ebook di Fulvio Romano

sabato 30 marzo 2013

Finis Bersani....

... Purché non sia anche la Finis Italiae....

Da La Stampa

Il segretario sarà “processato”
dagli stessi che l’hanno eletto

Verso la resa dei conti: pronti D’Alema-Veltroni, i popolari,
i giovani turchi

FEDERICO GEREMICCA

Se cominciamo con lui, uomo moderato e alleato leale - dalle primarie fino al deludente voto di febbraio - è solo per render meglio un’idea: l’idea, cioè, di quanto si sia mosso dentro e intorno al Pd nel mese trascorso dalle elezioni a oggi. E quanto, soprattutto, si muoverà da oggi in poi.
Erano giorni che Bruno Tabacci era in sofferenza:
e ieri quest’insofferenza ha tracimato.

«L’inseguimento a Grillo non si può fare rimettendo insieme i cocci della sinistra, da Ingroia a Di Pietro ai Comunisti italiani...», ha dettato Tabacci alle agenzie. E poi, raggiunto telefonicamente, ha spiegato: «A Roma, per le elezioni al Campidoglio, stanno rimettendo in piedi proprio una cosa del genere: da far rimpiangere la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto. Ma io avevo capito che la rotta del Pd fosse cambiata. Definitivamente cambiata...».

E invece eccoci qui a fare i conti con l’«inseguimento a Grillo»: che, Tabacci a parte, costituirà il primo capo d’accusa dal quale Pier Luigi Bersani dovrà difendersi, appena il suo tentativo di fare un governo risulterà anche ufficialmente tramontato. Ad aspettarlo al varco c’è ormai una folla: leader al momento defilati, come D’Alema e Veltroni; figure fino a ieri di primo piano - come Bindi, Finocchiaro e Franceschini - sacrificate nell’«inseguimento a Grillo»; gruppi - come i giovani turchi di Orfini, Orlando e Fassina - per i quali «la ruota del cambiamento» ha girato poco o niente; e Matteo Renzi, infine, il leader in sonno, l’asso da calare, la risposta a Grillo e chi più ne ha più ne metta.

Nella sostanza, è la stessa maggioranza che lo elesse segretario ad essersi letteralmente sfarinata: Bersani naturalmente lo sa e da ieri - nella sua Piacenza - ha cominciato a ragionare su come affrontare l’inevitabile resa dei conti che lo attende nel Pd. Tener duro e difendere le scelte fatte? Presentarsi dimissionario alla prima occasione utile? Rimettere al partito la decisione su cosa fare? Bersani riflette, sapendo però che il cerchio si stringe e nuove alleanze interne si vanno costruendo. Matteo Renzi, in particolare, esercita ormai una sorta di effetto-calamita: non ha bisogno di muovere un dito, perché c’è la fila davanti alla sua porta. Il chiarimento - per usare un eufemismo - resterà sospeso fino alla conclusione (qualunque essa sia) della complicata vicenda del governo: poi - e salvo elezioni a breve - sarà tutto un ribollire fino al Congresso, già programmato per ottobre. Un segretario giovane (Letta? Barca?) e un futuro candidato premier ancor più giovane (Renzi), sembrano l’approdo obbligatorio: ma è difficile immaginare che vi si possa giungere in un clima di solidarietà e concordia...

Molte cose - forse troppe cose - hanno avvelenato il clima nel Pd: e quasi tutte vengono - naturalmente - imputate a Bersani. I capi d’accusa sono numerosi, e non riguardano solo la linea tenuta dopo il voto (l’«inseguimento a Grillo»). Molti, infatti, contestano addirittura i toni e gli argomenti di una campagna elettorale iniziata da vincitori e finita in altro modo. Altri, i più delusi, puntano l’indice contro quello che, con poca generosità, è stato definito l’«autismo» del segretario: pochissime informazioni al partito su quel che maturava nella crisi, le riunioni continue riservate al solo «tortello magico» (Migliavacca, Errani, Fiammenghi), l’incaponirsi su una linea (riecco l’«inseguimento a Grillo»...) che 48 ore dopo il voto poteva esser tranquillamente abbandonata.

Può essere che abbia una risposta per tutto: e può essere, naturalmente, che quelle risposte vengano archiviate come poco convincenti o addirittura sbagliate. Per esempio: bene l’apertura al nuovo, a Beppe Grillo, subito dopo il voto; ma male incaponirsi su una posizione vanificata (mortificata) dalle porte ripetutamente sbattute in faccia dal comico genovese. E male, anzi malissimo, aver tarato ogni iniziativa solo in funzione dell’«inseguimento a Grillo»: dagli otto punti di programma ai nuovi presidenti di Camera e Senato (intorno ai quali già si registrano insoddisfazioni e ironie) tutto è stato fatto guardando da una parte sola. Pessimo, infine, il «mai con Berlusconi» ripetuto all’infinito: con il risultato di sbarrare qualunque altra strada al Pd (e al capo dello Stato)...
Acque tempestose, dunque. All’indomani della delusione elettorale, a Bersani fu chiesto se aveva pensato alle dimissioni: «Io non abbandono la nave - rispose, ed era il 26 di febbraio -. Posso starci sopra da capitano o da mozzo, ma non la abbandono». È passato un mese: e nessuno sa come Bersani risponderebbe oggi...