ebook di Fulvio Romano

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sabato 15 agosto 2015

Parigi il malato d'Europa

LA STAMPAweb

Economia

È Parigi il malato d’Europa

Le industrie non investono

e la spesa pubblica vola

La ricetta della competitività non ha funzionato

Appena un mese fa, in occasione della festa nazionale del 14 luglio, François Hollande assicurava solenne «la crescita è tornata». Dopo un primo trimestre segnato da un +0,6% (rivisto ieri a +0,7%) il Presidente socialista poteva sperare in una svolta nel suo quinquennio inaugurato nel 2012 e segnato finora da dati economici deludenti. Invece le cifre pubblicate ieri mostrano un’economia transalpina di nuovo in stagnazione (0% nel secondo trimestre 2015), indietro rispetto ai suoi maggiori partner tra cui Italia, Germania e Regno Unito. Il motore francese non riesce a riaccendersi e a cogliere i timidi segni di ripresa europea. E Parigi sembra incapace d’imporre una politica economica di rilancio durevole. Ieri, il governo di Manuel Valls si è affrettato a minimizzare il dato congiunturale. Valls e il suo ministro delle Finanze Michel Sapin hanno riaffermato che l’obiettivo di «una crescita del 1% sarà raggiunto a fine anno». Ma la stagnazione del secondo trimestre suggerisce che i mali della seconda economia della zona euro sono più profondi e Parigi è a un bivio.

Grazie a una tradizionale politica anticiclica, il Paese ha resistito meglio degli altri alla crisi economica. Tra il 2008 e il 2011 attraverso l’aumento della spesa pubblica e il sostegno alla domanda interna la Francia ha cosi registrato una crescita del 3,4% quasi pari alla Germania e circa il doppio dell’Italia. Ma nello stesso tempo il suo deficit pubblico è salito dal 68% al 86% del Pil fino a raggiungere oggi più del 97%. In breve, il governo Sarkozy e in parte quello Hollande sono riusciti a limitare l’impatto della crisi (anche se il tasso di disoccupazione è salito a più del 10,5%). Il consumo delle famiglie, sostenuto da uno stato sociale robusto, e le spese dello Stato hanno permesso di evitare il tracollo nei momenti più bui. Ma la Francia non sembra oggi in grado di cambiare marcia e modello mentre il vento della crescita europea è ancora debole.

Le vecchie ricette di rilancio tramite la domanda interna hanno raggiunto il loro limite soprattutto nel quadro delle regole europee sulla spesa pubblica, peraltro non del tutto rispettate da Parigi. A partire del 2012, François Hollande ha deciso di puntare sulla competitività delle imprese per cercare un nuovo volano di crescita. Sfidando la sua maggioranza di sinistra, ha fatto adottare una serie di misure per liberalizzare l’economia e ridurre le tasse alle imprese nell’ambito della cosiddetta politica dell’offerta (circa 50 miliardi di euro in 5 anni). Ma le misure del governo appaiono limitate per rilanciare l’industria francese che rappresenta solo il 19,4% del Pil contro il 30% in Germania e più del 23% in Italia. Gli ultimi dati sul Pil mostrano che senza una vera prospettiva di ripresa anche le aziende che si sono parzialmente rimesse in piedi riluttano a investire.

La speranza di François Hollande è che la politica dell’offerta finisca per dare frutti, in particolare prima delle prossime Presidenziali del 2017. Ma per il momento tra gli obiettivi di tagli alla spesa pubblica, quelli di sostegno limitato alla domanda interna e al tempo stesso di rilancio della competitività delle imprese, Parigi sembra costretto a misure parziali e di medio termine. Con il risultato di restare impanato in una crescita molle.

ERIC JOZSEF*


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sabato 5 luglio 2014

Ma contro Renzi e Hollande ci sono anche i falchetti di Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda...

LA STAMPA

Economia

Ma anche i “piccoli” in crisi

sono contro Roma e Parigi

Il muro di Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda: perché i sacrifici solo per noi?

Non bisogna convincere solo i falchi del Nord del fatto che sarebbe meglio essere «più flessibili nell’applicare la flessibilità esistente». Ostacolano il cammino dell’Italia a caccia di spazi per contenere il costo delle riforme, e della Francia che la segue da vicino, anche Paesi più piccoli o meno tradizionalmente rigoristi. Portogallo, Spagna, Irlanda e Grecia capiscono le esigenze di Matteo Renzi, come tutti del resto. Però faticano a venire a patti con un grande Paese (due, se mettiamo i transalpini) che insegue lo sconto sulle regole quando loro, a un prezzo elevato, i compiti a casa li hanno fatto eccome, e ora cominciano a vederne i frutti.

Incidentalmente si tratta di quattro governi a guida popolare che devono ragionare sulle richieste di due leader della famiglia socialista e democratica. Non semplifica il gioco. Di casa Ppe sono anche i tedeschi, i finlandesi e svedesi, mentre la danese Thorning-Schmidt, candidata che piace anche alla Merkel per la presidenza del Consiglio Ue, pratica un socialismo davvero ai limiti del Ppe ed è un’altra fedele sostenitrice del «debito prima di tutto».

Il premier spagnolo Mariano Rajoy ha dichiarato la scorsa settimana di sentirsi «a suo agio» con il patto di Stabilità, l’impianto varato all’unanimità dai governo europei (e non imposto da un eurocrate pazzo) che fissa i paletti da rispettare per tenere sotto controllo la contabilità pubblica Ue. «Il messaggio da passare - ha detto - è che non è bene far aumentare il debito, perché non è bene spendere ciò che non si ha: il primo obbligo è tenere sotto controllo la finanza di stato e lavorare per la crescita». Doveva avere un ghostwriter della Bundesbank.

La sua determinazione, come quella del colleghi popolari portoghese e spagnolo, è finita nel documento programmatico controfirmato a fine giugno in un vertice a Lisbona e rilanciato a Strasburgo davanti a Renzi dal capogruppo Manfred Weber. Facile, per il bavarese della Csu, sodale della Merkel. I tedeschi hanno l’insofferenza per il debito pubblico nel Dna, anche se quello privato lo praticano con discreta allegria. Manifestano questo loro rifiuto con una teoria logica, condivisa fra l’altro anche da Commissione e Bce. Se dovesse ripartire una crisi, i Paesi con i conti fuori regola pagherebbero il prezzo più alto in termini di spread e metterebbero in pericolo l’Eurozona e tutto il resto. Avere un socio col debito al 134% del Pil fa venire i brividi a chiunque pensi a una possibile crisi. Per questo, la linea di falchi e falchetti è che le riforme vanno fatte. Che si è pronti ad agevolare chi le realizza. Ma che le regole si applicano «al meglio», ma non si cambiano. E basta così. Proprio come hanno detto i leader al vertice Ue del 27 giugno.

Marco Zatterin


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domenica 22 giugno 2014

Le Monde: " Veni, vidi, Renzi"

LA STAMPA

Italia

Renzi: un’italiana
per guidare
gli Esteri della Ue

Incontro a Parigi con Hollande. Ipotesi Mogherini

Il piano sequenza è eloquente. François Hollande passeggia nei giardini dell’Eliseo con Matteo Renzi al fianco, mentre gli altri otto premier socialisti europei invitati dal presidente francese aspettano al chiuso, in un salone del vicino Hotel Marigny. In un Paese sciovinista come la Francia, è inconsueto che un politico italiano possa diventare «trendy», ma la copertina di «Le Monde Magazine» («Veni, vidi, Renzi», sogno di rinascimento italiano) parla chiaro e non è l’unico sintomo di attenzione. D’altra parte a Renzi in questo momento va tutto bene, in patria e fuori. Negli ultimi tre giorni, grazie a una scelta tattica ben mascherata come strategica (prima le politiche, poi le nomine), il presidente del Consiglio italiano è riuscito a trascinare sul «metodo Renzi» prima la Cancelliera Angela Merkel e poi il fronte socialista.

Nel giro di 78 ore, prima in un intenso colloquio telefonico con la Merkel e poi nel vertice dei capi di governo socialisti convocato a Parigi da Hollande, Renzi è riuscito a chiudere su questo compromesso: la prossima leadership europea non modificherà le regole auree dell’Unione ma si impegnerà a declinare verso politiche di crescita tutte le opportunità contenute nei Trattati. Certo, il compromesso semantico tra Ppe e Pse, da inserire nell’apposito documento al quale lavora Herman Van Rompuy, deve essere ancora perfezionato prima del Consiglio di Bruxelles di fine mese, ma lo scambio oramai è perfezionato: l’ex premier lussemburghese Juncker, Ppe, assumerà la guida della Commissione e i socialisti otterranno un significativo cambio nell’agenda europea, a favore di crescita e occupazione e anche significative postazioni tra quelle residue: presidenze del Consiglio e dell’Eurogruppo, Alto Rappresentante per la politica estera.

La nuova parola chiave si chiama «flessibilità» e ieri mattina, nella riunione dei socialisti, l’hanno pronunciata quasi tutti, così come quasi tutti i premier e o vicepremier intervenuti, hanno puntualmente citato Matteo Renzi, il suo esempio e le sue parole. Da questo punto di vista il vertice dell’hotel Marigny, convocato da Hollande per darsi un tono da leader dei socialisti europei, ha finito per trasformarsi in una sorta di consacrazione per Renzi a leader dell’«altra Europa», quella che si oppone all’Europa del rigore. Dice Sandro Gozi, reduce da un incontro col primo ministro francese Manuel Valls: «In questi giorni, da Berlino a Parigi, nel Ppe e nel Pse, oggettivamente si è affermato il metodo Renzi, che era stato indicato prima delle elezioni Europee, ma che dopo il 25 maggio è diventato trascinante».

E le «poltrone»? L’Italia è davvero disinteressata? L’indifferenza per i i posti finora ostentata da Renzi, in realtà, è una scelta tattica, ben mascherata da opzione strategica: il presidente del Consiglio ben sapeva, con Mario Draghi alla Bce, quanto inaccessibile fosse la «poltronissima» dalla presidenza della Commissione e ha ripetuto: prima le politiche, poi i posti. Ma ora che la partita della Commissione si è chiusa, Renzi può dedicarsi alle caselle che potrebbero essere occupate da italiani, tanto più che nella riunione Martin Schulz ha proposto che il Consiglio di Europa di fine mese licenzi l’intero pacchetto di nomine.

Nei colloqui tra gli sherpa europei comincia a farsi breccia una tentazione attribuita agli italiani: quella per l’Alto Rappresentante per la politica estera. Postazione che corrisponderebbe ai curricula di due ex primi ministri come Massimo D’Alema ed Enrico Letta, ma non è a loro che Renzi starebbe pensando in prima battuta. L’insistenza sulla presenza femminile potrebbe preludere alla candidatura dell’attuale ministro degli Esteri Federica Mogherini?

FABIO MARTINI




sabato 7 settembre 2013

Ventiquattro lupi nel mirino di Hollande?

APPELLO. DOPO GLI ATTACCHI A GREGGI DI PECORE

Lettera a Hollande

“Abbattete 24 lupi nel parco Mercantour”

Gli allevatori francesi delle Alpi Marittime hanno chiesto al presidente Francois Hollande di catturare e, eventualmente, uccidere 24 lupi. L’iniziativa, riportata nei giorni scorsi da Nice matin, è legata all’ultima aggressione agli animali avvenuta nella Val d’Entraunes, in parte compresa nel Parco del Mercantour. Uno o più lupi hanno ucciso 6 dei 7 cani di proprietà dell’allevatore e il gregge di ovini ha subìto delle perdite.

La reazione delle associazioni di allevatori francesi è speculare a quelle di chi abita le terre alte in provincia di Cuneo, ma per la Francia si tratta del banco di prova per valutare l’efficacia del «Piano lupo» entrato in vigore in primavera. La nuova normativa, voluta dagli ambientalisti d’Oltralpe, stabilisce che 24 lupi possano essere prelevati in un anno su una popolazione totale presente in Francia di 250. Il nuovo Piano prevede che gli animali vengano catturati dagli agenti dell’Office national de la chasse et de la faune sauvage, marcati con un segno di riconoscimento e lasciati andare. Tanto basterebbe, affermano i sostenitori del Piano, per spaventare i lupi e indurli a concentrarsi su prede selvatiche. Solo gli animali recidivi sarebbero destinati all’abbattimento. Finora nessun lupo è stato catturato, gli allevatori chiedono al Presidente della Repubblica di autorizzare i cacciatori alle uccisioni. Tutto questo entro oggi, giorno in cui il Capo di Stato francese è a Nizza per gli Jeux de la Francophonie.

Intanto lunedì due mucche adulte (valore 2.500 euro ciascuna), sono state uccise da un lupo all’alpeggio di San Giovanni sopra Limone, dove pascolano i 240 bovini di Tiziano Agliassa, 31 anni, margaro di Casalgrasso. [b. m.]



lunedì 6 maggio 2013

Letta da Fazio-larghe-intese: i fidanzamenti impossibili di Enrico

Da La Stampa di oggi:

La prima settimana
e i fidanzamenti
impossibili di Enrico

Così Letta avvicina Pd e Pdl, e forse Merkel e Hollande


Una serata da Fabio Fazio è l’incoronazione: il capo del governo delle larghe intese, che è egli stesso una larga intesa fatta uomo, nella trasmissione che è da sempre la base culturale delle larghe intese. Dopo una settimana (scarsa) di lavoro ci voleva. Ed Enrico Letta è andato a Che tempo che fa a dire che non è più il momento di vessilli alzati e fazioni in lotta. «Insieme», ha detto. E «tutti insieme», o anche «tutti assieme». Per una «scelta di servizio». Ha ripetuto di essere diventato grande davanti all’immagine conciliatrice di François Mitterrand e Helmut Kohl mano nella mano a Verdun, la città di uno dei macelli della Prima guerra mondiale. Su e giù, alto-basso, come piace a lui nella sua personale larga intesa di ragazzo studioso diventato grande nell’improvviso drive-in degli Anni Ottanta: «Andate a Pisa a vedere l’ultimo muro dipinto da Keith Hering, si chiama Tuttomondo», ed è il trionfo variopinto delle diversità. Messe «insieme», naturalmente.

La garbatissima intervista di Fazio sarà un altro bacio in fronte al politico che, secondo i sondaggi dell’Swg, è oggi il più amato dagli italiani col sessantadue per cento dei favori, appena più di Matteo Renzi. Una contentezza vasta e diffusa, ed internazionale: da Jovanotti («finalmente un presidente del Consiglio della mia età») a Josè Manuel Barroso («Enrico Letta può rilanciare la speranza»). Sarà che come disse una settimana fa Luciana Littizzetto proprio a Che tempo che fa, Enrico Letta «ha la faccia del pediatra che viene a casa a rassicurare sulla salute del bambino». Sarà che lui è andato a Parigi a parlare con François Hollande e si sono presi mano nella mano, piccino uno e altissimo l’altro, proprio come Mitterrand e Kohl, e per motivi non così memorabili, piuttosto in un’immagine di dolcezza da scuola materna. La grande coalizione spirituale che risiede in Letta è capace di riproporre «tutti insieme» e «tutti assieme», prodianamente, e anche il superprodiano europeismo, con la giocosità berlusconiana, ma meno greve, nel segno del pollice e del mignolo alzati (pare sia il saluto di buon vento che si rivolgono i velisti) al primo vertice con la terribile Angela Merkel.

Anzi, ieri sera, colto da serena cupezza, Fabio Fazio non ha dato nemmeno modo al premier di tirare fuori la monelleria che è in lui, quello scambio di battute alla Camera, sui banchi del governo, con Fabrizio Saccomanni, il ministro dell’Economia: e lì Letta scoppia a ridere e crolla sul banco. È giovane, del resto. E non importa che in fondo Massimo D’Alema avesse soltanto due anni più di lui (49 a quasi 47) quando arrivò a Palazzo Chigi nel 1998. Letta è giovane perché va al Quirinale con l’utilitaria della moglie, perché un giorno sì e uno no cita l’Erasmus, l’esperienza di formazione per lui e i suoi coetanei che scoprirono «di avere altre case e altri Paesi». È giovane per l’interrail, e tutti quei confini a poco a poco venuti giù. È giovane perché la mattina in cui lo chiama Giorgio Napolitano sta portando i bambini a scuola. E perché ricorda l’insegnante di francese a Strasburgo rievocata nell’incontro con Hollande: i tempi della strepitosa e intima larga intesa di quando si conciliava lo studio dei testi di Jacques Delors con il divertimento serale, a cui accedeva con una certa responsabilità di beneducato ragazzo di provincia. Anche oggi l’andirivieni è incessante: Letta è colto e sa mostrarlo e nel discorso programmatico cita Nino Andreatta e il confiteor, ma è giovane, e qui e là tira fuori una citazione dal repertorio di Ligabue o di Fabrizio De Andrè.

Siccome bisognava «trovare una via d’uscita», chi meglio di Letta, che anche ieri sera si è comportato da nuova leva, ma anche esperta? Chi, se non lui, che si è confermato uomo di sinistra ma molto attento alle ragioni di destra? Chi, se non questo ragazzo avviato alla cinquantina, che parla con la consapevolezza dell’anziano di Imu ed esodati, Iva e cassa integrazione? Il fidanzamento è saldo, anche dopo ieri sera. E le aspettative sono alte, e simili ovunque, se pure Le Figaro ha visto in lui, dopo il vertice parigino, le qualità del largo intenditore: «E se una chiave della pacificazione tra Merkel ed Hollande si chiamasse Enrico Letta?». Ecco, una piccola, breve e incompleta settimana è trascorsa, ed è stata sufficiente perché Letta mostrasse le sue numerose e trasversali qualità.

domenica 5 maggio 2013

L'austerità rompe l'asse Parigi-Berlino

Traduciamo qui alcuni brani dell'illuminante articolo di Mora, Pérez, Gómez comparso sul País :


Per ora, l'unica cosa evidente è che l'asse franco-tedesco è diviso, ridotto in pezzi. Il motore d'Europa è inceppato. I vicini che si odiavano e che si riconciliarono sembrano stufi di comandare insieme. Hollande non si capisce con la Merkel e non si fida di lei. La Cancelliera non si fida delle riforme, delle intenzioni e dei dati della Francia socialista. E quel che è peggio, sembra che entrambi abbiano perso la speranza che tutto ciò possa cambiare.

Il segnale di allarme lo hanno dato i socialisti francesi, che in un progetto destinato a definire la politica europea della Francia per i prossimi anni hanno messo nero su bianco quello che quasi tutti pensano e quasi nessuno ha il coraggio di dire Merkel il "Cancelliere dell' austerità" rivela una "intransigenza egoista", ha forgiato "un'alleanza di circostanze con il Thatcheriano David Cameron", ma ciò che le intessa sono i risparmi dei depositi tedeschi, la bilancia commerciale di Berlino ( che a marzo ha stabilito un nuovo record, aumentando il surplus di 188.100 milioni di euro, dopo che nel 2012 ha esportato per 1,1 bilioni di euro) e le prossime elezioni.

"Se la politica europea non cambia, andiamo a una catastrofe politica", spiega Jean-Christophe Cambadélis, leader del Partito socialista (Ps) francese e coordinatore del documento sull'Europa. "Siamo l'unica area del mondo che ha passato cinque anni in recessione. La destra europea pone l'accento sulla competitività e fa un errore enorme: non saremo mai competitivi come l'India e la Cina, se vogliamo mantenere un livello di protezione sociale decente. La ricetta neoliberista ha generato una disoccupazione enorme, insopportabile per molte società. E dove non c'è disoccupazione, come in Germania, c'è il lavoro precario con stipendi di 400 euro ".

Secondo Cambadélis, la coppia franco-tedesca deve ritrovare l'equilibrio, ma è difficile nelle attuali circostanze di disuguaglianza. "Insieme abbiamo l'49% del PIL europeo, ma la Germania ha eccedenze e la Francia ha un deficit. Il grosso problema è che il Partito popolare europeo domina Europa, Stati membri e le istituzioni con una politica dogmatica, sulla base del modello tedesco, che sostiene che l'austerità conduce alla crescita e richiede solo una quota minima di solidarietà ".

È disposta la Francia a fare il salto verso l'unione politica che vuole la Germania? "La Germania vuole un federalismo fiscale. Francia, un federalismo solidale", dice Cambadélis. "I popoli non accetteranno più di cedere sovranità, se l'Europa non riscalda la caldaia con la solidarietà. Questo è l'unico modo per integrare. Il federalismo deve essere di andata e ritorno. In caso contrario, vince la disunione".

Quindi, l'intesa Parigi-Berlino sembra una chimera. Ma oltre le differenze ideologiche, c'è il fattore umano. Hollande si sente annullato dalla cancellieri. Negli ultimi mesi, la Merkel è riuscita a limitare, ritardare o abbandonare quasi tutti gli importanti accordi raggiunti nei vertici europei. Soprattutto quello del Giugno 2012, quando la Merkel accettò due idee francesi che avrebbero contribuito a migliorare l'economia reale: l'unione bancaria e i provvedimenti per la crescita ".

Un anno dopo, Hollande e il nuovo capo del governo italiano, Enrico Letta, hanno chiesto che al prossimo vertice di giugno si applichino gli accordi di allora: un segno della resistenza tedesca per le idee degli altri.

Sempre di poù lo scontro tra fede e ragione, e la filosofia del sacrificio allontanano la Germania dal resto d'Europa.

venerdì 29 marzo 2013

Da La Stampa. Hollande: avete visto l'Italia?

Da La Stampa di oggi:

Ha parlato molto, 45 minuti in diretta in prima serata su «France2», e non ha detto quasi nulla. L’esercizio era difficile ma François Hollande ne è uscito bene, da quel politico smaliziato che è. Del resto, è un momento in cui in Francia va tutto male, compresi i sondaggi sul suo gradimento. Finito l’effetto-Mali, con il Président che indossa l’elmetto di «chef des Armées», una parte che strappa sempre gli applausi al pubblico francese, la realtà economica presenta il conto. Tutti i dati sono cattivi e non è certo tutta colpa di Hollande. Però l’opinione pubblica non gli rimprovera tanto questa situazione, ma il fatto che non dia l’impressione di sapere come uscirne.

Hollande sta deludendo, anche e soprattutto chi l’ha votato. Il dubbio comincia a serpeggiare pure fra i socialisti. Il malcontento è generale. Ieri Hollande è stato fischiato dagli anti-nozze gay al suo arrivo in studio. E non ha pace nemmeno nel privato: da settimane, rimbalzano voci su una relazione con una bella attrice quarantenne, Julie Gayet. E tanto sono rimbalzate che madame Gayet ha sporto denuncia per scoprire chi le ha messe in circolazione.

A parte questo, in tivù Hollande ha affrontato tutti gli argomenti. Si sapeva che di promesse clamorose non c’era da aspettarsene, anche perché non c’è un euro per finanziarle. Quelle che Hollande ha fatto sono state tutte low cost, come uno «choc di semplificazione» per la burocrazia imposta alle aziende e per l’elefantiaca macchina amministrativa e la riduzione della spesa pubblica.

La famosa o famigerata tassa del 75% sui redditi più alti ha fatto vincere a Hollande le elezioni ma è chiaramente inapplicabile. Abbandonarla, però, è impensabile. E così il Presidente ha annunciato che sarà pagata dalle imprese sulla remunerazione dei loro amministratori, qualora sia più alta di un milione di euro. L’idea è un po’ fumosa (le stock option e i bonus, per esempio, saranno compresi o no?) e poi così diventa chiaramente dissuasiva, perché le grandi società ci penseranno tre volte prima di continuare a pagare gli stipendi faraonici dell’evo a.C. (ante Crisi). Invece Hollande dice una cosa nuova, e per nulla di sinistra, quando fa capire che la riforma delle pensioni è inevitabile. Nel 2010, sfilò in corteo contro la riforma di Sarkozy; oggi ammette che il deficit del sistema arriverà a 20 miliardi di euro nel 2020, quindi qualcosa va fatta.

Sull’Europa, per Hollande la crisi dell’euro è risolta ma alcuni Paesi, fra cui l’Italia, «sono sempre fragili». Dunque, bisogna essere «rigorosi», ma non si parli di austerità, che è il propellente del populismo. «E in Europa vedo montare i populismi, gli egoismi nazionali. Avete visto ciò che è successo in Italia?».

Il Presidente è apparso tranquillo, anche perché voleva tranquillizzare. Il linguaggio era talvolta troppo tecnico, la polemica con «il mio predecessore» velata ma presente: «Non faccio - ha detto il successore di Sarkò - la politica degli annunci permanenti». Il resto è retorica: «Non sono più un Presidente socialista, ma il Presidente di tutti i francesi». Su fatto che la seconda parte della frase sia vera, si può discutere; sulla prima, nessun dubbio.

alberto mattioli


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