Imperia
Un’epopea che sfonda nella poesia
Un’epopea che sfonda nella poesia
Era unito a Italo Calvino dall’amicizia e da un legame che aveva i colori della Riviera
Coetanei, diversi di carattere e lignaggio eppure più simili di quanto potessero sembrare, uniti da quella ligusticità che li caratterizzerà per tutta la vita. Italo, il liceale compagno di banco di Eugenio Scalfari al Cassini, che diventerà partigiano e sommo scrittore, è a ben vedere la figura allo specchio di Libereso, il giovane contadino che diventerà il saggio custode dei segreti delle piante, della macchia mediterranea.
Non sappiamo molto dell’incrociarsi dei destini giovanili dei due ragazzi di casa Calvino (ci sarebbe, in effetti, anche il fratello più giovane di Italo) ma conosciamo le parole. Già dai Sentieri dei nidi di ragno, primo romanzo di Italo, la descrizione della collina e della montagna è un trionfo di paesaggio ligure, dove il verde e il brullo si mescolano per fare da quinta ai dialoghi degli incoscienti e tormentati giovani sanremaschi che scelsero da che parte stare dopo l’uccisione di Felice Cascione ad Alto, sulle alture di Albenga.
La ligusticità, nei Sentieri, diventa quasi epopea ma si trasforma in poesia nel trittico degli antenati, il Barone Rampante soprattutto, dove il nobile che abbandona la terra, intesa come terreno, adatta il mondo arboreo a suo mondo, quasi a sottolineare come la Liguria fosse verde e popolata di alberi più che cemento e uomini. Poi la denuncia, l’invettiva civile, quel racconta sulla Speculazione edilizia che costerà a Calvino l’ostracos perenne della sua ormai martoriata e moralmente irrecuperabile città (lo scrivo con la morte nel cuore, visto che è anche la città di mio padre). Poi, con la maturità, il rimpianto che addolcisce il ricordo e così, ecco il racconto intimo, famigliare, splendido della Strada di San Giovanni dove Italo racconta l’ormai anziano padre che continua a curare l’orto e con i cavagni pieni di verdura attraversa la pigna di Sanremo tra l’orto, tra i muretti e secco, i fiori e gli olivi, e la casa del centro storico.
È qui, in questo racconto, che ci piace vedere Libereso, barba anarchica e poche parole, capaci di invettive e pronto a salire a San Romolo per fuggire la Speculazione edilizia e ritrovare quella Sanremo fatta di limoni, gamberi e aragoste intrappolate nelle nasse del porto vecchio.
La storia è finita ieri. E Sanremo, almeno quella parte che non cede, ha il dovere di ricordare quei due giovani vecchi, quello che raccontava la ligusticità in italiano forbito e quello che la raccontava in dialetto. Forse sono la stessa persona.
STEFANO PEZZINI