Cultura
La minaccia
all’ex premier
Per capire cosa sta accadendo nel Pd non bisogna andare troppo lontano.
E neppure troppo indietro nel tempo. Come nel 1993, dopo il referendum del 18 aprile che sancì la fine della Prima Repubblica, il maggior partito di governo è scosso da tensioni politiche, orizzontali, verticali, trasversali, che non riguardano solo la maggioranza renziana e la minoranza bersaniana, ma tutte le correnti al loro interno, per gli esiti del voto referendario del 4 dicembre 2016. Che ha sancito una sorta di inversione a “U” della politica italiana, dalla Seconda Repubblica alla Prima, dal maggioritario al proporzionale, dall’epoca delle leadership forti, a quella, durata quarantacinque anni, dal 1948 appunto al ’93, della partitocrazia e dei governi nati in Parlamento.
Ventiquattro anni fa i Popolari (ex Dc) e il Pds (ex Pci), cioè i due principali soci del Pd, arrivarono all’appuntamento del referendum consapevoli, ma impreparati. E pur avendo contribuito all’approvazione della nuova legge elettorale, il «Mattarellum», che inoculava nel meccanismo maggioritario scelto dagli elettori una quota del vecchio proporzionale, alla resa dei conti si dimostrarono incapaci di partecipare al gioco, presentandosi divisi nelle elezioni del 27 marzo 1994 e favorendo la vittoria di Berlusconi.
Subito dopo, abili nella manovra parlamentare di cui erano maestri nella Prima Repubblica, detronizzarono l’ex Cavaliere, capovolgendo, grazie a un «ribaltone», la sua maggioranza nelle Camere, e lo sconfissero, stavolta coalizzati, nelle urne nel ’96, approfittando della scelta di Bossi di rompere l’alleanza di centrodestra. Fin qui, è ormai storia. Come lo è il fatto che solo Prodi, nel ’96 e nel 2006, sia riuscito a vincere su Berlusconi, mentre i leader della coalizione giunti alla guida del governo per vie parlamentari, come D’Alema e Amato, non poterono presentarsi con la loro faccia, e anche gli altri, vedi Rutelli e Veltroni, pur conseguendo risultati elettorali lusinghieri, nella partita uno contro uno risultarono sconfitti.
Era poi evidente, in tutti questi anni, che una larga parte del centrosinistra rimpiangesse la vecchia partitocrazia. Lo si intuiva dal modo in cui si erano battuti contro le riforme costituzionali e soprattutto contro la legge maggioritaria a due turni proposte da Renzi, e se n’è avuta conferma in occasione del referendum del 4 dicembre, quando il Pd, formalmente, aveva preso posizione per il «Sì», ma una larga fetta del suo apparato, D’Alema e Bersani in testa a tutti, s’è schierata con il «No».
Ma il paradosso è che di fronte a una situazione nuova - o vecchia, secondo i punti di vista - come quella del ritorno al proporzionale, Renzi rischi di fare un errore eguale, ancorché opposto, a quello compiuto da Occhetto e Martinazzoli nel ’93. Mentre Berlusconi ha subito intuito il cambiamento, ha raffreddato di molto i rapporti con i suoi ex alleati e si prepara a correre per Forza Italia, costi quel che costi, sapendo che la partita vera si aprirà dopo il voto, il segretario del Pd si muove ancora con la logica dell’uomo forte con cui ha guidato il partito e il governo. Sottovalutare le numerose candidature alla guida del suo partito, gli annunci di scissione, le promesse di collaborazione che seguono alle separazioni, significa non aver capito che tutto ciò che sta accadendo è frutto della riedizione (o brutta copia) del sistema partitocratico, in cui ognuno porta la sua piccola dote a un ammasso di cui niente si sa, ma di cui presto o tardi salterà fuori un federatore. Può darsi, come Renzi si augura, che il suo Pd, benché acciaccato, raggiunga il 40 per cento, conquistando a dispetto di ogni previsione il premio di maggioranza che la Corte costituzionale ha collocato nell’iperuranio. Ma se non ci riesce, il rischio vero, per il Rottamatore, è ritrovarsi all’opposizione, sepolto dalle macerie della Seconda Repubblica.
Marcello Sorgi