Cultura
Cominciato come una sfida sulla fine del bicameralismo paritario, il referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale è stato trasformato, da protagonisti e comprimari, in una sorta di Giorno del Giudizio su quasi tutto lo scibile umano. Questioni come il destino del governo, il peso del Paese in Europa e perfino la tenuta democratica del sistema hanno via via soppiantato, nella propaganda referendaria, il vero tema in oggetto.
Una riforma che avrebbe certo potuto avere più «profondità e chiarezza» - per dirla con Romano Prodi - ma che comunque conferma (all’interno e all’estero) la volontà di proseguire sulla strada del necessario cambiamento del Paese.
E non è solo il merito della riforma proposta a render più utile (necessario) un Sì: anche le altre questioni inopportunamente tirate in ballo (dalla stabilità interna al riflesso internazionale dell’esito del voto) possono esser meglio affrontate - a giudizio di chi scrive - dopo una vittoria del Sì, piuttosto che all’indomani di una sua sconfitta. Da qualunque lato si prenda la questione, insomma - sia che si faccia prevalere il giudizio di merito, sia che si voti pensando agli effetti politici del risultato - il Sì appare la risposta migliore.
Nel merito, il discorso è mesto ma semplice: in una riforma che poteva esser certamente più profonda e innovatrice, gli aspetti positivi superano quelli negativi. A fronte della situazione in cui versa l’affaticato (eufemismo) sistema istituzionale italiano, meglio cambiare che lasciare tutto com’è. I fautori del No, con ottimismo di maniera, sostengono che una riforma migliore è possibile: bene, ci mettano mano nella prossima legislatura e lo dimostrino. Certo, fare e disfare non ha gran senso: ma è già accaduto (col famoso titolo V) e nulla impedisce a questa agguerrita schiera di «riformatori in sonno» di lavorare ad un progetto di riforma migliore (ma vedrete che, passato il referendum, nessuno ne parlerà più...).
Ancor più evidente è l’opportunità di un Sì se si riflette sugli effetti - in Italia e in Europa - di una eventuale vittoria del No. Per stare al nostro Paese, ci si ritroverebbe sicuramente senza un governo, con di fronte orizzonti incerti e scuri (eufemismo) e la quasi sicurezza che qualunque nuova soluzione di governo venisse trovata sarebbe più debole, disomogenea e precaria di quella attuale. Non è situazione nella quale risulterebbe piacevole ritrovarsi: soprattutto alla luce del fatto che sarebbe necessario lavorare a due nuove leggi elettorali rispetto alle quali i fautori del No hanno idee distanti e talvolta opposte.
Per quanto riguarda gli effetti che una sconfitta del Sì avrebbe invece in Europa, si può abbozzare una duplice previsione. La prima: un ulteriore rafforzamento del «vento populista» che spazza il continente (e non solo) e che dopo l’Italia è pronto a investire Francia e Germania, attese da elezioni delicatissime. La seconda: un nuovo indebolimento del Paese sulla scena europea, e non solo per l’ennesima crisi di governo - con conseguente cambio della guardia - ma anche per quello che sarebbe interpretato come il segnale della fine di un processo riformatore al quale l’Europa ha guardato con speranza ed interesse.
Le cose, dunque, stanno più o meno cosi. E Renzi? Ci teniamo Renzi? Renzi merita di esser giudicato alle elezioni: elezioni che molti ipotizzano vicine e che potrebbero segnare, per il Paese, un doppio salto mortale all’indietro. Nel fuoco della campagna referendaria, infatti, non solo si è decretata la morte dell’Italicum (e del bipolarismo) ma si è anche orientata la bussola verso un ritorno al sistema proporzionale e delle preferenze. Precisamente come nella vituperata e mai rimpianta Prima Repubblica italiana.
Federico Geremicca