Italia
Il rapporto
Il rapporto
La rinascita dell’agricoltura
con gli imprenditori stranieri
“Non solo caporalato, l'integrazione passa anche dai campi”
“Non solo caporalato, l'integrazione passa anche dai campi”
È il giorno dell’avvio della Brexit e da Bologna, dove la Cia-Agricoltori italiani si è riunita per la sua conferenza economica, arriva un suggerimento per dar vita ad una “nuova Europa”: prendere come esempio «le aree rurali del nostro paese dove ci sono buone pratiche di integrazione e di gestione dell’immigrazione». Dino Scanavino, il presidente dell’organizzazione agricola, sa che è necessario fare i conti con «vicende circoscritte al malaffare come il capolarato che deve essere condannato e punito senza se e senza ma». Nello stesso tempo, però, si dice convinto che «se si guadano i numeri questi dimostrano come il made in Italy agro-alimentare cresca con il lavoro degli stranieri». Le cifre, allora: in tutta Italia ci sono 12 mila imprenditori agricoli extracomunitari, poco meno della metà dei 25 mila titolari stranieri di aziende del settore. Aziende che versano nella casse dello Stato 11 miliardi ogni anno tra oneri fiscali e previdenziali.
Ma al conto economico si deve aggiungere anche il peso crescente della manodopera straniera nei campi. Secondo la Cia un’azienda agricola su tre fa affidamento su un lavoratore straniero. In tutta Italia sono 320 mila di cui 128 mila extracomunitari, stagionali compresi. Il loro numero dal 2000 al 2010 è cresciuto del 90% e si è stabilizzato negli ultimi tre anni con un incremento medio del 5%. Questa progressiva evoluzione potrebbe favorire il ricambio generazionale nei campi, ad oggi inferiore al 7% , ed evitare il pericolo di «un concreto dimezzamento degli addetti al settore nei prossimi 10 anni legato – secondo il leader Cia - al fatto che i titolari d’azienda italiani hanno un’età media superiore ai 60 anni».
maurizio tropeano