Cultura
Era la carta vincente che ha dato una nuova identità
alla città post-industriale. Dopo la scelta dei cinquestelle
di abbandonare i grandi eventi ci si interroga sul futuro
Era la carta vincente che ha dato una nuova identità
alla città post-industriale. Dopo la scelta dei cinquestelle
di abbandonare i grandi eventi ci si interroga sul futuro
Non sarà facile da metabolizzare la giornata del 24 ottobre 2016 per il mondo della cultura torinese. Nel giro di poche ore si è dimessa la presidente della Fondazione Musei Patrizia Asproni, in rotta di collisione con la giunta Appendino. La sindaca, che già ne aveva fatto uno dei suoi bersagli preferiti, la riteneva responsabile del caso Manet, la mostra promessa e poi sfumata. Mostra che, e qui sta il secondo colpo, è - dopo il Salone del Libro -diventata oggetto del secondo «scippo» in un mese da parte di Milano: si farà in primavera, a Palazzo Reale. «Non abbiamo nulla contro Torino, ma a Milano guadagniamo molto di più - ha spiegato l’ad di Skira Massimo Vitta Zeiman -. Là non c’è la tessera musei che garantisce l’ingresso gratis in tutte le strutture».
Al di là del tourbillon politico che hanno scatenato le dimissioni di Asproni, oggi ci si chiede dove stia andando quella stessa città che aveva fatto sforzi enormi per passare dal vecchio modello della «one company town» a capitale turistica e culturale grazie al trampolino delle Olimpiadi. Sono passati circa vent’anni dai tempi in cui la Mole era solo un ascensore in mezzo al vuoto lanciato verso i tetti di Torino. Ora - grazie a una decisione della prima giunta Castellani, anno 2000 - ospita il Museo del Cinema, uno dei più visitati d’Italia. Poi ci sono stati anni (dal 1988 al 2001) in cui palazzo Madama, gioiello juvarriano nella centralissima piazza Castello, allora non pedonale ma zeppa di auto, restava permanentemente sprangato per «inagibilità». Ora quel museo espone 60 mila opere d’arte e organizza almeno quattro mostre l’anno. E come dimenticare il Museo Egizio, che prima della grande rivoluzione avvenuta due anni fa esponeva i suoi reperti in teche polverose e punitive ad appannaggio quasi esclusivo delle scolaresche?
Questo era il profilo culturale dell’ex capitale industriale, ai tempi in cui il Lingotto era ancora una fabbrica. Lo spartiacque che sancisce la nascita di un nuovo motore economico è datato 29 febbraio 2000: il giorno dell’approvazione del primo piano strategico. Torino, unica città in Italia, decide di mettere nero su bianco i suoi obiettivi attraverso sei linee di indirizzo: e la prima è la cultura. Da quel giorno la città volta pagina: nascono prima la Fondazione Musei (nel 2002, con Chiamparino), per mettere insieme pubblico e privato e aumentare le risorse, poi la Fondazione per la Cultura (èra Fassino, 2012), una struttura per cercare gli sponsor finanziatori di iniziative come Biennale Democrazia, MiTo e il Festival Jazz.
Ora a Palazzo Civico governano i cinquestelle. Ed è come se fossimo al terzo cambio di passo in vent’anni: dalla grandeur olimpica, quando fiumi di denaro garantivano corposi finanziamenti, all’austerity mascherata dall’iper attivismo e dai vasti contatti di Piero Fassino, alla necessità di ripensare il futuro con poche risorse e un nuovo paradigma. «Le grandi mostre hanno indebolito i musei», racconta Francesca Leon, assessora alla Cultura nella giunta cinquestelle. «Garantiscono numeri importanti per un arco limitato di tempo, ma alla fine impoveriscono perché non favoriscono la produzione culturale. La cultura a Torino negli ultimi anni è stata effimera: la città ha accolto eventi ma non ne ha esportati. E quando si resta alla mercé dei privati prima o poi si perde, perché loro vanno da chi offre di più. A noi serve un sistema che sappia progettare e esportare cultura; così facendo costruirà relazioni che gli permetteranno anche di importare». Un po’ come fanno il Museo Egizio e il Teatro Regio.
In che modo la giunta Appendino declinerà questo enunciato è ancora da capire. A tre mesi e mezzo dal suo insediamento le strategie faticano a emergere. La battaglia per difendere il Salone del Libro è stata una spia: in questo momento il vento soffia verso Milano. «Ma noi risponderemo con un Salone bellissimo, ce lo invidierà tutta Italia: saranno gli altri a guardare a noi» annuncia con ottimismo il neodirettore Nicola Lagioia.
La prossima settimana Appendino porterà in giunta il programma degli eventi per il 2017 e sarà un documento utile per capire nei fatti le intenzioni del nuovo corso. Il palinsesto non subirà grossi scossoni: confermati Biennale democrazia, MiTo, il mese dell’arte contemporanea, gli spettacoli di Natale per le strade.
Di sicuro c’è che la sindaca ha un’idea precisa rispetto ai grandi eventi: la Città investirà solo su quelli che garantiscono ricadute proficue. Se così è, il primo indiziato a essere ridimensionato è il Jazz Festival: un milione di costo e un milione di ritorno, non a caso si pensa di farlo rientrare nel Salone del Libro. Diverso il caso di Biennale Democrazia e MiTo (cui Appendino ha promesso risorse aggiuntive), o di Terra Madre. E le mostre blockbuster? «Non siamo contrari», precisa la sindaca. «Ma prima di finanziare un evento vogliamo misurarne le ricadute. Un modello che si basa sulle relazioni personali non fa per noi, perché così si indebolisce la città».
Appendino e Leon hanno altro in mente: far emergere produzioni autoctone, e in quest’ottica si spiega la scelta di distribuire parte dei finanziamenti destinati alla cultura attraverso un bando che selezioni i progetti migliori. Una strada più lunga, tortuosa e anche underground, che nel futuro potrebbe far emergere talenti e produzioni di alto profilo. Nell’immediato, però, non mette al riparo da ulteriori scippi.
Emanuela Minucci
Andrea Rossi