Cultura
A Davos le incertezze
dei big dell’economia
(L’ipocrisia, non la neve, è il vero habitat naturale del Wef)
È facile dimenticarsi dei problemi del mondo al party di Google a Davos. Tra calici di Bollinger Grande Année, bocconcini di agnello in salsa cinese e la grande voce di Aloe Blacc sul palcoscenico, non sembra proprio il momento di parlare di sperequazione sociali, estremismo religioso e difficoltà economiche. L’élite va lasciata in pace a festeggiare se stessa. Ai grattacapi ci si pensa domani se la testa non duole troppo.Ma all’improvviso su tutti gli smartphone arriva la notizia della morte del re saudita, una folata di inquietudine si infila nella sala da ballo: cosa succederà adesso al prezzo del petrolio? La paura dura poco, si torna a ballare sulle note della dj bionda ma è chiaro a tutti che oggi in economia la serenità non è mai certa.
Da anni, i picchi alpini del paesino svizzero fanno da sfondo alla montagna di contraddizioni del World Economic Forum: potenti che parlano di ambiente, ma arrivano a Davos con il jet privato e l’ elicottero; imprenditori e accademici che spendono migliaia di franchi svizzeri per parlare della fame nel mondo; giornalisti (come me) che criticano l’evento, ma continuano ad andarci.
L’ipocrisia, non la neve, è il vero habitat naturale del Wef. Quest’anno non è stato un’eccezione anche se, per fortuna, la realtà è riuscita a perforare la bolla di Davos. Due momenti hanno fatto da alpha e omega al forum del 2015 e ricordato a tutti che siamo in una situazione economica precaria: la decisione-choc da parte della Banca centrale svizzera di rimuovere il legame tra il franco e l’euro; e l’annuncio di misure miliardarie di stimolo da parte della Banca centrale europea di Mario Draghi.
La mossa a sorpresa degli svizzeri è avvenuta pochi giorni prima del forum, ma era sulla bocca di tutti perché l’ascesa vertiginosa del franco nei confronti della moneta unica ha reso i prezzi da estorsione di Davos ancora più cari. L’unico modo per mangiare ai ristoranti del paese era di non guardare ai numeri sulla destra del menu. Come mi ha detto un banchiere, «per 90 euro non voglio una bistecca, voglio la mucca intera».
La rimozione dell’ancora tra il franco e l’euro è stata una professione d’impotenza dei banchieri centrali svizzeri, l’ammissione che non avrebbero potuto continuare a tenere la propria moneta artificialmente bassa per stimolare l’economia.
La decisione della Bce è l’esatto opposto: un robusto segnale a mercati, imprese e investitori che la Banca centrale fa sul serio. Comprare 60 miliardi di euro al mese di buoni del tesoro europei dovrebbe aiutare a tenere i tassi d’interesse bassi e pompare denaro nelle vene anemiche dell’economia.
La notizia – arrivata giovedì nel bel mezzo del forum – ha spaccato Davos. Alcuni dei potenti, soprattutto quelli di origine teutonica, l’hanno aspramente criticata, dicendo che postporrà le vere riforme (il mercato del lavoro per i giovani; il sistema delle pensioni, gli investimenti in attività produttive, ecc. ecc.) di cui l’economia europea ha disperatamente bisogno.
«È un cerotto», mi ha detto un investitore americano. «Gli europei stanno delirando se pensano che questo funzionerà». George Soros, il leggendario investitore, ha predetto che porterà a bolle nei mercati.
Ma altri l’hanno difesa, spiegando che, come la Federal Reserve e la Banca del Giappone prima di lei, la Bce non ha tante alternative. Non può abbassare i tassi d’interesse perché sono a zero da anni. E ha già tentato di spronare le banche a prestare soldi offrendo denaro a basso costo, ma senza grande successo. «È l’unica arma rimasta nell’arsenale della Bce. Hanno fatto bene ad usarla», mi ha detto il capo di un hedge fund.
Entrambe le posizioni sono basate, in parte, su falsità e pie illusioni. Cominciamo dall’idea, promulgata dai tedeschi, che l’aiuto monetario della Bce fornirà scuse ai governi del Sud Europa per non fare nessuna riforma a lungo termine.
Prima di tutto, i governi del Sud Europa hanno dimostrato di non aver bisogno di nessuna scusa per non fare nulla. La paralisi politica, le difficoltà sociali e l’incompetenza della classe dirigente bastano e avanzano. Secondo, alcuni governi ci stanno provando. A Davos, ho incontrato Matteo Renzi a pochi giorni dal passaggio della riforma delle banche popolari. Magari non è il gesto rivoluzionario che il primo ministro italiano ha descritto a noi del «Wall Street Journal», ma è certo un passo importante. E ci sono esempi simili in Spagna, Irlanda e Portogallo (meno, purtroppo, in Francia).
Detto questo, non è possibile sostenere che le misure di stimolo avranno l’effetto miracoloso di far ripartire l’economia della zona euro. Il parallelo con l’America, dove la Fed è riuscita ad evitare la depressione con provvedimenti simili, non funziona granché per via delle enormi disparità tra i due blocchi. Ne menziono solo la più grande: negli Usa, gran parte delle aziende ottiene denaro sui mercati delle azioni e delle obbligazioni. Visto che lo stimolo influenza direttamente i mercati del capitale, è normale che abbia (più o meno) funzionato in America. In Europa, dove le banche fanno la parte del leone nei finanziamenti all’impresa, non è chiaro che questo sia lo strumento giusto.
Alla fin fine, la questione è semplice. L’effetto più diretto delle politiche della Bce sarà sulla moneta. Con i tassi bassi e più denaro sui mercati, l’euro si indebolirà. Nel corso di una settimana, la moneta unica è caduta di più del 3% nei confronti del dollaro ed ora vale $1.12. Renzi ci ha detto che lui addirittura sogna un giorno in cui l’euro e il dollaro saranno allo stesso livello.
La svalutazione è un vero regalo per economie legate alle esportazioni quali l’Italia, la Spagna e persino la Germania che tanto protesta. Con il dollaro in ascesa perché la Fed alzerà i tassi d’interesse nel 2015, il franco svizzero alle stelle e le monete asiatiche anch’esse molto forti, beni e servizi europei costeranno molto meno agli stranieri. Come se non bastasse, il petrolio è a prezzi stracciatissimi, un altro elemento positivo per un importatore di materie prime quale l’Europa.
Niente di ciò è una panacea, ma non è nemmeno un cerotto. È un’opportunità enorme per imprese grandi a piccole da Berlino a Bari di arrestare il ristagno economico. Se l’Europa la coglie, avrà tempo di per fare qualcosa di più serio e duraturo.
E se la spreca? Beh, se la spreca, verrà il momento, come canta Aloe Blacc, di «alzarsi e guardare il sole in faccia senza girarsi e scappare via».
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario
del «Wall Street Journal» a New York.
Francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter: @guerreraf72