Si tratti o no dell’ultimo capitolo di una vicenda che se fosse un film s’intitolerebbe «Il lungo addio», la scissione di cui fino a tarda sera i due tronconi del Pd si rinfacciavano le responsabilità avrà subito conseguenze disastrose sul governo, sul Parlamento e sul Paese. Per questo, da Renzi e dai suoi avversari, ci si sarebbe aspettati un di più di cautela e lungimiranza, invece dello psicodramma a cui si è assistito. Un partito che esprime il Capo dello Stato, il presidente del Consiglio, la gran parte dei ministri, i presidenti di quindici regioni su venti, i sindaci di grandi città (anche se non più Roma e Torino), i vertici delle maggiori imprese di Stato - e l’elenco potrebbe continuare -, un partito che pur senza aver vinto le elezioni si trova ad assolvere il ruolo di architrave del sistema, peraltro traballante, ecco, un partito così, prima di dividersi e aprire consapevolmente una fase di instabilità, avrebbe dovuto quanto meno pensarci meglio.
Eppure non si può dire che non ci abbiano riflettuto, anche se la sensazione rimasta, dopo una ventina circa di ore di dibattito da martedì in poi, è di aver seguito un copione scritto in anticipo, con la minoranza che fino all’ultimo ha contestato a Renzi, dopo la sconfitta al referendum del 4 dicembre, la legittimità di guidare il partito.
E ancor più quella di ricandidarsi alla segreteria, accusandolo di voler dar vita a un congresso-farsa. E l’ex premier che al massimo ha cercato di spaccare il fronte dei suoi avversari, e a un certo punto, complice l’intervento conciliante del governatore della Puglia Emiliano all’assemblea, sembrava quasi esserci riuscito.
Sulla carta, fino a domani, tutto è possibile, anche se ciascuna delle due parti in lotta, per favorire una ricomposizione, dovrebbe perderci la faccia. Ma a volte anche l’imprevedibile si realizza: basterebbe, in fondo, che i contendenti sollevassero gli sguardi dai rispettivi ombelichi, o aprissero le finestre delle stanze in cui s’è svolto il loro braccio di ferro, per accorgersi di ciò che potrebbe accadere. Il governo, finora condannato dalle incertezze del Pd a una precaria navigazione, condotta solo grazie alla pazienza e alla perizia del nocchiero Gentiloni, da oggi non ha più una chiara maggioranza al Senato né nelle principali commissioni parlamentari. Chissà con quali argomenti il ministro dell’Economia Padoan si ripresenterà stamane a Bruxelles, per discutere con i suoi interlocutori europei del dissesto dei conti pubblici e della necessità o meno di una manovra.
Le Camere che dal 5 dicembre lavorano, sì e no, un giorno e mezzo a settimana, per mancanza di accordo politico anche sulle questioni più urgenti, avranno in compenso due nuovi gruppi parlamentari, con presidenti, vicepresidenti e relativo appesantimento del lavoro, già affollato di rinvii, delle conferenze dei capigruppo, che dovrebbero fissare il calendario delle principali discussioni e votazioni del Parlamento, ma da due mesi e mezzo faticano a farlo.
Nel frattempo, nel Paese, non potrà che accentuarsi la campagna elettorale permanente che si trascina da quattro anni: da quel 25 febbraio 2013, cioè, in cui gli elettori italiani non riuscirono ad esprimere nelle urne uno straccio di equilibrio politico che consentisse al Parlamento di dar vita a una maggioranza stabile e a un governo. Fino al 4 dicembre, inaspettatamente, era stato miracoloso il percorso virtuoso delle riforme, abbattute tutt’insieme dal voto referendario. Si trattava, adesso, in condizioni sempre più complicate, di riportare in porto in tempi e modi razionali la nave della legislatura. Ma anche questa ragionevole prospettiva è stata capovolta dall’assemblea del Pd che ha sancito la rottura. Nei suoi oltre vent’anni di vita, il centrosinistra, e poi l’Ulivo, l’Unione e il Pd, ci avevano abituato a ogni sorta di turbolenza. Ma un suicidio così perfetto non si poteva neanche immaginare.
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