Cultura
il potere magico delle parole
nel linguaggio giallo-verde
Massimiliano Panarari
Massimiliano Panarari
Il populismo e la sua narrativa si fondano anche sul «pensiero magico». Con l’arrivo al potere dei due partiti della «democrazia populista» (come la chiamava il politologo Robert Dahl) ci troviamo dentro una fase completamente nuova. E l’Italia torna a essere un laboratorio della crisi della democrazia rappresentativa.
Si tratta di uno stadio talmente inedito da annichilire quasi l’opposizione politico-parlamentare, producendo una crisi esistenziale di quei partiti di sistema (il Pd e Forza Italia) che cercano di contrastare la Lega e il Movimento 5 Stelle con gli strumenti della politica tradizionale e «razionale». Invece, questa è effettivamente la Terza Repubblica: non nel senso dell’approvazione di una qualche revisione costituzionale (almeno per il momento), ma dell’autentica rivoluzione in corso nel linguaggio e nelle forme del fare politica che – specie ora – sono sostanza.
Il pensiero magico, studiato da generazioni di antropologi e da psicologi come Jean Piaget, è un processo cognitivo prelogico in cui non viene messo bene a fuoco, o risulta alterato, il nesso causa-effetto. E non appartiene unicamente alle società primitive, ma capita a ciascun individuo di farvi ricorso durante la vita. La postmodernità, tra relativismo spinto e intercambiabilità delle interpretazioni, lo ha riportato in auge ampiamente, come mostrano la postverità e le fake news. E oggi, infatti, è dato vedere un pensiero magico prepotentemente all’opera nella comunicazione e nella propaganda del governo legastellato che, nella sua campagna elettorale permanente, sembra farsi beffe del principio di non contraddizione come di quello di realtà. Dalla polemica con gli alti funzionari che non si piegano agli annunci-promesse di vari ministri fino all’insofferenza per i numeri che non tornano nei provvedimenti più importanti e nel Def, è come se andasse in scena uno scontro tra la razionalità tecnico-politica (ritenuta troppo «calcolante») e un irrazionalismo politico-seduttivo preoccupato solo del consenso, e infastidito da limitazioni e rispetto delle compatibilità (le cifre del bilancio e del debito pubblico come il primato dello Stato di diritto). Giustappunto perché il neopopulismo postmoderno è incantatore e (ferocemente) anti-illuministico.
Nel pensiero magico talune parole hanno poteri miracolosi e soprannaturali, e funzionano come dei totem. Così, archiviato il «politichese» della Prima Repubblica e il linguaggio marketing-oriented della Seconda, siamo arrivati al «lessico zero» di Di Maio e Salvini. Vale a dire una politica linguistica che vuole azzerare la possibilità del dibattito, con concetti tanto basici che diventa impossibile dichiararsi contro (e in questo modo, nuovamente, si annulla l’opposizione, che ha un problema culturale e semantico, oltre che politico). Ed ecco allora: la «manovra del Popolo» (con il «popolo» vocabolo totem per eccellenza, ripetuto in ogni occasione), l’«azzeramento della povertà», l’«Italia sicura» d’ora in poi; e, anche se assomiglierà molto al reddito di inclusione degli esecutivi di centrosinistra, quello nuovo sarà di «cittadinanza», parolina magica e diretta.
Il neopopulismo disintermedia ed elimina (magicamente) la complessità e le problematicità del reale, presentandosi come capace di andare alla radice delle questioni e proponendo «soluzioni» che sfidano la logica (proprio perché basate su relazioni causali spesso arbitrarie). Che riscuotono, come mostrano il clima d’opinione e i sondaggi, moltissimi applausi. E hanno inaugurato un terreno di gioco totalmente altro rispetto alla concezione liberaldemocratica e socialdemocratica della politica. Un perimetro davvero alternativo (e preoccupante), come i fattoidi che vengono raccontati dallo storytelling sciamanico di certi politici apprendisti stregoni.