà, magari è il tempo che stringe. Oppure è lui che fronteggia la grandezza del compito.
Letta vendica Bersani
Il premier incaricato rilancia su legge elettorale e misure anti-casta
Postulato: niente rende una riunione più artefatta di una diretta streaming. Ma la recita, così aderente al copione, può sorprendere la prima volta. A Pierluigi Bersani successe e ci rimediò l’umiliazione che sappiamo.
Ed Enrico Letta raccontò quanto i ragazzi a cinque stelle gli fossero apparsi scorbutici (eufemismo). «Ci sembra di essere a Ballarò», disse Roberta Lombardi e tutti lo ricordano. Ieri non è stato diverso: un vertice per la formazione del governo è stato trasformato in un talk show neanche tanto ciccioso e neanche tanto vivace, dove i grillini avevano la necessità di testimoniare la loro incorruttibile differenza, e non gli importava di trovare punti di contatto (attività ormai considerata prossima all’alto tradimento); e dove Letta era impegnato a dimostrare che lui stavolta non ci sarebbe cascato: non avrebbe fatto la fine di Bersani, che parlava ai cinque stelle pensando di avere di fronte degli interlocutori, mentre i cinque stelle parlavano alla telecamera a beneficio dei simpatizzanti, perché vedessero quant’erano bravi a mettere nel sacco il dinosauro post-comunista. È questo il risultato della trasparenza elevata a feticcio della politica rinnovabile (tranne quando si tratta di riunioni interne al M5S: allora lì subentra un comprensibile carbonarismo).
E così Letta a questo giro si aspettava il trucchetto e ha ribaltato tutto. Sarà perché coi quarantenni grillini è sintonizzato, ha grosso modo la stessa età, la stessa franchezza, forse la stessa rapidità di esecuzione, come loro è cresciuto davanti alla tv e al computer (però ha anche studiato), è post-ideologico e non si perde dietro a pregiudizi di impresentabilità, oppure sarà che ha velocemente messo a frutto l’esperienza del primo rendez-vous, ma ha davvero ribaltato tutto. Ha accettato una parte pure un po’ irrituale. Già l’altra volta partecipò all’incontro non si sa a che titolo, visto che è vicesegretario del Pd ma a quel tavolo Bersani sedeva da premier (semi)incaricato e non da leader di partito. Ieri Letta se l’è giocata da segretario facente funzioni più che da uomo di governo. Ed è stata una passeggiata: quando Vito Crimi gli ha detto che sarebbe stato bene se anche il Pd avesse scelto i suoi con consultazioni on line, a Letta non è sembrato vero, e ha risposto che Stefano Rodotà è stato votato da 4 mila 677 elettori del web, mentre Ignazio Marino ha ottenuto la candidatura a sindaco di Roma da 50 mila persone convenute ai gazebo. E lì la Lombardi («da romana») s’è agganciata per chiedere quanto fosse morale che Marino si buttasse sul Campidoglio dopo essere stato eletto senatore. Stiamo un po’ uscendo dal seminato, ha detto Letta, ma siccome è così raro il privilegio di avervi qui...
Niente più regole? Ebbene, niente più regole: Letta ha accettato il ring. Ha accettato il balletto a beneficio di telecamera. Tanto non c’era nulla da decidere: il premier incaricato sapeva che non avrebbe mai convinto i cinque stelle a votargli la fiducia, e i cinque stelle sapevano non si sarebbero fatti convincere da niente. Contava soltanto l’esito dell’imboscata. E allora Letta ha estratto la lista luccicante: via i rimborsi elettorali (e la Lombardi gli ha allungato la proposta di riforma con un piccolo irrimediabile ritardo), riduzione dei parlamentari, abolizione delle province, fine del bicameralismo perfetto, modifica della legge elettorale. Il cedimento dei ragazzi di Grillo, privati delle rivendicazioni preferite, è stato progressivo. Si sono persino dimenticati di chiedere conto al dirimpettaio delle sue frequentazioni col gruppo Bilderberg, uno dei grandi miti demoniaci del web. Il cittadino-deputato Mario Michele Giarrusso si è arrischiato in un ultimo assalto: «Non ho sentito parlare di legge elettorale». E Letta: «Ne ho parlato: c’è la diretta streaming». Ecco, la diretta streming che in sessanta giorni è stata prosciugata e resa quasi inservibile. Buona soltanto come qualsiasi altro terreno per sfide di tattica. Altro che casa di cristallo. E buona però a mostrarci il solito Letta conciliante ed ecumenico, ma anche più disincantato, più cinico, più rapido. Chissà, magari è il tempo che stringe. Oppure è lui che fronteggia la grandezza del compito.
Sull' IMU si sbizzarriscono i creativi della copertura finanziaria...
Da La Stampa
La proposta Pd, mentre il Pdl vuole abolirla
Un compromesso sull’Imu
Tagliata ai redditi bassi
Sul tavolo del premier incaricato, Enrico Letta, le proposte dei partiti per addolcire l’amara pillola dell’Imu formano oramai una bella pila. E l’impressione è che, comunque vada, la tassa «più odiata dagli italiani» forse già con la rata di luglio finirà per pesare meno sulle tasche dei proprietari di prima casa. C’è chi, come Berlusconi, della cancellazione dell’imposta sulla prima casa e persino della restituzione di quanto già versato ne ha fatto un cavallo di battaglia. Chi come il Pd propone di esentare dal pagamento chi possiede appartamenti di valore medio-basso. O ancora chi come i montiani punta ad ammorbidire l’Imu soprattutto per chi ha redditi familiari più modesti. E lo stesso Letta avrebbe preso nota con un certo interesse della proposta avanzata da Fratelli d’Italia, che per rimborsare l’imposta sulla prima casa suggerisce di emettere Titoli di Stato decennali «da rimborsare con gli interessi che Monte Paschi deve pagare per il prestito ottenuto dal governo Monti», spiega Ignazio La Russa. Dimenticando però di dire che quegli interessi sono già stati inscritti alla voce «entrate» nel bilancio dello Stato.
Comunque sia intorno all’Imu si sta giocando una battaglia non meno decisiva di quella sui ministri per le sorti del governo. Alfano ha ribadito che l’abrogazione della tassa è uno dei punti essenziali per l’ok del Pdl ma a smorzare i toni ci ha pensato proprio Silvio Berlusconi, dichiarando che il compromesso sull’Imu dipenderà dall’equilibrio complessivo degli interventi economici. Equilibrio che dovrà essere però anche finanziario, visto che abrogare l’Imu sulla prima casa, come ha ricordato ieri la Cgia di Mestre, costa 4 miliardi di euro e restituire quanto già versato il doppio. Ecco perché guadagnano punti le proposte meno drastiche di riduzione dell’impatto sui proprietari di prima casa, magari non di lusso. Il Pd insiste sulla sua formula della franchigia di 500 euro: chi ha pagato fino a quella somma non pagherebbe più. In pratica a Torino un appartamento in semiperiferia di 80 mq sarebbe esente, a Roma e Milano basterebbe superare i 60 mq per pagare. Sicuramente più accattivante è la proposta di Fratelli d’Italia, che i soldi per un colpo di spugna su tutte le prime case li ricaverebbe emettendo Bot finanziati dagli interessi dovuti da Mps allo Stato. «Una buona idea» ha commentato il leghista Attilio Fontana, presidente di Anci Lombardia.
Il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi, invece fa altri conti: «l’Erario ha incassato 3,6 miliardi di euro in più con il gettito Imu. Se questi soldi sono già stati spesi ci dicano dove, altrimenti ci sono le risorse per restituire l’imposta sulla prima casa».
Più morbida la posizione della parlamentare di Scelta Civica, Linda Lanzillotta, che «nei limiti consentiti dai vincoli di finanza pubblica», vede possibile una riforma Imu, «incrociando valori catastali, reddito familiare, composizione della famiglia e differenziando gli immobili utilizzati per l’attività d’impresa». «Una soluzione si trova», taglia corto il montiano Lorenzo Dellai, «basta che non diventi un pretesto per il Pdl». Che pur restando ufficialmente fermo sul punto dell’abrogazione-restituzione, dalle parole del Cavaliere sembra però disposto a trattare, in cambio di qualche altra contropartita nel programma del nuovo governo. Una cosa è però certa. Qualsiasi soluzione dovrà fare i conti con quanto messo nero su bianco dal Documento di economia e finanza appena approvato e con la posizione espressa a chiare lettere da Bankitalia e Corte dei Conti: abolire l’Imu sulla prima casa è possibile solo a condizione che venga sostituita con una tassa equivalente o che si proceda a nuove manovre. I creativi delle coperture finanziarie sono avvisati.
paolo russo
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La proposta Pd, mentre il Pdl vuole abolirla
Un compromesso sull’Imu
Tagliata ai redditi bassi
Sul tavolo del premier incaricato, Enrico Letta, le proposte dei partiti per addolcire l’amara pillola dell’Imu formano oramai una bella pila. E l’impressione è che, comunque vada, la tassa «più odiata dagli italiani» forse già con la rata di luglio finirà per pesare meno sulle tasche dei proprietari di prima casa. C’è chi, come Berlusconi, della cancellazione dell’imposta sulla prima casa e persino della restituzione di quanto già versato ne ha fatto un cavallo di battaglia. Chi come il Pd propone di esentare dal pagamento chi possiede appartamenti di valore medio-basso. O ancora chi come i montiani punta ad ammorbidire l’Imu soprattutto per chi ha redditi familiari più modesti. E lo stesso Letta avrebbe preso nota con un certo interesse della proposta avanzata da Fratelli d’Italia, che per rimborsare l’imposta sulla prima casa suggerisce di emettere Titoli di Stato decennali «da rimborsare con gli interessi che Monte Paschi deve pagare per il prestito ottenuto dal governo Monti», spiega Ignazio La Russa. Dimenticando però di dire che quegli interessi sono già stati inscritti alla voce «entrate» nel bilancio dello Stato.
Comunque sia intorno all’Imu si sta giocando una battaglia non meno decisiva di quella sui ministri per le sorti del governo. Alfano ha ribadito che l’abrogazione della tassa è uno dei punti essenziali per l’ok del Pdl ma a smorzare i toni ci ha pensato proprio Silvio Berlusconi, dichiarando che il compromesso sull’Imu dipenderà dall’equilibrio complessivo degli interventi economici. Equilibrio che dovrà essere però anche finanziario, visto che abrogare l’Imu sulla prima casa, come ha ricordato ieri la Cgia di Mestre, costa 4 miliardi di euro e restituire quanto già versato il doppio. Ecco perché guadagnano punti le proposte meno drastiche di riduzione dell’impatto sui proprietari di prima casa, magari non di lusso. Il Pd insiste sulla sua formula della franchigia di 500 euro: chi ha pagato fino a quella somma non pagherebbe più. In pratica a Torino un appartamento in semiperiferia di 80 mq sarebbe esente, a Roma e Milano basterebbe superare i 60 mq per pagare. Sicuramente più accattivante è la proposta di Fratelli d’Italia, che i soldi per un colpo di spugna su tutte le prime case li ricaverebbe emettendo Bot finanziati dagli interessi dovuti da Mps allo Stato. «Una buona idea» ha commentato il leghista Attilio Fontana, presidente di Anci Lombardia.
Il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi, invece fa altri conti: «l’Erario ha incassato 3,6 miliardi di euro in più con il gettito Imu. Se questi soldi sono già stati spesi ci dicano dove, altrimenti ci sono le risorse per restituire l’imposta sulla prima casa».
Più morbida la posizione della parlamentare di Scelta Civica, Linda Lanzillotta, che «nei limiti consentiti dai vincoli di finanza pubblica», vede possibile una riforma Imu, «incrociando valori catastali, reddito familiare, composizione della famiglia e differenziando gli immobili utilizzati per l’attività d’impresa». «Una soluzione si trova», taglia corto il montiano Lorenzo Dellai, «basta che non diventi un pretesto per il Pdl». Che pur restando ufficialmente fermo sul punto dell’abrogazione-restituzione, dalle parole del Cavaliere sembra però disposto a trattare, in cambio di qualche altra contropartita nel programma del nuovo governo. Una cosa è però certa. Qualsiasi soluzione dovrà fare i conti con quanto messo nero su bianco dal Documento di economia e finanza appena approvato e con la posizione espressa a chiare lettere da Bankitalia e Corte dei Conti: abolire l’Imu sulla prima casa è possibile solo a condizione che venga sostituita con una tassa equivalente o che si proceda a nuove manovre. I creativi delle coperture finanziarie sono avvisati.
paolo russo
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giovedì 25 aprile 2013
La profezia di Roubini su cosa farà Berlusconi per rovinare l'Italia...
Da La Stampa
“È un leader serio e rispettato
Ma Berlusconi lo boicotterà”
L’economista Roubini: “Gli staccherà la spina per vincere le elezioni”
Nouriel Roubini, professore di economia della NYU, profeta in tempi non sospetti della crisi finanziaria del 2008, cosa ne pensa della nomina di Enrico Letta alla guida del governo? «Una scelta positiva, è un leader serio, rispettato e con grandi competenze economiche. È apprezzato a Bruxelles e nel mondo». Sembra meno pessimista del solito... «Attenzione, anche questo governo potrebbe non sopravvivrebbe più di sei mesi o un anno, perchè sarà osteggiato sostanzialmente in ogni sua iniziativa seria da Silvio Berlusconi. Potrà fare qualche riforma istituzionale di facciata, ma dal momento che il Pd è spaccato, nel giro di sei mesi c’è il rischio che il Pdl stacchi la spina all’esecutivo. Berlusconi vincerebbe le elezioni a mani basse e chiederebbe le dimissioni di Napolitano raggiungendo il suo obiettivo di diventare Presidente. Un disastro, ma è lo scenario più probabile». Un fallimento annunciato? «Il Pd deve cercare di non sfaldarsi del tutto e se si va a nuove elezioni - se e quando il governo Letta verrà boicottato dal Pdl - dovrà scegliere un nuovo leader carismatico come Renzi per tener testa a Berlusconi. Letta, Renzi e Barca dovranno trovare un compromesso che non distrugga il Pd per avere un fronte unito rispetto a Berlusconi». Ed in tutto questo Beppe Grillo? «Il Movimento 5 stelle ha qualche aspetto interessante, sulla portata riformista, ma la sua ostinazione contro il compromesso e per la disintegrazione dello status quo per principio, distoglie il Paese dalle sue reali esigenze. In caso di ritorno alle urne Grillo è destinato a perdere consensi e questo agevolerebbe ulteriormente il trionfo di Berlusconi e dei suoi piani. Questo porterà il Paese al baratro. In uno scenario del genere c’è un terzo di probabilità che, entro due o tre anni, l’Italia finisca in bancarotta». Di cosa ha bisogno l’Italia? «Le riforme strutturali sono più importanti dell’austerità e del consolidamento fiscale, l’interpretazione ultraortodossa dell’austerity sta portando all’implosione, non solo nel vostro Paese. La formula è andare in parallelo con il consolidamento e le riforme, e se si vuole accelerare sulle seconde occorre rallentare con il primo. In Italia, inoltre, c’è un problema di corruzione e Berlusconi è parte di questo problema, occorre inoltre rendere più flessibile il sistema economico, riformare il mercato del lavoro e aumentare competitività e produttività, e rompere i monopoli portando liberalizzazioni reali». Al Fmi si è parlato molto del binomio austerità-crescita... «Con le riforme strutturali è ovvio che bisogna rafforzare la domanda aggregata altrimenti la recessione si fa più acuta. La mia proposta in questo senso, non solo per l’Italia ma per tutti i Paesi a moneta unica è una politica monetaria di maggiore alleggerimento da parte della Banca centrale europea, agevolare l’accesso al credito per evitare che le piccole e medie imprese rimangano soffocate, in particolare in Italia. Inoltre l’euro è troppo forte e questa danneggia i Paesi della periferia dell’area a moneta unica, dovrebbe essere del 20% inferiore». In questo senso si potrebbe fare di più in Eurozona? «In particolare la Germania, ha margini di manovra per procedere a stimoli fiscali grazie al suo surplus, dovrebbe spendere di più e risparmiare meno, ma non lo farà e ciò rappresenta un problema». Poi c’è la «peste» della disoccupazione... «Specialmente giovanile, su cui proporremo un progetto per l’area a moneta unica. Un prestito di 20 mila euro pro-capite a lungo termine e interessi bassi, da restituire in una ventina di anni. Ad emetterlo potrebbe essere la Bei, con un investimento di cento miliardi di euro complessivi, meno dell’1% del Pil dell’Eurozona per assumere e formare 5 milioni di giovani senza lavoro».
francesco semprini
“È un leader serio e rispettato
Ma Berlusconi lo boicotterà”
L’economista Roubini: “Gli staccherà la spina per vincere le elezioni”
Nouriel Roubini, professore di economia della NYU, profeta in tempi non sospetti della crisi finanziaria del 2008, cosa ne pensa della nomina di Enrico Letta alla guida del governo? «Una scelta positiva, è un leader serio, rispettato e con grandi competenze economiche. È apprezzato a Bruxelles e nel mondo». Sembra meno pessimista del solito... «Attenzione, anche questo governo potrebbe non sopravvivrebbe più di sei mesi o un anno, perchè sarà osteggiato sostanzialmente in ogni sua iniziativa seria da Silvio Berlusconi. Potrà fare qualche riforma istituzionale di facciata, ma dal momento che il Pd è spaccato, nel giro di sei mesi c’è il rischio che il Pdl stacchi la spina all’esecutivo. Berlusconi vincerebbe le elezioni a mani basse e chiederebbe le dimissioni di Napolitano raggiungendo il suo obiettivo di diventare Presidente. Un disastro, ma è lo scenario più probabile». Un fallimento annunciato? «Il Pd deve cercare di non sfaldarsi del tutto e se si va a nuove elezioni - se e quando il governo Letta verrà boicottato dal Pdl - dovrà scegliere un nuovo leader carismatico come Renzi per tener testa a Berlusconi. Letta, Renzi e Barca dovranno trovare un compromesso che non distrugga il Pd per avere un fronte unito rispetto a Berlusconi». Ed in tutto questo Beppe Grillo? «Il Movimento 5 stelle ha qualche aspetto interessante, sulla portata riformista, ma la sua ostinazione contro il compromesso e per la disintegrazione dello status quo per principio, distoglie il Paese dalle sue reali esigenze. In caso di ritorno alle urne Grillo è destinato a perdere consensi e questo agevolerebbe ulteriormente il trionfo di Berlusconi e dei suoi piani. Questo porterà il Paese al baratro. In uno scenario del genere c’è un terzo di probabilità che, entro due o tre anni, l’Italia finisca in bancarotta». Di cosa ha bisogno l’Italia? «Le riforme strutturali sono più importanti dell’austerità e del consolidamento fiscale, l’interpretazione ultraortodossa dell’austerity sta portando all’implosione, non solo nel vostro Paese. La formula è andare in parallelo con il consolidamento e le riforme, e se si vuole accelerare sulle seconde occorre rallentare con il primo. In Italia, inoltre, c’è un problema di corruzione e Berlusconi è parte di questo problema, occorre inoltre rendere più flessibile il sistema economico, riformare il mercato del lavoro e aumentare competitività e produttività, e rompere i monopoli portando liberalizzazioni reali». Al Fmi si è parlato molto del binomio austerità-crescita... «Con le riforme strutturali è ovvio che bisogna rafforzare la domanda aggregata altrimenti la recessione si fa più acuta. La mia proposta in questo senso, non solo per l’Italia ma per tutti i Paesi a moneta unica è una politica monetaria di maggiore alleggerimento da parte della Banca centrale europea, agevolare l’accesso al credito per evitare che le piccole e medie imprese rimangano soffocate, in particolare in Italia. Inoltre l’euro è troppo forte e questa danneggia i Paesi della periferia dell’area a moneta unica, dovrebbe essere del 20% inferiore». In questo senso si potrebbe fare di più in Eurozona? «In particolare la Germania, ha margini di manovra per procedere a stimoli fiscali grazie al suo surplus, dovrebbe spendere di più e risparmiare meno, ma non lo farà e ciò rappresenta un problema». Poi c’è la «peste» della disoccupazione... «Specialmente giovanile, su cui proporremo un progetto per l’area a moneta unica. Un prestito di 20 mila euro pro-capite a lungo termine e interessi bassi, da restituire in una ventina di anni. Ad emetterlo potrebbe essere la Bei, con un investimento di cento miliardi di euro complessivi, meno dell’1% del Pil dell’Eurozona per assumere e formare 5 milioni di giovani senza lavoro».
francesco semprini
Larghe pretese. il Buongiorno di Gramellini
Da La Stampa
Mister Enricooo! Ciao, sono IO, l’amico dello zio Gianni. Sempre forza Milan. E tante sentite condoglianze per la scomparsa del Pd: credimi, è stata una perdita dura per tutti. Ti vorrei parlare del governo delle larghe pretese. Buone notizie sul programma: ho appena raggiunto un accordo di massima tra me e me. Niente conflitto di interessi, niente leggi contro la corruzione, niente che possa dare fastidio al sottoscritto e alle sue aziende, insomma. Passando alle questioni che più stanno a cuore ai cittadini, avrei pensato di mettere al ministero della Giustizia un giudice di pace: Daniela Santanché… Dai, era una battuta, voi cattocomunisti siete proprio permalosi. Agli Interni invece voglio Schifani… No, Enrico, questa non è una battuta. La Cancellieri non va bene, lo capisci da solo: ha sciolto troppi comuni del Pdl per mafia. Ti sembra democrazia proporzionale, questa? Se il ministro ne scioglie per mafia tre a noi, poi deve scioglierne anche tre a voi, due e mezzo ai grillini e uno alla Sudtiroler Volkspartei.
Su, non fare quella faccia da convegno di Cernobbio, altrimenti ti mando a Palazzo Chigi lo zio Gianni come ministro della Famiglia. Hai sentito cosa ha detto il Capo dello Stato? Soltanto in Italia l’accordo fra partiti diversi suscita orrore…. E’ anche vero che soltanto in Italia ci sono io. Te lo vedi un Enrico Letta tedesco o francese fare accordi con Angela Berluskel o con Berluskozy? Almeno a te è toccato l’originale. A presto, caro, e ancora complimenti per la tua nomina a vicepresidente!
Massimo Gramellini
Mister Enricooo! Ciao, sono IO, l’amico dello zio Gianni. Sempre forza Milan. E tante sentite condoglianze per la scomparsa del Pd: credimi, è stata una perdita dura per tutti. Ti vorrei parlare del governo delle larghe pretese. Buone notizie sul programma: ho appena raggiunto un accordo di massima tra me e me. Niente conflitto di interessi, niente leggi contro la corruzione, niente che possa dare fastidio al sottoscritto e alle sue aziende, insomma. Passando alle questioni che più stanno a cuore ai cittadini, avrei pensato di mettere al ministero della Giustizia un giudice di pace: Daniela Santanché… Dai, era una battuta, voi cattocomunisti siete proprio permalosi. Agli Interni invece voglio Schifani… No, Enrico, questa non è una battuta. La Cancellieri non va bene, lo capisci da solo: ha sciolto troppi comuni del Pdl per mafia. Ti sembra democrazia proporzionale, questa? Se il ministro ne scioglie per mafia tre a noi, poi deve scioglierne anche tre a voi, due e mezzo ai grillini e uno alla Sudtiroler Volkspartei.
Su, non fare quella faccia da convegno di Cernobbio, altrimenti ti mando a Palazzo Chigi lo zio Gianni come ministro della Famiglia. Hai sentito cosa ha detto il Capo dello Stato? Soltanto in Italia l’accordo fra partiti diversi suscita orrore…. E’ anche vero che soltanto in Italia ci sono io. Te lo vedi un Enrico Letta tedesco o francese fare accordi con Angela Berluskel o con Berluskozy? Almeno a te è toccato l’originale. A presto, caro, e ancora complimenti per la tua nomina a vicepresidente!
Massimo Gramellini
mercoledì 24 aprile 2013
Piemonte, massime tra 18,1 e 23 gradi...
Alpi Marittime, a 1875 mt ancora 238 cm di neve al suolo...!
Il Gegenshein e la Via Lattea da Las Campanas...
Airglow, Gegenschein e Via Lattea
Immagine Credit & Copyright: Yuri Beletsky (Las Campanas Observatory, Carnegie Institution)
Spiegazione: Per quanto riguarda l'occhio, era una notte buia a Las Campanas Observatory nel deserto di Atacama del Cile meridionale. Ma verso la mezzanotte locale l'11 aprile, questo mosaico di 3 lunghe esposizioni ha rivelato un verde riverbero atmosferico insolitamente intenso che si estendeva sopra le nuvole sottili. A differenza delle aurore boreali alimentate da collisioni con particelle cariche energetiche, ad alte latitudini, il riverbero notturno è dovuto alla produzione di luce in una reazione chimica. L'energia chimica è fornita dalla radiazione ultravioletta del sole. Come per le aurore, la tonalità verdastra di questo riverbero notturno ha origine ad altitudini di 100 km o giù di lì dominata da emissioni da atomi di ossigeno eccitati. Il Gegenschein, luce solare riflessa dalla polvere lungo il piano dell'eclittica del sistema solare era ancora visibile in quella notte, una debole nube bluastra appena a destra del centro dell'immagine. All'estrema destra, la Via Lattea. A sinistra le cupole del progetto OGLE .
(Da APOD )
Immagine Credit & Copyright: Yuri Beletsky (Las Campanas Observatory, Carnegie Institution)
Spiegazione: Per quanto riguarda l'occhio, era una notte buia a Las Campanas Observatory nel deserto di Atacama del Cile meridionale. Ma verso la mezzanotte locale l'11 aprile, questo mosaico di 3 lunghe esposizioni ha rivelato un verde riverbero atmosferico insolitamente intenso che si estendeva sopra le nuvole sottili. A differenza delle aurore boreali alimentate da collisioni con particelle cariche energetiche, ad alte latitudini, il riverbero notturno è dovuto alla produzione di luce in una reazione chimica. L'energia chimica è fornita dalla radiazione ultravioletta del sole. Come per le aurore, la tonalità verdastra di questo riverbero notturno ha origine ad altitudini di 100 km o giù di lì dominata da emissioni da atomi di ossigeno eccitati. Il Gegenschein, luce solare riflessa dalla polvere lungo il piano dell'eclittica del sistema solare era ancora visibile in quella notte, una debole nube bluastra appena a destra del centro dell'immagine. All'estrema destra, la Via Lattea. A sinistra le cupole del progetto OGLE .
(Da APOD )
Ponente ligure, il sole della Liberazione...
Ed ecco il Renzi-pensiero...
Da La Stampa
Matteo si presenta all’Europa
“Voglio cambiare l’Italia
e dico sì al presidenzialismo”
Prima intervista in contemporanea a 6 quotidiani tra cui La Stampa:
“I conti in ordine un dovere verso i nostri figli e non verso la Merkel”
Tony Blair come modello, anche perché «non ha avuto paura di sfidare i suoi capi» nel Labour Party. I Democratici di Obama come ispirazione politica. E poi il sogno di trasformare il Paese in «smart country», dove tutto sia più semplice. A partire dal sistema politico: solo due partiti e un meccanismo chiaro per eleggere «il sindaco d’Italia». È così che Matteo Renzi si presenta all’Europa, rassicurando sulla tenuta del Paese e avvertendo che in ogni caso l’Italia non può uscire dalla crisi solo con ricette di austerity.
L’occasione per la prima intervista europea a tutto campo di Renzi è l’uscita, contemporaneamente in sei paesi, di un nuovo numero di «Europa». Nelle ore in cui tutti lo cercano, mentre salgono e scendono le sue quotazioni come possibile premier, il sindaco di Firenze traccia per «La Stampa» e cinque corrispondenti esteri il suo ritratto di un Paese che guarda al futuro valorizzando la ricchezza del passato italiano. Un progetto di cui la figura stessa di Renzi si propone come sintesi, mentre parla seduto all’austero tavolo del suo studio - la sala di Clemente VII a Palazzo Vecchio - circondato da affreschi dei Medici e immerso in due iPad Mini (uno per Twitter, l’altro per verificare sul web dati e cifre).
Cosa direbbe per convincere l’Europa che può credere all’Italia dei prossimi anni? «Non penso che l’Europa debba avere paura dell’Italia. È vero che sommando il voto dei Cinque Stelle alla Lega e a quella parte di elettorato di Berlusconi contraria all’Europa, abbiamo per la prima volta anche in Italia, come in altri paesi, una possibile maggioranza antieuropea. Ma il voto a Grillo non è contro l’Europa, bensì contro i politici italiani. E per qualche aspetto è comprensibile, perché i signori in Parlamento non hanno fatto le riforme che dovevano fare» Condivide le critiche che vengono espresse sull’austerità tedesca? Vorrebbe tornare a un’Europa che spende di più? «L’Italia per troppi anni ha speso male e troppo. Quindi è stato giusto il richiamo a tenere i conti in ordine. Avrei voluto non una classe politica che dicesse “facciamo questo perché ce lo chiede la Merkel”, bensì facciamolo perché ce lo chiedono i nostri figli e nipoti. Detto questo, l’idea di un’austerità senza riforme e senza crescita è pericolosissima». Lei ha ipotizzato un governo che duri un anno, punti sulle riforme e abbia il lavoro al centro dell’attenzione. Qual è il ruolo di Matteo Renzi in questo scenario? «Il problema non sono io, ma l’Italia, che deve mostrare che le cose le fa. Non sono interessato a cambiare il Pd, mi interessa cambiare l’Italia. Mi può interessare cambiare il Pd se serve a cambiare il Paese. Perché se l’Italia fa l’Italia, stiamo meglio tutti compresa l’Europa. Mi sembra scontato che si vada verso un periodo di sei mesi, un anno, due anni di un governo di “grosse koalition”. Tra un anno o due ci saranno le nuove elezioni. Io ho 38 anni, sono un ragazzo molto fortunato, tutte le mattine lavoro in questo ufficio e dovrei pagare il biglietto per entrare. Non ho l’ambizione, come dice qualcuno, di cambiare poltrona. Vorrei cambiare il Paese». Come spiegherebbe all’estero l’operazione suicida che ha fatto il Pd sul Quirinale? «È mancata la leadership da parte del mio partito. Se ci fosse stata, le cose sarebbero andate diversamente. Non a caso Bersani in modo serio ha rassegnato le dimissioni. La vera sfida nel Pd ora è capire se abbiamo idee precise e siamo in grado di perseguirle, dall’ambiente all’innovazione, alle riforme del lavoro e della legge elettorale. I prossimi due mesi saranno decisivi per capire se il Pd è il partito democratico di Obama o la brutta copia dei partiti italiani degli anni ’90». La sua linea è quella dei democratici americani, ma nel suo partito c’è chi, come Barca, è su altre posizioni. Ci sarà un confronto? «I democratici in tutto il mondo sono questa cosa qua. Si chiama partito democratico, quello di Obama. Poi dentro ci possono stare anche anime diverse». C’è posto per queste due anime nel Pd? Non sarebbe meglio dividerlo? «Io vorrei solo due partiti in Italia, come dappertutto». Sa bene che questo è impossibile... «Ormai siete più rassegnati degli italiani! Ma non è così. Se ci fosse un modello elettorale con solo due partiti, sarebbe l’ideale. Il problema è che c’è una legge elettorale con la quale alla fine non sai chi ha vinto». Ha parlato di recente di presidenzialismo. Quale modello elettorale vorrebbe? C’è un sistema che ha in mente? «Non c’è un modello, si può prendere quello che vogliamo. Il punto centrale è che in Italia l’unico sistema elettorale che funziona è quello dei sindaci. Mi hanno eletto nel 2009, scado nel 2014, quello che devo fare lo faccio, quello che non riesco lo dico, ed eventualmente mi mandano a casa. Ma senza inciuci. È un meccanismo chiaro: serve il sindaco d’Italia. Se questo porta al presidenzialismo o al semi presidenzialismo, va bene». Lei cita Obama, ma in Gran Bretagna la paragonano più a Tony Blair. È un paragone positivo per lei? «Blair è stato una pietra miliare per la sinistra europea. Le critiche sul suo operato che sono venute dopo non possono cancellare il fatto che è un punto di riferimento straordinario. Adoro una sua frase: “Amo tutte le tradizioni del mio partito, tranne una: quella di perdere le elezioni”. Lo ammiro, è un modello per me anche perché non ha avuto paura di sfidare i suoi capi». Come batterebbe Berlusconi? «Voglio far parte di una generazione che non ha l’obiettivo di mandare Berlusconi in galera, ma di mandarlo in pensione. Berlusconi si combatte girando pagina, non andandogli contro. Si combatte dicendo che c’è un’altra Italia che è “smart country”. L’Italia delle cose concrete, che fa le cose che Berlusconi non ha fatto in 20 anni». E come si disinnesca Grillo, per Renzi? «Abolire il finanziamento pubblico ai partiti e le province, semplificare Camera e Senato, diminuire il numero dei parlamentari, dare immediatamente un segnale di svolta sulla pubblica amministrazione: questo è il modo di combattere Beppe Grillo. Lo combatto dicendo le cose che abbiamo detto e fatto prima di lui e sulle quali siamo più forti. Perché mi deve dare la linea Grillo? Non inseguo Grillo, gli sto lanciando la sfida».
Marco Bardazzi
Matteo si presenta all’Europa
“Voglio cambiare l’Italia
e dico sì al presidenzialismo”
Prima intervista in contemporanea a 6 quotidiani tra cui La Stampa:
“I conti in ordine un dovere verso i nostri figli e non verso la Merkel”
Tony Blair come modello, anche perché «non ha avuto paura di sfidare i suoi capi» nel Labour Party. I Democratici di Obama come ispirazione politica. E poi il sogno di trasformare il Paese in «smart country», dove tutto sia più semplice. A partire dal sistema politico: solo due partiti e un meccanismo chiaro per eleggere «il sindaco d’Italia». È così che Matteo Renzi si presenta all’Europa, rassicurando sulla tenuta del Paese e avvertendo che in ogni caso l’Italia non può uscire dalla crisi solo con ricette di austerity.
L’occasione per la prima intervista europea a tutto campo di Renzi è l’uscita, contemporaneamente in sei paesi, di un nuovo numero di «Europa». Nelle ore in cui tutti lo cercano, mentre salgono e scendono le sue quotazioni come possibile premier, il sindaco di Firenze traccia per «La Stampa» e cinque corrispondenti esteri il suo ritratto di un Paese che guarda al futuro valorizzando la ricchezza del passato italiano. Un progetto di cui la figura stessa di Renzi si propone come sintesi, mentre parla seduto all’austero tavolo del suo studio - la sala di Clemente VII a Palazzo Vecchio - circondato da affreschi dei Medici e immerso in due iPad Mini (uno per Twitter, l’altro per verificare sul web dati e cifre).
Cosa direbbe per convincere l’Europa che può credere all’Italia dei prossimi anni? «Non penso che l’Europa debba avere paura dell’Italia. È vero che sommando il voto dei Cinque Stelle alla Lega e a quella parte di elettorato di Berlusconi contraria all’Europa, abbiamo per la prima volta anche in Italia, come in altri paesi, una possibile maggioranza antieuropea. Ma il voto a Grillo non è contro l’Europa, bensì contro i politici italiani. E per qualche aspetto è comprensibile, perché i signori in Parlamento non hanno fatto le riforme che dovevano fare» Condivide le critiche che vengono espresse sull’austerità tedesca? Vorrebbe tornare a un’Europa che spende di più? «L’Italia per troppi anni ha speso male e troppo. Quindi è stato giusto il richiamo a tenere i conti in ordine. Avrei voluto non una classe politica che dicesse “facciamo questo perché ce lo chiede la Merkel”, bensì facciamolo perché ce lo chiedono i nostri figli e nipoti. Detto questo, l’idea di un’austerità senza riforme e senza crescita è pericolosissima». Lei ha ipotizzato un governo che duri un anno, punti sulle riforme e abbia il lavoro al centro dell’attenzione. Qual è il ruolo di Matteo Renzi in questo scenario? «Il problema non sono io, ma l’Italia, che deve mostrare che le cose le fa. Non sono interessato a cambiare il Pd, mi interessa cambiare l’Italia. Mi può interessare cambiare il Pd se serve a cambiare il Paese. Perché se l’Italia fa l’Italia, stiamo meglio tutti compresa l’Europa. Mi sembra scontato che si vada verso un periodo di sei mesi, un anno, due anni di un governo di “grosse koalition”. Tra un anno o due ci saranno le nuove elezioni. Io ho 38 anni, sono un ragazzo molto fortunato, tutte le mattine lavoro in questo ufficio e dovrei pagare il biglietto per entrare. Non ho l’ambizione, come dice qualcuno, di cambiare poltrona. Vorrei cambiare il Paese». Come spiegherebbe all’estero l’operazione suicida che ha fatto il Pd sul Quirinale? «È mancata la leadership da parte del mio partito. Se ci fosse stata, le cose sarebbero andate diversamente. Non a caso Bersani in modo serio ha rassegnato le dimissioni. La vera sfida nel Pd ora è capire se abbiamo idee precise e siamo in grado di perseguirle, dall’ambiente all’innovazione, alle riforme del lavoro e della legge elettorale. I prossimi due mesi saranno decisivi per capire se il Pd è il partito democratico di Obama o la brutta copia dei partiti italiani degli anni ’90». La sua linea è quella dei democratici americani, ma nel suo partito c’è chi, come Barca, è su altre posizioni. Ci sarà un confronto? «I democratici in tutto il mondo sono questa cosa qua. Si chiama partito democratico, quello di Obama. Poi dentro ci possono stare anche anime diverse». C’è posto per queste due anime nel Pd? Non sarebbe meglio dividerlo? «Io vorrei solo due partiti in Italia, come dappertutto». Sa bene che questo è impossibile... «Ormai siete più rassegnati degli italiani! Ma non è così. Se ci fosse un modello elettorale con solo due partiti, sarebbe l’ideale. Il problema è che c’è una legge elettorale con la quale alla fine non sai chi ha vinto». Ha parlato di recente di presidenzialismo. Quale modello elettorale vorrebbe? C’è un sistema che ha in mente? «Non c’è un modello, si può prendere quello che vogliamo. Il punto centrale è che in Italia l’unico sistema elettorale che funziona è quello dei sindaci. Mi hanno eletto nel 2009, scado nel 2014, quello che devo fare lo faccio, quello che non riesco lo dico, ed eventualmente mi mandano a casa. Ma senza inciuci. È un meccanismo chiaro: serve il sindaco d’Italia. Se questo porta al presidenzialismo o al semi presidenzialismo, va bene». Lei cita Obama, ma in Gran Bretagna la paragonano più a Tony Blair. È un paragone positivo per lei? «Blair è stato una pietra miliare per la sinistra europea. Le critiche sul suo operato che sono venute dopo non possono cancellare il fatto che è un punto di riferimento straordinario. Adoro una sua frase: “Amo tutte le tradizioni del mio partito, tranne una: quella di perdere le elezioni”. Lo ammiro, è un modello per me anche perché non ha avuto paura di sfidare i suoi capi». Come batterebbe Berlusconi? «Voglio far parte di una generazione che non ha l’obiettivo di mandare Berlusconi in galera, ma di mandarlo in pensione. Berlusconi si combatte girando pagina, non andandogli contro. Si combatte dicendo che c’è un’altra Italia che è “smart country”. L’Italia delle cose concrete, che fa le cose che Berlusconi non ha fatto in 20 anni». E come si disinnesca Grillo, per Renzi? «Abolire il finanziamento pubblico ai partiti e le province, semplificare Camera e Senato, diminuire il numero dei parlamentari, dare immediatamente un segnale di svolta sulla pubblica amministrazione: questo è il modo di combattere Beppe Grillo. Lo combatto dicendo le cose che abbiamo detto e fatto prima di lui e sulle quali siamo più forti. Perché mi deve dare la linea Grillo? Non inseguo Grillo, gli sto lanciando la sfida».
Marco Bardazzi
Qualcosa tipo... una Liberazione. Il Buongiorno di Gramellini
Da La Stampa
Qualcosa tipo una liberazione
Nell’esporre la sua netta contrarietà all’esecuzione di «Fischia il vento e infuria la bufera» durante le celebrazioni del 25 aprile, il commissario prefettizio di Alassio ha spiegato agli ultimi, stupefatti partigiani che la festa della Liberazione è apolitica. Non me ne voglia Sua Eccellenza, ma fatico a trovare una festa più politica dell’abbattimento di una dittatura. Politica in senso nobile e bello, al netto degli orrori reciproci che purtroppo fanno parte di ogni guerra civile.
Oggi il modo più diffuso per commemorare la Liberazione consiste nel rimuoverla, annegandola in un mare di ignoranza. Un signore ha scritto scandalizzato dopo avere udito all’uscita da una scuola la seguente conversazione tra ragazzi: «La prof dice che giovedì non c’è lezione». «Vero, c’è qualcosa tipo… una liberazione». Ma anche i pochi che sanno ancora di che cosa si tratta preferiscono non diffondere troppo la voce «per non offendere i reduci di Salò», come si è premurato di precisare il commissario di Alassio. Una sensibilità meritoria, se non fosse che a furia di attutire il senso del 25 aprile si è finito per ribaltarlo, riducendo la Resistenza alla componente filosovietica e trasformando le ferocie partigiane che pure ci sono state nella prova che fra chi combatteva a fianco degli Alleati e chi stava con i nazisti non esisteva alcuna differenza. La differenza invece c’era, ed era appunto politica. Se avessero vinto i reduci di Salò saremmo diventati una colonia di Hitler. Avendo vinto i partigiani, siamo una democrazia. Nonostante tutto, a 68 anni di distanza, il secondo scenario mi sembra ancora preferibile. Grazie, partigiani.
Qualcosa tipo una liberazione
Nell’esporre la sua netta contrarietà all’esecuzione di «Fischia il vento e infuria la bufera» durante le celebrazioni del 25 aprile, il commissario prefettizio di Alassio ha spiegato agli ultimi, stupefatti partigiani che la festa della Liberazione è apolitica. Non me ne voglia Sua Eccellenza, ma fatico a trovare una festa più politica dell’abbattimento di una dittatura. Politica in senso nobile e bello, al netto degli orrori reciproci che purtroppo fanno parte di ogni guerra civile.
Oggi il modo più diffuso per commemorare la Liberazione consiste nel rimuoverla, annegandola in un mare di ignoranza. Un signore ha scritto scandalizzato dopo avere udito all’uscita da una scuola la seguente conversazione tra ragazzi: «La prof dice che giovedì non c’è lezione». «Vero, c’è qualcosa tipo… una liberazione». Ma anche i pochi che sanno ancora di che cosa si tratta preferiscono non diffondere troppo la voce «per non offendere i reduci di Salò», come si è premurato di precisare il commissario di Alassio. Una sensibilità meritoria, se non fosse che a furia di attutire il senso del 25 aprile si è finito per ribaltarlo, riducendo la Resistenza alla componente filosovietica e trasformando le ferocie partigiane che pure ci sono state nella prova che fra chi combatteva a fianco degli Alleati e chi stava con i nazisti non esisteva alcuna differenza. La differenza invece c’era, ed era appunto politica. Se avessero vinto i reduci di Salò saremmo diventati una colonia di Hitler. Avendo vinto i partigiani, siamo una democrazia. Nonostante tutto, a 68 anni di distanza, il secondo scenario mi sembra ancora preferibile. Grazie, partigiani.
martedì 23 aprile 2013
Sondaggio tecnè: giù PD e M5s, su PDL e Cdestra
Sondaggi Tecnè: boom del Pdl, calano Pd e Movimento Cinque stelle. E sette italiani su dieci approvano il Napolitano bis
Da ANSA e Huffington Post :
Pd e M5S in calo, Pdl in salita. Il Pdl, da solo, sfiora peraltro il risultato dell'intero centrosinistra. Di rilievo è però soprattutto la crescita degli incerti e del non voto: ormai un italiano su due fa parte di quest'area, con un balzo di 10 punti rispetto alla scorsa settimana. Un 50 per cento, quindi, che è quasi il doppio dell'area del non voto alle elezioni (era intorno al 27%). E' la fotografia che emerge dal sondaggio Tecnè per Sky Tg24.
Questo il quadro delle intenzioni di voto per Camera e Senato (tra parentesi la differenza percentuale rispetto alla rilevazione del 17 aprile).
Il sondaggio ha anche ascoltato il giudizio del campione su altri due argomenti: la rielezione di Napolitano e le prospettive del dopo voto. Per quanto riguarda il Colle, i giudizi positivi sono il 74,5%, contro un 24% di giudizi negativi e un 1,5% senza opinione. La rielezione ottiene uguale favore dagli elettori Pd e Pdl (entrambi 81,7%) e di Scelta civica (81,0%). Ma anche dalla maggioranza degli elettori di Grillo (55,2%).
Sulle prospettive del dopo voto l'ipotesi che ottiene maggiori favori è un governo di transizione che faccia la legge elettorale per tornare al voto in autunno (43,3%), mentre il governo di larghe intese senza limiti di tempo è secondo (39,1%), mentre è terza e ultima l'opzione di tornare subito al voto (11,6%). Senza opinione il 6% del campione.
Da ANSA e Huffington Post :
Pd e M5S in calo, Pdl in salita. Il Pdl, da solo, sfiora peraltro il risultato dell'intero centrosinistra. Di rilievo è però soprattutto la crescita degli incerti e del non voto: ormai un italiano su due fa parte di quest'area, con un balzo di 10 punti rispetto alla scorsa settimana. Un 50 per cento, quindi, che è quasi il doppio dell'area del non voto alle elezioni (era intorno al 27%). E' la fotografia che emerge dal sondaggio Tecnè per Sky Tg24.
Questo il quadro delle intenzioni di voto per Camera e Senato (tra parentesi la differenza percentuale rispetto alla rilevazione del 17 aprile).
Il sondaggio ha anche ascoltato il giudizio del campione su altri due argomenti: la rielezione di Napolitano e le prospettive del dopo voto. Per quanto riguarda il Colle, i giudizi positivi sono il 74,5%, contro un 24% di giudizi negativi e un 1,5% senza opinione. La rielezione ottiene uguale favore dagli elettori Pd e Pdl (entrambi 81,7%) e di Scelta civica (81,0%). Ma anche dalla maggioranza degli elettori di Grillo (55,2%).
Sulle prospettive del dopo voto l'ipotesi che ottiene maggiori favori è un governo di transizione che faccia la legge elettorale per tornare al voto in autunno (43,3%), mentre il governo di larghe intese senza limiti di tempo è secondo (39,1%), mentre è terza e ultima l'opzione di tornare subito al voto (11,6%). Senza opinione il 6% del campione.
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