Cultura
L’eccezione
di un’Europa
che ci copia
Che cos’è l’Italia senza l’Europa? Il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma che abbiamo appena celebrato non ci chiama soltanto a riflettere sull’identità europea, ma pure su quella italiana. Tanto più perché col fallimento del referendum costituzionale la nostra sfera pubblica è entrata in una situazione di stallo. Che alle prossime elezioni, con ogni probabilità, si trasformerà in crisi conclamata.
L’Italia è in difficoltà non soltanto con l’Europa che sta al di là delle Alpi, ma anche con quella che ha dentro di sé. L’aspirazione a essere compiutamente europea, il desiderio di adeguarsi ai grandi modelli settentrionali di modernità - la Gran Bretagna, la Francia, poi la Germania - ha rappresentato un elemento fondamentale dell’identità italiana fin da quando la Penisola s’è costituita in entità politica, nel 1861. Di più: l’unificazione aveva proprio lo scopo di rendere possibile che l’Italia si mettesse infine all’inseguimento di quei modelli.
Un - per così dire - «superego europeo», insomma, è fin dall’inizio parte integrante della nostra «psiche nazionale».
Ha avuto sempre e soltanto effetti positivi, quel superego? Assolutamente no. Ha generato frustrazioni e complessi d’inferiorità che sono spesso sconfinati in un vero e proprio «autorazzismo». E, per reazione, ha alimentato il nazionalismo e l’imperialismo. Tuttavia, è stato pure un motore potentissimo di crescita e modernizzazione. Che alternative avevamo, del resto? L’unica possibile era naufragare nel Mediterraneo. Naufragio più dolce di tanti altri, per carità. Ma pur sempre naufragio: quanto a civiltà politica, il Mediterraneo contemporaneo non è un granché.
Il superego europeo dell’Italia poteva esistere perché l’Europa nord-occidentale proponeva un modello di civiltà solido e credibile. Il problema, oggi, è che non lo propone più. In una celebre pagina de «Il giorno della civetta», Leonardo Sciascia descrive la sicilianizzazione dell’Italia con la metafora dell’avanzare della palma verso Nord: «E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già oltre Roma…». Allo stesso modo, potremmo dire oggi che l’Europa s’è italianizzata: ovunque i partiti si frammentano e polarizzano; le élite e i cittadini sono sempre più alieni le une dagli altri; i sistemi istituzionali sempre più farraginosi e inefficienti; gli scandali giudiziari sempre più clamorosi. Quanto alla post-verità che va tanto di moda, abbiamo inventato noi pure quella: non diceva Flaiano già mezzo secolo fa che in Italia la verità non esiste? Come il mercurio in un termometro, la palma continua a salire.
Agli occhi d’un italiano, l’italianizzarsi della politica europea può pure apparire uno spettacolo gustoso. Passato l’effimero momento di godimento, però, dev’esser riconosciuto per quello che è: un disastro. Un’Europa italianizzata, infatti, non può certo far da modello all’Italia. Lo vediamo con chiarezza se ripercorriamo la vicenda della riforma elettorale. Per anni abbiamo discusso di sistema inglese, francese, tedesco. Poi abbiamo abbandonato tutti i modelli in favore d’un marchingegno a tal punto peculiare che l’abbiamo chiamato «italicum». E magari ci fossimo fermati lì! Italianamente, quel sistema l’abbiamo poi smontato, per approdare a una legge proporzionale che è assai probabile ci consegni all’ingovernabilità. A quel punto avremo ricostituito la singolarità del caso italiano rispetto a un’Europa pure italianizzata. Ma non sarà certo una singolarità positiva.
Correremo anzi due rischi gravi. Il primo, di imboccare un qualche sentiero politico interamente, orgogliosamente italiano. Ora, la storia non si ripete mai, però giova ricordare che l’ultima volta che abbiamo scelto una via integralmente italiana - correva l’anno 1922 - non è finita bene. Il secondo, che la nostra singolarità contribuisca a far salire la palma sempre più su, e contribuisca infine al collasso dell’Europa.
Giovanni Orsina