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Ditegli qualcosa
Uno vorrebbe anche parlare d’altro, ma non si può: ormai arrivano soltanto lettere come questa. «Caro Massimo, sono un comunissimo italiano residente in un comunissimo paese del Friuli, con una moglie e una bimba piccola. L’unico aspetto non comune, ma forse lo è fin troppo, è che sono da quattro anni in cassa integrazione, mia moglie ha un lavoro che finirà a breve e non sappiamo cosa ci aspetterà domani. Quando esponi la tua situazione lavorativa, gli altri tendono a pensare che tu sia un nullafacente o peggio un idiota. La realtà è che mi sono impegnato per anni nei lavori socialmente utili e ho mandato in giro migliaia di curriculum per qualsiasi - credimi, qualsiasi - posto. E adesso sono qui a scriverti perché penso che la società d’oggi non vuole rendersi conto del baratro che si sta aprendo sotto i nostri piedi. Ho sempre lavorato dignitosamente, impegnandomi al massimo in ciò che mi veniva assegnato. Perché la faccia pulita dell’Italia deve morire di stenti? Non sopporto più che mia figlia mi chieda dove lavoro senza che io possa darle una risposta. Non posso pensare che a 40 anni io sia troppo vecchio per lavorare e che i 20 anni di lavoro che ho alle spalle non siano serviti a nulla. Non posso pensare che tutto a un tratto io non sia più in grado di svolgere un mestiere dignitoso. Questo è il semplice sfogo - scritto male, ma col cuore pieno di lacrime - di un padre di famiglia che crede ancora nei valori di onestà e dignità nel lavoro».
Ai piazzisti che si aggirano qui fuori con promesse mirabolanti per avere il mio voto, chiedo in cambio una cosa sola: che diano una risposta a quest’uomo.
Massimo Gramellini
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