Cultura
il paradosso
del conflitto
d’interessi
Oggi la Camera discuterà una legge che, se fosse stata approvata vent’anni prima, avrebbe impedito a Berlusconi di guidare il governo tenendosi strette le sue tivù. In altri tempi, il solo fatto di parlarne avrebbe scatenato l’inferno. Adesso invece regna una quiete che sconfina nel disinteresse, e già questo suona strano. Ma ecco l’altro paradosso: il testo base è stato materialmente assemblato da Francesco Paolo Sisto, presidente della Commissione affari costituzionali. Un esponente di Forza Italia. Anzi, un fedelissimo di Silvio come sempre meno se ne trovano in giro.
L’arcano si infittisce scorrendo l’articolato. Chi ha qualche minuto da spendere su Internet, metta a confronto la proposta scaturita dalla Commissione con le tesi a suo tempo sostenute da Stefano Passigli, autentica «bestia nera» del Cavaliere nell’arco temporale che va dal 1994 al 2006. L’esponente diessino si batteva per introdurre in Italia il «blind trust», togliendo ai ministri e al premier la possibilità di gestire le proprie aziende (casomai ne avessero) fintanto che fossero rimasti al governo. Nella proposta odierna non si parla di «blind trust», è vero, ma il congegno è sostanzialmente lo stesso. Passigli si spingeva a immaginare la vendita coatta del patrimonio in odore di conflitto, e a quel tempo i «berluscones» strillavano contro il tentativo di esproprio «comunista» che si voleva perpetrare ai danni del loro leader... Ebbene, anche il testo all’esame del Parlamento ipotizza l’alienazione dei beni quale extrema ratio. Pure lì si prevede che ciò debba avvenire entro un lasso di tempo fissato dall’apposito comitato di vigilanza.
Il Pd tiene a far sapere che è solo un inizio, il testo sarà migliorato strada facendo. Francesco Sanna elenca una fila di criticità che riguardano anzitutto la composizione del comitato e la platea da tenere sott’occhio (oltre ai membri del governo, i democratici vorrebbero applicare la normativa ai governatori di regione, ai sindaci, in certa misura agli stessi membri del Parlamento). Ma in fondo sono dettagli di un impianto globalmente condiviso. Né risulta che da destra si preparino ad alzare le barricate, al massimo saranno presentati un certo numero di emendamenti. Tanto che Brunetta, capogruppo «azzurro», già pregusta il momento in cui potrà dichiarare: «Ci volevamo noi per realizzare quello che la sinistra italiana non è stata capace in un quarto di secolo...». Cosicché si ritorna alla domanda iniziale: come mai Berlusconi stavolta non si fa fuoco e fiamme?
Ed ecco la risposta, raccolta nel suo mondo: del conflitto di interessi gliene importa ormai relativamente meno. Mille segnali fanno ritenere che Silvio stia mettendo in un cantone la prospettiva di tornare a palazzo Chigi. Ormai punta direttamente al ruolo di padre della patria. Inoltre, alla non più tenera età di 78 anni sta scoprendo che sulle scelte di governo si può esercitare un’influenza addirittura maggiore restandone fuori con un ruolo di «dominus». Per esempio, ad Arcore circola la concreta speranza che Renzi voglia favorire un’integrazione tra Telecom e Mediaset, consentendo alla futura banda larga di trasformarsi in un’autostrada per i programmi tivù del Biscione. La prossima grande partita si giocherà lì, il resto è alle spalle.