ebook di Fulvio Romano

mercoledì 25 marzo 2015

"Bisogna arrivare prima dei lupi"


LA STAMPA

Esteri

Sulla montagna in cerca dei resti

“Bisogna arrivare prima dei lupi”

Solo mulattiere portano al luogo dello schianto, difficilissimo il compito dei soccorritori

Un testimone: “Un rombo, poi ho visto l’aereo scendere, come se volesse atterrare”

L’unica strada per il disastro è uno sterrato lungo cinque chilometri. Alla guida di questa Jeep gialla 4x4 c’è Bernard Mollet, il maestro di sci più esperto del paese. Prima di mettere in moto, aveva detto: «Lassù, a quota 1480, sul Col del Mariaud, ci sono solo cascine abbandonate, alpeggi e lupi. I vostri lupi italiani...». Ma adesso ha smesso di parlare. A ogni curva, l’auto si infossa completamente nel fango, fino quasi a ribaltarsi. Salite. Tornanti. Buche. Strapiombi fra i boschi. C’è ancora un po’ di neve sui prati più alti, ma la primavera è già arrivata anche qui, dove hanno chiuso gli occhi i 150 passeggeri del volo Germanwings, partito da Barcellona e diretto a Duesseldorf.

«Ho sentito il frastuono dei motori, ma pensavo fosse un’esercitazione militare», ha detto Bernard Guirand. «Stavo pascolando le greggi, quando ho visto l’aereo troppo basso, come se stesse planando» ha spiegato il pastore Stephane Del Pais.

Tutti indicano la vetta di quella montagna laggiù, stretta al fondo di una gola. L’Italia, la provincia di Cuneo, è dall’altra parte, dopo il Parco del Mercantour. Da qui bisogna partire, quindi. Non c’è scelta. È l’unica strada percorribile. L’unica strada esistente. Si snoda dal centro di questo paesino di 110 abitanti, con tre skilift, un solo bistrot e l’albergo «Le domeine du Vernet», tutto occupato da poliziotti e giornalisti. C’è molta concitazione, nessuna chiarezza. È veramente difficile capire cosa sia successo, perché è veramente difficile arrivare sul luogo della tragedia. Intorno alle 10,50 c’è stato l’ultimo avvistamento radar. È in quel momento che il pastore Del Pais ha alzato gli occhi al cielo. «Non era in picchiata, non veniva giù perpendicolare», dice. «Era come se stesse cercando un atterraggio disperato». Ed è questa, almeno per quanto ci è dato sapere, l’unica testimonianza diretta. L’unico avvistamento, che precede la tragedia. «Il fatto è che gli aerei militari della base di Hyères vengono a fare le esercitazioni proprio in questa zona», ci spiega Bernard Guirand. «Ecco perché nessuno ha fatto troppa attenzione a quel frastuono di motori». A un certo punto però, il rumore è finito. Di colpo. Quando l’Airbus A320 si è infilato nella gola, fra queste montagne strette.

Adesso Bernard Mollet sbuffa e si butta sotto il costone. «È una bruttissima strada - dice - con un’auto normale è impossibile percorrerla». Quando scendono i soccorritori, le manovre sono molto complicate. E lì che li guardi in faccia: non hanno più gli occhi febbrili come all’andata. «Purtroppo non c’è niente da recuperare», dicono dal finestrino.

«È tutto distrutto»

Per percorrere questi cinque chilometri servono più di trenta minuti. Siamo ormai in prossimità della fine della strada, quando i poliziotti ci bloccano. Troppo pericoloso proseguire oltre. È qui che incontriamo Jean-Louis Bietrix. Indossa una tuta da sci azzurra, organizza trekking, conosce questi valli a memoria, per questo si è offerto di accompagnare i mezzi di soccorso. Ma ora sta tornando indietro a piedi, da solo, gli occhi bassi: «Non ce la faccio - dice - la scena è troppo brutta. L’aereo ha picchiato contro la montagna, poco sotto la cresta. È tutto distrutto. Si vedono solo piccole parti bianche, sono disperse nel raggio di centinaia di metri. Il pezzo più grande, credo sia la coda, sarà al massimo lungo due metri. Io so bene quanto è grande un Airbus 320. Non riesco a credere a quello che ho visto...».

Nessun superstite

Fra le notizie imprecise e anche sbagliate che sempre si rincorrono in giornate tragiche come questa, c’era anche quella che riguardava un superstite. Qualcuno, addirittura, azzardava: «Da lontano hanno avvistato un corpo nella neve, sembra muoversi». Cercavi conferme in ogni faccia, in ogni sirena. Ma in realtà bastava provare a salire per questa strada di montagna, a tratti quasi un mulattiera, per rendersi conto di quanto fosse assurdo anche solo ipotizzarlo. Non c’era la neve, non c’era nessuno corpo. Peggio. «I resti umani sono straziati, frammenti di persone», ha detto il deputato Cristophe Castaner. Così straziati che i soccorritori, adesso e per tutto il pomeriggio, vanno avanti e indietro senza sapere bene cosa fare. Anche gli elicotteri dei vigili del fuoco e dell’esercito, che continuamente sorvolano la zona, tornano al campo base di Seyne-les- Alpes così come sono partiti: nessun cadavere era ancora stato portato indietro alle 22 di ieri. «Il più grande problema che abbiamo adesso è mettere la zona in sicurezza», dice un poliziotto. Al riparo da cosa? «Dai lupi».

Ecco di cosa si stanno occupando tutti giù in paese. «Dobbiamo mettere agenti di guardia per tutta la notte, organizzare dei turni, accendere dei fuochi, portare i fucili», gracchia la radio dei soccorritori. Molti, a La Vernet, ti raccontano questa specie di guerra. L’Italia e la Francia che si scambiano accuse, e anche carte bollate, su chi sia il responsabile del ripopolamento. Ecco perché Bernard Mollet ci aveva tenuto a precisare: «Sono lupi italiani».

Non c’è pace per le vittime del volo Germanwings. Di notte la temperatura scende ancora sotto zero. La figlia del sindaco, Josephine Balique, gira per le strade del paese e cerca di aiutare tutti, ma il brutto è questo senso di impotenza. «Nessuna notizia, purtroppo», dice quasi scusandosi. Accendevano dei fuochi in quota contro i lupi, mentre l’unico Bistrot teneva le luci spente. Il suo proprietario ha origini italiane, si chiama Daniel Di Benedetto. Non se la sente di lavorare. «Stavo tagliando la legna, quando è successo. Ho sentito un’esplosione fortissima. Sono corso in strada a vedere. Un filo di fumo nero si alzava nel cielo, proprio là. Chissà chi c’era sul quel volo, penso alle storie di quelle persone. È una giornata così triste... Ho solo voglia di pregare».

niccolò zancan


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