STARDUST MEMORIES 2
LINGUEGLIETTA, LA CAMPAGNA, IL CIELO.
Lingueglietta era per noi la campagna. Strano che la trovassimo lì, a pochi passi dal mare, noi che eravamo partiti - come tutti i piemontesi- a cercare il mare, il sale, la nuotata. Invece furono le rane a farci capire che era lì la campagna, quella mitica, dei nostri ricordi infantili, delle prime - ormai lontane- notti passate fuori di città, tra lenzuola che sapevano di lavanda e vaghi flussi profumati di fieno.
Le rane - fu questo il primo richiamo contadino - che urlavano alla luna di notte - ci facevano pensare ad un sommerso misterioso e selvatico, un po’ come più tardi avremmo ritrovato nei quadri di Gianni Del Bue, con i loro esotici rinoceronti (!) che fanno uscire il corno dall’acqua delle vasche di Ponente. E poi l’anima contadina del paese ci aveva -per così dire- aggrediti quando, con la guida ruvida ma sapiente di Fifina , avevamo visitato quella che sarebbe diventata la nostra casa ("è in bella posizione, ha un ingresso romantico...!").
Un antro di sassi scomposti in cui svolazzavano enormi pipistrelli scuri che ci fecero abbassare la testa, perché - “certamente non è vero, ma non si sa mai"- le ratavouloire ti si attaccano ai capelli e ti “ammascano" come fossero perfide e mollicce streghe volanti.
Il terzo segno che era questa "la campagna" per antonomasia era il mandorlo che entrava pimpante da quella che allora era soltanto una breccia-finestra. Un mandorlo dalle foglie verde pisello in primavera, quanto mai vitale (c’è ancora oggi, ma rieducato, ridotto a siepe-salva-privacy) che ad ogni stagione ci costringeva a elaborate e ingombranti "potature verdi” che poi finivano in pasto ai conigli del paziente Giacômìn, ferroviere contadino, nostro gentile vicino e produttore di poche e preziose bottiglie del miglior vermentino del paese.
Ma fu lo spettacolo notturno del cielo stellato a convincerci che, per chi cercava il buio dei cieli d’antan, era quella una delle ultime Tule, un vero e proprio sogno “astronomico" ad occhi aperti. L’oscurità era allora totale, o quasi. Certo, non quella degli Anni ’50 o giù di lì, che come ci raccontava ”la Svizzera”, Jacqueline, era rotta nelle stradine del paese soltanto dalle torce attaccate ai muri. Jacqueline si era innamorata di Lingue, lei e la sua famiglia, dopo un viaggio in Grecia. Un amore sbocciato perché vi aveva ritrovato le pietre, gli ulivi, i paesaggi delle isole, insieme ai corpi atletici e bruni degli uomini e le movenze eleganti delle donne, che ancora erano use portare le brocche d’acqua in equilibrio sulla testa.
I carrugi di Lingue ora erano illuminati non più da torce ma da lanterne di ferro battuto, elettriche, eleganti e disposte strategicamente ad illuminare anche gli angoli bui. Fuori, al di là del limite esterno delle case-mura, nereggiava nella notte il mare, un largo buco buio da cui vedevamo però sbucare stelle che non eravamo mai riusciti ad osservare prima al loro sorgere. Uno spettacolo vedere il primo alzarsi sull’orizzonte di Orione e divertirsi a calcolare di quanto fosse cambiata dai secoli degli Egizi la sua data, che -per loro- era anche quella dell’arrivo dell’inondazione del Nilo.
La Via Lattea da Lingue riuscivamo di nuovo a vederla netta, come fossimo sulle nostre montagne, come in quella favolosa notte al rifugio Morelli, sotto l’Argentera, notte di stelle che nessuno poteva presagire foriera, il giorno dopo, di una settembrina e precoce tempesta di neve.
Inutile dire che, quando una notte scorgemmo con orrore un faro arancione accendersi e sputare una luce invasiva e dispettosa dalla dirimpettaia collina delle “Batterie” fino alle nostre finestre ad ostacolare la nostra tranquilla ed irenica visione notturna, l’irritazione fu molta e non mancammo di esprimerla a Giuseppe, il consigliere comunale che rappresentava allora Lingue nel consesso di Cipressa. Ci guardavano, come succede a tutti gli amanti del cielo, se non matti, un po’ strani. La luce era ed è ancora simbolo del progresso e non era proprio il caso "che dei “cittadini” per di più “foresti" venissero qui ad ostacolare quello che a casa loro è, appunto, “di casa”, normale .”
Le rane - fu questo il primo richiamo contadino - che urlavano alla luna di notte - ci facevano pensare ad un sommerso misterioso e selvatico, un po’ come più tardi avremmo ritrovato nei quadri di Gianni Del Bue, con i loro esotici rinoceronti (!) che fanno uscire il corno dall’acqua delle vasche di Ponente. E poi l’anima contadina del paese ci aveva -per così dire- aggrediti quando, con la guida ruvida ma sapiente di Fifina , avevamo visitato quella che sarebbe diventata la nostra casa ("è in bella posizione, ha un ingresso romantico...!").
Un antro di sassi scomposti in cui svolazzavano enormi pipistrelli scuri che ci fecero abbassare la testa, perché - “certamente non è vero, ma non si sa mai"- le ratavouloire ti si attaccano ai capelli e ti “ammascano" come fossero perfide e mollicce streghe volanti.
Il terzo segno che era questa "la campagna" per antonomasia era il mandorlo che entrava pimpante da quella che allora era soltanto una breccia-finestra. Un mandorlo dalle foglie verde pisello in primavera, quanto mai vitale (c’è ancora oggi, ma rieducato, ridotto a siepe-salva-privacy) che ad ogni stagione ci costringeva a elaborate e ingombranti "potature verdi” che poi finivano in pasto ai conigli del paziente Giacômìn, ferroviere contadino, nostro gentile vicino e produttore di poche e preziose bottiglie del miglior vermentino del paese.
Ma fu lo spettacolo notturno del cielo stellato a convincerci che, per chi cercava il buio dei cieli d’antan, era quella una delle ultime Tule, un vero e proprio sogno “astronomico" ad occhi aperti. L’oscurità era allora totale, o quasi. Certo, non quella degli Anni ’50 o giù di lì, che come ci raccontava ”la Svizzera”, Jacqueline, era rotta nelle stradine del paese soltanto dalle torce attaccate ai muri. Jacqueline si era innamorata di Lingue, lei e la sua famiglia, dopo un viaggio in Grecia. Un amore sbocciato perché vi aveva ritrovato le pietre, gli ulivi, i paesaggi delle isole, insieme ai corpi atletici e bruni degli uomini e le movenze eleganti delle donne, che ancora erano use portare le brocche d’acqua in equilibrio sulla testa.
I carrugi di Lingue ora erano illuminati non più da torce ma da lanterne di ferro battuto, elettriche, eleganti e disposte strategicamente ad illuminare anche gli angoli bui. Fuori, al di là del limite esterno delle case-mura, nereggiava nella notte il mare, un largo buco buio da cui vedevamo però sbucare stelle che non eravamo mai riusciti ad osservare prima al loro sorgere. Uno spettacolo vedere il primo alzarsi sull’orizzonte di Orione e divertirsi a calcolare di quanto fosse cambiata dai secoli degli Egizi la sua data, che -per loro- era anche quella dell’arrivo dell’inondazione del Nilo.
La Via Lattea da Lingue riuscivamo di nuovo a vederla netta, come fossimo sulle nostre montagne, come in quella favolosa notte al rifugio Morelli, sotto l’Argentera, notte di stelle che nessuno poteva presagire foriera, il giorno dopo, di una settembrina e precoce tempesta di neve.
Inutile dire che, quando una notte scorgemmo con orrore un faro arancione accendersi e sputare una luce invasiva e dispettosa dalla dirimpettaia collina delle “Batterie” fino alle nostre finestre ad ostacolare la nostra tranquilla ed irenica visione notturna, l’irritazione fu molta e non mancammo di esprimerla a Giuseppe, il consigliere comunale che rappresentava allora Lingue nel consesso di Cipressa. Ci guardavano, come succede a tutti gli amanti del cielo, se non matti, un po’ strani. La luce era ed è ancora simbolo del progresso e non era proprio il caso "che dei “cittadini” per di più “foresti" venissero qui ad ostacolare quello che a casa loro è, appunto, “di casa”, normale .”
(L’ora è di nuovo tarda e altre cose urgono)
F.R.
Nella foto: Tramonto sui monti dei Maures (Saint Tropez)
http://www.facebook.com/events/116246375382760/ (Link dell’evento: Il cielo di Lingueglietta, 25 luglio, ore 21)