ebook di Fulvio Romano

mercoledì 6 gennaio 2016

Alle radici del “piemontèis” c’è un’Italia in salsa transalpina ( Beccaria, La Stampa)

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Cultura



Il Grande Repertorio Etimologico Piemontese vede la luce

dopo quindici anni di lavoro: un dialetto arguto e concreto

È uscito l’attesissimo Rep, il Grande Repertorio Etimologico Piemontese (Centro Studi Piemontesi, pp. 1629, € 110) frutto di più di quindici anni di lavoro, che in oltre mille pagine redatte da una équipe di specialisti capitanati da Anna Cornagliotti documenta la storia delle parole del dialetto piemontese, di quelle ancora in uso e delle altre abbandonate. 

Oltre alle informazioni e alle discussioni etimologiche di grande interesse per lo specialista, su cui non mi soffermo, il nuovo vocabolario permette curiose scorribande tra voci ora familiari ora dimenticate, quelle che per secoli, in un Paese in cui la lingua nazionale era per i più quasi «straniera», hanno assicurato a molti parlanti un secondo livello, più liberamente familiare e casalingo, saporosi modi di dire, paragoni di singolare evidenza, locuzioni splendidamente concrete e corporee, nomi un tempo ben vivi sulle bocche dei nostri avi, nomi di erbe, piante, fiori, alberi, uccelli, animali, attrezzi, le cose insomma del creato e del lavoro che avevano a che fare con l’ambito dei loro interessi pratici. 

L’invenzione metaforica, si sa, nel dialetto è straordinariamente vivace. La si ritrova fitta e densa, passeggiando per diletto tra una voce e l’altra del «Rep». Tra i numerosi nomi dei cibi e delle cose che si mangiano, pilucco il nome di una pera che chiamavano gabavilan, gabbacontadino, bella ma perennemente immatura, conservava durissima il suo colore verdastro e acerbo sino alle prime gelate: dalle mie parti la chiamavano ciapacujun. Ci si muove tra un nugolo di lemmi colmi di humour: i nomi dell’avaro, dello scansafatiche, del tardo e dell’ottuso, e la serie colorita e infinita degli insulti subalpini. 

Messi sul gusto, non si finirebbe più di citare varietà di arguzie. Rimando al divertente francesismo petanler , come chiamavano la veste da camera corta che arriva alla base delle reni: «peto all’aria» alla lettera. Numerosissimi gli spagnolismi e i francesismi riguardano la terminologia del gioco, delle carte soprattutto. 

Curioso quel fé carlomagno, liquidare gli avversari, tenersi tutto il guadagno, non concedere rivincita, dal fr. «faire Charlemagne», con allusione alle vittorie dello storico sovrano. 

Il Rep offre il quadro ricco, complesso e articolato di un dialetto profondamente stratificato, mosaico di voci, sfolgorio di forme e nomi che arrivano, oltre che ovviamente dalla base latina, dal greco, dall’arabo, dal provenzale, dall’occitano, dallo spagnolo, e soprattutto dal francese. Tantissimi francesismi sono ancora del tutto correnti nel piemontese di oggi: buròper cassettone, branda per grappa (forma abbreviata dal francese «brandevin»), tirabossonper cavatappi, meisdabosch per falegname (fr. «maître de bois»), sagrín per dispiacere (fr. «chagrin»), e via seguitando. 

Di questi tempi violenti viene a mente il piemontese bataclan, chiasso, tafferuglio, francesismo di origine onomatopeica, da una base che esprime il rumore di oggetti che cadono, che battono il suolo cadendo. Molti gallicismi ovviamente sono andati fuori corso, da ridó tendina, ad agremán favore, a mitoné, far cuocere sulla stufa un cibo molto lentamente, a crajon lapis, a vinegrié oliera, e tantissimi altri.

Accennavo prima alle venature di realismo e concretezza che i dialetti contengono. Si vada allora al lemma bertavlé, ciarlare, posto che bertavèl era in piemontese quel congegno che faceva oscillare come lingua che si dimena lo staccio del mulino o la griglia del ventilabro. Anche i concetti, il mondo dell’attività intellettuale, o delle passioni, in dialetto trovava le vie della concretezza. Si veda la voce davané, che dal senso concreto di dipanare, innaspare, aggomitolare passa immediatamente al significato vulgato di vaneggiare, farneticare, dir cose fuor di proposito.

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Gian Luigi Beccaria


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